Ecco la nostra intervista a Enrico Palandri in occasione del Premio Narrativa Bergamo 2018, che verrà assegnato nell’Auditorium di Piazza Libertà, a Bergamo, sabato 28 aprile 2018. Lo scrittore racconta com’è nato il suo ultimo libro – “L’inventore di se stesso” – e spiega i motivi che portano una vicenda familiare a divenire metafora complessiva e proteiforme della vita.

 


 

Palandri - L'inventore di se stesso

“L’inventore di se stesso” è la storia di un uomo che mentre racconta la sua vita ricostruisce o tenta di ricostruire la storia del padre, e in questo tentativo di raccontare la sua vita e ricostruire quella del padre, sembra progressivamente perdere, più che trovare, l’identità che cerca. Quanto questa ricerca sulle tracce della storia del padre – che poi è la ricerca della Storia con la S maiuscola – è un tentativo di affrancarsi dal padre e quanto invece è un tentativo di trovare un legame che permetta di garantirsi un’identità?

È una parola interessante questa dell’identità, non so se io la userei. Nonostante capisca che il libro possa essere inteso così, nel senso che l’identità mi sembra sottolinei il problema del trovare se stessi… Il problema che abbiamo invece nella vita e che ho cercato di articolare in questo dialogo tra padre e figlio è che trovarsi e ritrovarsi non vuol dire solo incontrarsi: trovarsi vuol dire in qualche modo riuscire ad abitare le nostre relazioni con gli altri nel mondo, e in particolare questa relazione così complicata come quella che ha il narratore con il padre. Perché il padre, in questa relazione (ma in molte relazioni), è l’area in cui si forma la nostra sensibilità verso le cose, verso il mondo, verso la storia. Il problema non è tanto di trovare se stessi in questa cosa, ma piuttosto un contesto, un ambito che il personaggio secondo me riesce progressivamente ad abitare. Ed è un ambito che in fondo è la famiglia.

Cioè, che cosa vuol dire, ad un certo punto, fare dei figli, accettare una relazione con la generazione precedente, che non sia fatta solo di conflitto, o meglio, che capisca di che cosa è fatto questo conflitto. Il conflitto tra le generazioni è un conflitto in cui le generazioni si separano – io lo vedo sia dal figlio che dal padre – e cercano di tracciare una linea, che è una linea piuttosto arbitraria delle cose: perché non è che il mondo si interrompe tra le cose, però a un certo punto queste linee, questi confini sono piuttosto immaginari, sono soprattutto transitori. Per questo sono contrario alla parola “identità”: io non la userei perché la parola “identità” viene da “medesimo”, “idem”, e quindi dall’idea di mettere insieme, di far coincidere. A me invece sembra che nelle relazioni con gli altri noi non consistiamo tanto di questi punti fermi, ma invece è un continuo negoziato, è un continuo capire che che il padre inteso per la famiglia, o per la resistenza, o per la storia, o per l’Oriente in questo caso (la Russia, eccetera eccetera), rappresenta dei termini mobili, e che passando da padre a figlio da un lato vengono trasmessi, dall’altro vengono interpretati un po’ come noi facciamo veramente nella realtà.

Ecco, la cosa più importante in questa trasmissione è appunto il termine “padre”. Cosa vuol dire diventare padre? Il termine attraversa un po’ tutti i personaggi, i personaggi entrano ed escono, incluso il padre, incluso Gregorio, entrano ed escono da questo ruolo di padre: cioè è colui che sostanzialmente protegge, e serve, la vita degli altri. Questo è quello che fa un padre, e noi entriamo e usciamo da questo ruolo continuamente.

