*Questa recensione è stata pubblicata su «Librobreve», il 9 maggio 2016. La riproponiamo su La Balena Bianca per gentilezza dell’autore e del gestore del blog, Alberto Cellotto.
Sabato 28 aprile, alle 17:30  Erika Crosara dialogherà con Alberto Cellotto e Lorenzo Cardilli presso il Caffè Colibrì (Via Laghetto 9/11, Milano), all’interno della rassegna di incontri poetici “Giri di Chiglia“.


 

Con Ius (Anterem Edizioni, 2010) Erika Crosara tenta una quadratura del cerchio: dati quattro angoli si generano i lati del quadrato (o sezioni) all’interno dei quali si inscrive la poesia con il suo fluire reiterato e circolare. Ogni angolo ha il suo nome e il suo nume tutelare e da lì si parte tracciando una linea retta che porterà al prossimo angolo. Il movimento è avviato all’insegna della separazione, della dispersione, della negazione (DIS) e subito stabilisce la centralità che un’autrice come Amelia Rosselli ha avuto su Erika Crosara – e su molti altri del resto.

In questo primo lato del quadrato  è sancita la necessità di avviare un movimento, liberandosi dalla stasi. Movimento che è fuga dalla tradizione, dalla letteratura, o meglio emancipazione dagli autori dopo averli introiettati e assimilati («l’intero compendio degli scaffali, lo sconforto | verticale delle mattine, non al proto né | all’aspirata cortina dei sensi: via di qui»). Così, ci si allontana dalla voce degli altri e si avvia un movimento irrequieto, teso a individuare una dimensione personale, la profondità dalla quale diffondere la propria voce («ma io | in quale, rubicondo anfratto o pozzo»). Fuga che è un atto di violenza necessario, una ribellione rispetto ai legami e al peso della tradizione: per divenire autori o, ancor prima, per individuarsi, occorre praticare un taglio, una recisione, creando un vuoto, uno spazio da riempire («nessun grave che cada allora ma polsi di carta, arnesi di | carta pieni del giudizio. si ferma nelle orecchie un suono | di piccoli animali, quello che taglia apre due sponde, un vuoto»). Occorre quindi distruggere ciò che intrappola ed ergersi in piedi tra i frammenti («e il resto del resto | in piedi su vetri svuoti»), ma nemmeno questo è sufficiente per trasformare la caduta in movimento («solo molli cadute sui vetri e niente | che affacci, che provi a fermare il corredo | sfinito dei lacci»).

E allora la liberazione sarà la rottura definitiva dei lacci: il primo più semplice da tagliare, il secondo più arduo ma destinato ad avviare il movimento e a far conoscere la gioia al Sé («uno è tolto, emetico dentro il suo giaciglio, | […] l’altro, il continente della gioia, si avvia, quindi | si rompe»). Il movimento diviene quindi terapia, per quanto assurda, e determina un fluire dell’io che si scioglie in un sentimento di felicità e vede generarsi fiori e, in alcuni casi, frutti («andava mettendosi in testa l’intera serie dei nascondini | felicissimi. non era l’opposto bislacco, ma | un’assurda terapia: un fiore, di tanto in tanto un frutto»). Un movimento che si preannuncia  ritornante, circolare, reiterato e rituale («pensava in ogni occasione al marchio dell’inizio, al | marchio della fine. pensava anche alla forma del piatto. | se la capacità della sua custodia fosse sufficiente, al | gioco delle ruota: immondo, lindo… sbalordivano le | distanze, oltre i palmi, il modo di volgersi in processioni»), e che viene individuato, assieme alla propria voce, attraverso la negazione e la scelta di liberarsi da tutto ciò che non occorre e cela la propria essenza. E in effetti l’intera raccolta di Erika Crosara è disseminata di parole contrassegnate dalla particella fonica dis-, in alcuni casi con l’esplicita volontà di negare, in altri per innescare un gioco sonoro (dismessi; distanziamenti; distanza; discrete; di soggetti; disperata; distese; disdicevano; dissapore; distesa; disponeva; disappeso).

