«È un viaggiatore Ulisse? Fondamentalmente, è un guerriero che vuole tornare a casa»; e Giorgio Manganelli? Sarebbe forse quest’uomo impacciato, pieno di nevrosi, vestito di lunghi pastrani, un viaggiatore? No, Manganelli è qualcuno che trova nella pagina bianca il suo deserto e nel linguaggio la sua carovana, come a dire insomma, in maniera manganelliana, uno scrittore, qualcuno che si è mosso con agio ed eleganza attraverso lo spazio del testo, abituato alle soste in corrispondenza di capitoli, agli andirivieni tra le note, ai vagabondaggi per chiose.

«Talora capita che gli si offra la possibilità di fare un viaggio. Apparentemente una situazione perfetta. Quale errore». Questa però è ancora letteratura, anzi, autofiction: una raffinata menzogna intessuta per chi ha voglia di assicurarsi un altro mito nella galleria degli incomprensibili del Novecento. Manganelli sapeva infatti che viaggiare è necessario, risponde «ad un impulso oscuro e magico dell’uomo», quello di perdersi e ritrovarsi per un attimo, come Ulisse, Nessuno; quando iniziò le sue esplorazioni, alla fine degli anni Sessanta, in Occidente il turismo non era più un timido risarcimento delle tristezze della guerra, ma un fenomeno piuttosto massivo che procedendo a grandi passi, aveva fatto sorgere via via nuovi “generi”: le guide, gli itinerari preconfezionati, “le dieci cose da fare assolutamente a…” Manganelli ha saputo reinterpretare il reportage indirizzando prima di tutto la sua sapiente ironia verso sé stesso (da cui la mitica bugia del «viaggiatore più sedentario del mondo»), quindi plasmando una personale «geografia cattiva», per la quale viaggiare non è trasformare il finto esotico in esotico, indossare vestiti leggeri, spedire cartoline da lontano e nemmeno davvero scoprire nuove culture, tradizioni, facendo della diversità quasi un nuovo capitalismo, ma andare piuttosto «verso un luogo mentale, affettivo, fantastico».

Come ha ricordato la figlia Lietta nel recente volume Giorgio Manganelli e il viaggio, la carriera di reporter del padre è cominciata nel 1966, quando «l’esterrefatto direttore dell’Espresso lo spedisce a Parigi. Scena decisamente manganelliana: una tavola rotonda, alcuni giornalisti fra cui il Manga: “Lei conosce Parigi, vero professore?”, spiazzante e, forse inattesa la risposta: “Io? No”». Sarebbe stata poi la volta della riscoperta delle città italiane, delle avventure in Africa, Oriente e Nord Europa; tutti questi viaggi diversamente “simbolici” sono stati via via pubblicati dopo la sua morte riscuotendo successo e interesse. È rimasto invece a lungo inedito l’unico viaggio compiuto dallo scrittore in Sudamerica (“mito dei miti” che lo scrittore aveva voluto a lungo risparmiarsi), recentemente pubblicato da Mds editore con il titolo Ah, l’America! Un’esplicita allegoria.

Più che a un veritiero reportage, il frutto di quei dieci giorni passati in Argentina nel 1988 assomiglia all’opera di ricognizione di un Paese che, secondo l’autore, non esiste. Come afferma Giampaolo Vincenzi nella postfazione al volume, il breve resoconto contiene «evidenti congruenze con quanto già narrato riguardo all’esotismo nordico e orientale all’interno dei resoconti precedenti, ma evidenzia altresì un’angoscia stilistica decisamente incentrata sulla ricerca dell’originalità compositiva che possa meglio trasportare il lettore a comprendere una cultura europea trapiantata in un altro continente».

