Pubblichiamo oggi la seconda di cinque interviste ai finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2018, che verrà assegnato nell’Auditorium di Piazza Libertà, a Bergamo, sabato 28 aprile 2018. Davide Orecchio è stato il secondo finalista che ha presentato il suo libro, Mio padre la rivoluzione, al pubblico del Premio. L’abbiamo incontrato nella hall dell’Hotel dei Mille di Bergamo e gli abbiamo rivolto qualche domanda per entrare nel cuore della sua scrittura e delle scelte che l’hanno portato a questo libro.


OrecchioSulla copertina del libro, sotto il titolo, c’è l’indicazione “Storie”; potremmo parlare anche di romanzo di racconti. C’è un tema forte, che è la Rivoluzione russa del 1917, che tiene insieme tutte le varie storie che tu racconti, che coinvolgono sia personaggi storici, sia personaggi inventati o ispirati alla realtà. Partiamo dalla domanda più semplice – che forse è anche la più difficile: perché hai deciso di costruire il tuo libro intorno a questo evento cardine del Novecento, che è stata la Rivoluzione russa?

Beh, da un lato c’è una ragione molto pratica e molto banale: nel 2017 ricorreva il centenario. Quindi la commemorazione del 1917 – non solo dell’ottobre, ma di tutto quell’anno, che fu un anno molto lungo. Iniziò nel febbraio con gli scioperi generali a Pietrogrado delle operaie tessili e poi di tutti gli operai della città, poi il crollo del regime dello zar, il primo regime liberale e democratico che prese piede e poi il coup dei bolscevichi, nell’ottobre. C’era quindi un’intenzione pratica, quella di ritornare, a cent’anni dagli eventi, su quelle storie che andava d’accordo con una passione che – seppur impolverata c’era – per quelle storie e per gli studi che riguarda i miei anni di formazione universitaria. Quindi ho ripreso in mano quella passione e mi interessava un po’ farle rivivere queste storie, con i loro personaggi: quindi sia Trotskij, Lenin, Stalin e quant’altri, sia invece personaggi più marginali ma non meno interessanti per me, farli rivivere e riportarli nel presente. E poi pensavo – e poi me ne sono convinto anche dopo, vedendo non solo il mio libro, ma anche tutto quello che si è detto e scritto sulla rivoluzione, e anche quanto è stato recepito di quanto è stato scritto negli scorsi mesi del 2017 – mi sono convinto che avevo ragione a pensare che è stata un po’ rimossa tutta questa storia. E secondo me è molto sbagliato rimuovere, cancellare e dimenticare, perché non ha alcun senso, insomma. Per orientarsi nel presente bisogna ricordare e conoscere tutta la Storia. E il 1917 è la data di nascita del comunismo mondiale e non può essere così trascurato o dimenticato.

 

Queste storie sono costruite – a livello di struttura narrativa e di scrittura – con un doppio lavoro, di storico e di romanziere. Qui si trovano riferimenti bibliografici – in nota o nel testo – a libri che possono ampliare l’orizzonte del racconto. Libri che a volte esistono, e sono delle effettive fonti documentarie, e altre volte non esistono, e vanno così a comporre una bibliografia di testi d’invenzione che amplifica questo mondo a metà tra la Storia e l’invenzione che hai creato e che hai usato per raccontare sotto un’altra chiave questo grande evento che è stata la Rivoluzione russa. Come lavori quando scrivi? In che modo riesci a mettere insieme invenzione romanzesca e ricerca storica?

In questo caso, a parte alcuni episodi del mio lavoro che hanno a che fare con questi capitoli e con questi racconti, per cui posso anche parlare di ricerca storica – perché sono stato negli archivi e ho anche trovato qualcosa –, in generale non parlerei di ricerca storica, ma piuttosto di studio e di uso delle fonti pubblicate, che sono a disposizione di tutti, non soltanto dello storico che va nell’archivio. Diciamo che ho dovuto un po’ sacrificare la libertà creativa della mia scrittura – anche se la definizione è un po’ pesante –, perché dovendo gestire tutti questi materiali e avendo anche qualcosa da dire, che non era soltanto la libertà del racconto, avevo anche quasi una timeline di inserti da rispettare. Ci sono dei capitoli che sono complessi perché dentro ci sono molte voci, molte storie, e quindi dietro le quinte, di rimando, molte fonti, e dovevo sapere esattamente in che punto e in che modo far parlare tutte queste fonti. E questo mi ha costretto a essere un po’ più disciplinato rispetto a uno scrittore che normalmente, e giustamente, dovrebbe affrontare la pagina bianca e vedere che succede, e poi dopo, semmai, se non funziona ci rimette le mani e se funziona va bene così e si passa alla pagina successiva. Invece in questo caso c’è stata un po’ più di attenzione e di cura del canovaccio delle storie.

 

Appunto, tu dici tanti personaggi – troviamo Trotskij, Stalin, Hitler, ma anche Plotkin e Bob Dylan – e tra tutti questi personaggi della storia culturale e politica c’è anche tuo padre, in un racconto: è solo questo il richiamo che ti permette di intitolare questo libro Mio padre la rivoluzione? Cioè è soltanto un legame biografico attraverso la figura di tuo padre o c’è un altro elemento che ti crea un legame affettivo con la Rivoluzione russa, e con tutti i temi che questa ha implicato a livello storico o d’immaginario politico?

Allora, il riferimento a mio padre, devo dire che in questo caso riguarda solo quel capitolo che hai citato e poi non passa negli altri. Quindi, effettivamente, è confinata lì l’archeologia famigliare. Non è neanche una questione affettiva, in realtà. Perché uso il rimando a mio padre – ed è necessario per me, perché è la figura nella quale identifico il comunismo per quanto riguarda la mia storia famigliare, e da qui questo strano titolo: effettivamente il comunismo per me è stato mio padre. Però non è tanto una questiona affettiva riguardo alla figura paterna, quanto proprio di conoscenza. Lo scrivo anche in una pagina del libro: del comunismo di mio padre e di quello che lui combinò nella sua vita molto prima che io nascessi – mi ebbe in tarda età – io non sapevo nulla, quindi tutto quello che scrivo e che studio e che ha a che fare con mio padre è essenzialmente un atto di conoscenza che faccio. La sua è stata una figura che nei suoi aspetti politici e biografici non ho conosciuto per niente.

Rispetto alla Rivoluzione, potrei dire: non è che io abbia dell’affetto per la rivoluzione in sé, ho dell’affetto per quelle tre-quattro idee, o bisogni da cui nacque quella rivoluzione, da cui nascono e sono nate anche altre forme, se non di rivoluzione, di rivolta, di protesta e di contestazione. Il bisogno di progresso, di uguaglianza, di redistribuzione del benessere – e mi fermo qui: per queste cose ho affetto e queste cose c’erano nella Rivoluzione. Poi la rivoluzione le ha tradite, la storia la conosciamo; ma persistono e noi le vediamo riemergere continuamente. Ci sono, sono presenti, non sono passate, e per queste idee e per questi bisogni, sì, ho molto affetto.

 

Sarebbero molte altri gli aspetti da affrontare, ma chiudiamo con una domanda un po’ più frivola. Qual è, secondo te, il carattere del tuo libro che potrebbe colpire più di altri e che ti potrebbe permettere di vincere il premio?

Mah, forse i racconti più fantasiosi, più d’immaginazione. Quindi quello su Bob Dylan, quello sui rivoluzionari bambini. Il gioco. Quando gioco un po’ di più e mi prendo meno sul serio, penso che anche il lettore si possa divertire di più.

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