Ecco, nella sua risposta è comparsa una parola sulla quale volevo concentrare la prossima domanda. In questo tentativo di ricostruire il dialogo tra padre e figlio, acquista rilevanza, per una buona parte del romanzo, la Storia, su cui è proiettata la vicenda dell’antenato, la Venezia di incontro tra Occidente e Oriente, la Russia degli zar. È solo il frutto di un abbaglio cercare nella storia una cornice di significato in cui ritrovarsi nel rapporto con il padre o è effettivamente un orizzonte che manca adesso e che bisognerebbe cercare di ritrovare e ricostruire? È un leitmotiv stereotipato quello per cui viviamo in un tempo fuori dalla storia, privo di storia, in cui la storia si è fermata? Però mi sembra che in questo romanzo il tema venga quanto meno abbordato, avvicinato.

Avvicinato, sì. Questo padre e questo figlio si parlano poco… Il primo incontro tra padre e figlio: quando sono in ospedale e il padre viene a trovare il figlio che a sua volta ha appena avuto un figlio, e suggerisce un nome, e lo suggerisce senza rendersi conto veramente che quel nome che lui sta suggerendo è il proprio. E non se ne accorge perché, in quel momento, davvero non è il proprio nome ma rappresenta i nomi di questo casato… che danno un rapporto molto difficile, molto ruvido. Il figlio continua a proiettare sul padre tutti i disagi che ci possono essere in una relazione umana, ma anche la tenerezza e la nostalgia per questo rapporto che non c’è, per questa vicinanza che oramai non c’è stata, perché lui è un adulto; e gli dispiace, vorrebbe dirgli “siediti, sii un po’ con noi”. E invece il padre è avvolto da un dolore, da un lutto, perché in quell’ospedale è morta la moglie per un ictus: lui vive un fatto recente, e quindi  c’è questa onda che giustifica un po’ questo buio che viene di tanto in tanto dalla narrazione ad avvolgere e a creare silenzio intorno alla figura del padre. Quindi la difficoltà è data un po’ da questo.

Però è data anche da qualcosa che è sempre stata lì in mezzo a loro: cosa vuol dire che siamo una famiglia, cosa vuol dire che io e te siamo padre e figlio, se non riusciamo a dirci delle cose semplici, se tutto è occasione di dissidio, di scontro? Ecco, e la Storia, con la S maiuscola, diventa un po’ l’occasione, la conversazione, attraverso cui, un po’ casualmente, loro sciolgono questa difficoltà personale. E questa era l’altra cosa che mi stava molto a cuore mostrare. Ma questo l’ho fatto un po’ in tutti i miei libri, forse in questo è maturata meglio che in altri. Però io ho sempre cercato di raccontare eventi che individuavo, percepivo come più grandi delle soggettività delle persone che le attraversavano e di precipitarli, di farli precipitare all’interno di emozioni, di sentimenti, di relazioni di essere umani che abitavano queste epoche. E poi, naturalmente, man mano che passano gli anni questi problemi sono diventati più ampi, perché sono diventati l’Europa, sono diventati lo sradicamento, sono diventati l’immigrazione, l’emigrazione, sono diventati il rapporto: che è una parola che non mi piace proprio perché è così meccanica, mi sembra che appunto “individui” troppo.

In fondo io amo il romanzo e la poesia proprio perché non sono delle definizioni, perché sono delle metafore, perché sono degli specchi, perché sono la possibilità di pensare, di attraversare, di non dire “ho letto questo – come si fa a scuola -, poi lo porto a casa, il professore mi interroga, cosa c’era scritto lì, in che anno è successo…” Un po’ come succede quando facciamo una passeggiata, andiamo da un’amica, andiamo a trovarla senza sapere veramente cosa succederà. Non andiamo lì per dire “guarda che ieri mi hai detto che alle sette avremmo fatto questo e quest’altro”. È insopportabile, no? Ecco, questo contesto è cresciuto e in questo romanzo per la prima volta – perché mi auguro di scrivere ancora dei romanzi in cui questa cosa la riesco a usare – la storia per la famiglia Licudis è in gran parte immaginata, però poggia su delle cose molto reali… ed è l’occasione per queste loro conversazioni. Invece padre e figlio non riuscivano a parlarsi da un punto di vista così personale. Quando “aprono”, diventano più facondi, più umani, più vicini, e si avvicinano anche per questa cosa qui. E poi è una storia così stramba quella che il padre racconta al figlio, ma adesso non voglio svelare troppo perché ci sono dei colpi di scena…