L’incipit è topico; Giorgio Manganelli è sull’aereo che sorvola per la prima volta il continente sudamericano, lancia uno sguardo fuori dal finestrino: ecco il mostruoso formicaio della città di Buenos Aires, dove da tempo il genio dello stivale italiano s’è andato a trapiantare. Sta ben attento nel pronosticare, nel tessere congetture, ma è più forte di lui: «Voglio cogliere qualcosa che mi renda chiaro che sto toccando un altro continente, un altro mondo, un luogo inedito» afferma, e così strappa al lettore un primo sorriso per quel disincantato desiderio di trovare fuori da sé l’Altro assoluto. E in effetti le pagine di viaggio di Manganelli hanno questo di sorprendente: sono di un’odeporica melanconica e satirica, che non intende fare né miti né turismo, ma che anzi si propone come elogio dell’umana sedentarietà, monito, per così dire, da poltronista a poltronista, a non rincorrere quel mondo, che nelle parole di Baudelaire è «monotone et petit, aujourd’hui, / Hier, demain, toujours» e che amaramente ci restituisce la nostra immagine, «Une oasis d’horreur dans un désert d’ennui!».

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Altra cifra riconoscibile del Manganelli reporter è quella di trasformare il viaggio in metadiscorso e di porsi nei confronti della novità geografica come il critico dinnanzi alla novità editoriale. Aveva formulato anni prima

l’ipotesi di un nuovo genere letterario, […] la critica geografica o geocritica, e che consisterebbe, per l’appunto, nel trattare un luogo alla stessa maniera con cui trattiamo sostanzialmente un libro. Cioè come sistema di simboli che agisce su di noi.

Il libro-paese va letto e analizzato, talvolta decifrato, nonché annusato, sfogliato, sottolineato… Così già al momento dell’atterraggio egli cerca di «tesaurizzare le immagini», di riconoscere un’«esplicita allegoria» che si faccia precipitato e chiave di lettura della sorte che lo attende fuori dalle porte scorrevoli dell’aeroporto. Un esperimento simile lo aveva fatto con l’India, il mostro culturale che più di tutti negli anni ’70 elargiva miti e «cattiva letteratura»: l’aria umida, aspra e malsana che lo aveva invaso all’aeroporto di Bombay da subito gli suggerì l’idea di stare per penetrare dallo sfintere un grande corpo sconosciuto.

Il “Manga” sta giusto per mettere da parte quelle «altre storie» di viaggio quand’ecco che l’allegoria americana si manifesta icastica: è la nebbia, una densa e straniante «pasta di nebbia» che in maniera del tutto inaspettata lo avvolge proprio nel paese che, almeno a patti, avrebbe dovuto accoglierlo in una splendida veste esotica. Questa nebbia spaventosamente padana, traslocata di là dall’oceano ed estesa ai territori smisurati delle pampas (lo spettacolo di quelle pianure sconfinate aveva fruttato a Drieu La Rochelle la felice formula di un Unheimlich alla rovescia, la «vertigine orizzontale»), è dunque l’allegoria di quel Nulla che in Argentina sembra aver posto il suo regno: niente storia, niente letteratura – Borges che ha studiato l’islandese, lodato la lingua tedesca, studiato Dante… sarebbe forse argentino? – «nessun brivido culturale» e per giunta nessuna curiosità antropologica.

Il trasferimento al centro città è esilarante, il tassista è infatti di origine catanese ed è appena stato in Italia a far visita ai suoi parenti; ebbene, si tratta solo del primo degli italiani che Manganelli continuerà ad incontrare: la maggioranza degli argentini sono infatti italiani d’origine, italiani che fastidiosamente parlano spagnolo e si cibano in maniera quasi esclusiva di carne (una carne certo sublime, ma dispensata in una tale pantagruelica quantità da repellere anche la forchetta manganelliana). Lo spaccato che offre della società non conosce eufemismi: «non sarà tutta l’America, ma un bel po’ di America deve esserlo, questo essere fitta di gente di Catania, Siracusa, Cosenza, e anche Bologna, anche Milano»; e ancora «l’argentinità è non una nazione ma una situazione» di continuità in cui si sono trovati a vivere quegli immigrati dalle diverse identità che, a differenza di altri popoli americani, non hanno conosciuto (se non in maniera modesta) la crudezza degli scontri con le genti autoctone, «lo sgomento del peccato originale dell’invasione»… Insomma, si è trattato di un “trasloco” di europei oltreoceano.