Il secondo angolo, IUS, si apre con una citazione da Antonio Porta che rileva come l’ordine stabilito, il diritto e le leggi siano controversi e celino un pericolo, un abuso di potere («Ambigua è la sciagura, | le sentinelle, i poliziotti») e difatti la prima parola della sezione è «paura». Il canto, la parola e la scrittura qui diventano atti pericolosi che rendono vulnerabile il soggetto e lo sottopongono a numerose difficoltà. Il movimento è perseguito ma si deve confrontare con il limite e il confine, superando il timore di oltrepassarlo («vai per il limite urbano»; «prendeva intere | serie di confini, e numeri da incartamenti vani»). Ma ecco che proprio in questa sezione appare una figura maschile, Salvatore che, nomen omen, è in grado di superare ogni limite, di scagliarsi oltre le barriere e i lacci («ma egli teneva in serbo il dono dell’epistassi. correva | giù con salti non si fermava nemmeno dove finiscono | i denti, il giorno è tanto corto, il compito tanto….»). Questa sua volontà dirompente lo condanna però alla solitudine e a una situazione di eccezionalità che lo pone altrove («si metteva fuori ad attendere […] | stava da un’altra parte»). La sezione si conclude con una macchina teatrale che permette in maniera definitiva di attuare il movimento, di percorrere ciclicamente lo spazio. Movimento che si dà come confluenza di soggetti e visioni diverse trascritte da un amanuense, come dire che la scrittura è la trascrizione delle varie voci e dei moti che percorrono – dall’interno – il soggetto («una machina di legno e gesso | capace di passare da parte a parte il ciclico, | lo statico. divisioni discrete di soggetti confluivano | e un amanuense»).

La terza sezione, PAÎS, sembra sancire il raggiungimento di una propria dimensione interiore che accomuna il soggetto ai piccoli animali, già incontrati precedentemente in DIS. La sensibilità e l’istinto del soggetto sono infatti equiparabili, e sono parole di Cristina Annino, agli uccelli e ai bambini («Provo una pena | concepibile solo dagli uccelli, dai bambini e dalla | sifilide»). In questa sezione il soggetto ha infine raggiunto il coraggio necessario per affermare se stesso, prendere il proprio spazio e riempirlo con la propria personalità: il movimento è stato attuato, ora occorre perpetrarlo e condurlo al termine, già si vede la sua fine e gli effetti che esso ha avuto su chi è partito e torna cambiato («tornava dalle freddissime terre indietro, dai | fondamenti di altre distese fino alle case imbiancate, | poi ai paesi vicini»). Movimento che occorre reiterare e poi trasmettere alla collettività, superando la dimensione del singolo: solo così sarà possibile la guarigione o perlomeno il mantenimento della propria salute. Occorre cioè passare da una dimensione passiva a una attiva («e tu dovresti cadere, se continui a guardare | ti verrà il malanno»).

La quarta e ultima sezione, SUS, SUIS, si apre con un verso di François Villon che sancisce la necessità di accettare il proprio compito anche se esso è fatica, ed equipara l’individuo a un animale da soma («– Tu as trente ans! – C’est l’aage d’ung mulet») . È il tempo della responsabilità, ma anche quello in cui l’individuo, giunto al termine del movimento liberatorio, è tenuto ad agire, a dare il suo contributo. Così, una signorina Vincenza si libera dai suoi ultimi lacci e si allontana dalla propria «noia corporale», assumendosi il rischio di fallire («però decise di | provare ugualmente sperando il guadagno»). E la vediamo allontanarsi mentre compie lo sforzo ultimo: superare i confini rassicuranti della propria città, ora che non può più ignorare il richiamo al viaggio, alla libertà («verso sera udiva con una vocazione sopraffina, con | conati di ribellione ultima, ecco diceva il quadrato | dello zelo in fondo al corso, prima della porta urbica | mi lascia senza forze»).  Movimento che però non è solo degli uomini: pertiene infatti anche all’universo e coinvolge i pianeti, le stelle e le loro interrelazioni («infatti cascavano | alcuni pianeti e l’intero complesso migrava da storto»).

Ma quando il viaggio è terminato e si deve fare ritorno al proprio guscio (coquilles – inevitabilmente ho pensato alle conchiglie di San Giacomo che dovevano attestare l’avvenuto pellegrinaggio una volta ritornati a casa), nasce anche l’esigenza di testimoniare il proprio percorso, la propria metamorfosi e trasformare gli appunti in una più ampia trascrizione («prendeva tutti gli appunti li sistemava al netto dei vivi | in scatole di media grandezza»; «da solo il poemetto della stura di carta»). Il viaggio origina quindi la scrittura e avvia il meccanismo che conduce da un coacervo di idee a un oggetto poetico in sé conchiuso («il tropo delle meraviglie. la perfetta materia del finire»). E infatti IUS si conclude con un testo in corsivo che potrebbe essere considerato sia inizio che fine del poemetto, del quale noi conosciamo quindi solo il prologo o l’epilogo e il percorso che ha portato alla scrittura («in un solo tempo, dove si attaccano le frange illuminate: | l’intera landa d’erba, le bande esilarate dell’erba anche, | dritte con punte e calmamente deposte»). IUS quindi come narrazione del moto della scrittura, come riflessione intorno all’esigenza intrinseca all’uomo di pensare il reale, trarne delle considerazioni e trascenderle, e allo stesso tempo trascendersi per lasciare delle tracce dietro di sé, coquilles, che un giorno un peregrino lettore forse raccoglierà.


Immagine: Gerhard Richter, Abstract Painting 439, 1978.