Colgo l’occasione invece per fare una domanda sull’aspetto di struttura, di forma che però mi sembra che si ricolleghi a quello che ha appena detto. Nel raccontare questa storia il racconto è lineare ma, diciamo, ondivago: si salta a un certo punto un periodo lungo di anni in cui non succede niente apparentemente, poi capita un episodio specifico che però riapre una questione che era latente e quindi l’andamento del racconto è diciamo, divagante. La struttura è venuta fuori spontaneamente nel momento in cui si affronta il racconto di una vita, e allora si assume un passo che non è un passo regolare ma un passo che è condizionato dagli avvenimenti casuali e occasionali, oppure è stata una scelta pensata a freddo e poi realizzata nel corso della scrittura?

Sì, è interessante… ne ha scritto un po’ Matteo Marchesini sul Sole. Diceva: un romanzo un po’ scarnificato, così… Però, a me francamente ciò che interessa nella pagina scritta è l’evento. Cioè, ci sono degli eventi, e io racconto quelli. E poi, se risulta proprio necessario – e questa è la forma più prosastica del modo in cui io faccio romanzi – cerco di alludere al fatto che si connettano tra di loro. Ma quello che è importante, proprio come nella poesia, è che succedano delle cose. Si incontrano Silvia e Gregorio. Nasce un figlio. La sorella vuole che si trovi una badante. Ecco, sono queste le cose, sono proprio degli eventi, un po’ come in realtà a me sembra che sia la vita che viviamo, no? A un certo punto telefona suo fratello e dice “guarda che papà si è fatto male, vai tu? Vado io?” Cioè, sono successe delle cose… è una forma di romanzo in cui inevitabilmente si accumula la voglia dello scrittore di spiegare. Ho abbastanza fiducia nel mio lettore che avrà la capacità di capire che cos’è successo tra qui e lì: e delle volte persino le incoerenze, o come ha detto Belpoliti le “screziature”.

Un’ultima brevissima domanda: quale elemento, aspetto, carattere del suo testo potrebbe colpire i giurati del premio per farla vincere ? 

Questo elemento non tanto personale della famiglia: non solo il rapporto tra padre e figlio ma proprio la famiglia come contesto che – il libro dice: tutte le famiglie sono insopportabili – che è tanto al centro della struttura sociale dell’Italia. Io vivo metà qui e metà in Inghilterra e l’Inghilterra non ha le famiglie come le intendiamo noi, e infatti ci accusano di familismo. E invece è vero, l’Italia è fatta di famiglie e molto spesso lo stato è latente, cioè latitante e latente, nel senso che è una struttura nascosta, e per certi aspetti noi ci affidiamo moltissimo alle famiglie. Ecco, è che queste famiglie hanno una doppia natura: sono insopportabili, nel senso che rischiano delle volte di trasformare il nostro modo di essere in mezzo agli altri, di essere interessati alla scienza, alla letteratura, alle cose che ci sono in cosa è successo a tuo cugino, ecco, questo è il disastro [risata]. Però sono anche un modo di essere, secondo me, delle nostre società, che si fonda molto sulle relazioni umane. E questa secondo me è una grandissima qualità. Tanto che l’incontro fra Silvia – la moglie di Gregorio – che è anglosassone e Gregorio è in fondo un continuo misurarsi di queste due visioni di cosa sia la famiglia. Infatti la madre dice “le famiglie sono insopportabili”, il padre non dice nulla: però lei in un certo senso è proprio quella che capisce che cos’è Gregorio e che cos’hanno fatto loro due. E sebbene sia un personaggio che non ha molte parole nel romanzo perché sparisce all’inizio, è sempre presente: è lei che in qualche modo tiene in piedi i muri della casa.

premio bergamo.10