Ma in America qualcosa di interessante c’è per Manganelli, ed è (non c’è da stupirsi) il falso che ovunque è percepibile. Buenos Aires è «un miracolo della scenografia», un fondo di cartapesta sul quale si muovono gli argentini, “comparse” di un popolo di stranieri. «Come tutte le scenografie geniali è anche bella; solo non mi si venga a dire che è una città vera. Le città non sono mica così. Una città deve avere qualcosa di Lodi, di Frosinone, della Garbatella, della Bovisa; altrimenti è un’allucinazione».

Come per un effetto speciale, la città si trasforma agli occhi dello scrittore in una sorta di enorme tavolo da poker sul quale incombono, a mo’ di «carte estratte da un mazzo per bari», giganteschi e artefatti edifici degli stili più vari e sul quale, a causa della spaventosa inflazione, la vita di tutti i giorni si paga con soldi irreali, cartastraccia da casinò.

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A queste metafore del mondo dello spettacolo si aggiunge la divertente farsa che i monumenti sembrano inscenare in ogni punto della capitale, tema che Manganelli ricorda centrale anche nell’opera del vignettista argentino Quino. «In un parco c’è anche una statua dedicata alla “Pureza”: forse avranno sentito dire che è morta», scrive con sottile ironia; l’impressione che si ricava da tutto quell’ostentare gesti grandiosi e titoli rimarchevoli è che una così accurata messinscena serva a compensare la plateale assenza di storia che affligge l’Argentina, una meditazione che anche Borges aveva espresso con toni partecipi in Elegia della patria:

Numeri rossi degli anniversari,
Pompe del marmo, ardui monumenti,
Pompe della parola, parlamenti,

Centenari e semicentenari,
Sono appena le ceneri, la brace
Solo dei segni d’un antica fiamma.

Poiché in concreto, nessun oggetto fornisce a Manganelli una prova tangibile dell’esistenza di quel paese, l’autore dà libero sfogo alle predilette ossessioni linguistiche: analizza scrupolosamente il nome di vini e formaggi, la toponomastica e i cartelloni pubblicitari; suggerisce genialmente che la maledizione che affligge l’economia sia dovuta alla sostituzione della precedente moneta nazionale, il “peso”, dal nome sicuramente realistico, con il più fittizio e poetico “austral”; sposta dunque la sua attenzione sul “lunfardo”, «una lingua insieme infima e illustre», dove «parole oneste come “cotechino” e “polenta” hanno trovato un’aggiunta di vita, una deformata metempsicosi», un gergo il cui stesso nome deriva da “lombardo” e i cui suoni non possono non ricordarci le pagine gaddiane sulla lingua parlata nel Maradagál.

Alla fine del resoconto, resta da valutare se Manganelli sia stato per davvero in Argentina o se tutte quelle prove da lui raccolte a confutare l’esistenza di un paese dove «l’inverosimile è il consueto» non servano piuttosto all’autore ad ordire un’elegante menzogna.

Se fossimo in un processo, e il tema fosse quello, stabilire se Buenos Aires esiste, perché mettiamo, qualcuno ha cercato di ammazzarlo o di rapirlo, bisognerebbe ammettere che le prove che Buenos Aires esiste sono molte. Ma lo storico sa che le leggende sono sempre estremamente circostanziate, piene di particolari minuziosi.

L’autore si dimostra favorevole a indire un confronto ufficiale davanti alla Legge: venga pure vagliata la sua parola contro l’esistenza di un’intera Nazione! E certo non si sottrarrebbe a un caso tanto doveroso (quanto piacevolmente astruso)… Ma come diamine farà a sottoporre a processo un’allegoria?

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