Il lettore apprende subito, dalla prima pagina di Non sarò mai la buona moglie di nessuno, chi sia l’Evelyn McHale protagonista del libro, «un’impiegata di ventitré anni» che «la mattina del primo maggio 1947 […] dalla terrazza pano­ramica all’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building si lanciò per andarsi a fracassare la spina dorsale sulla li­mousine di un diplomatico delle Nazioni Unite parcheg­giata 381 metri più in basso»; e lo sa anche perché gli è capitato senz’altro di vedere da qualche parte la famosa foto di Robert Wiles, pubblicata su «Life», che immortala il corpo senza vita di Evelyn tra le pieghe di lamiera dell’automobile:

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Ma questa commistione inscindibile tra dati biografici ed autoptici non costituisce, nel romanzo di Nadia Busato, una vera conoscenza; al contrario, ciascun capitolo di Non sarò mai la buona moglie di nessuno si costruisce proprio intorno all’impossibilità di conoscere e capire le motivazioni del gesto di Evelyn. Busato, nel suo romanzo, porta avanti uno scavo attento e un’ispezione accurata di tutto quello che sta oltre l’immediata iconicità di quella foto, riutilizzata anche da Andy Warhol[1].

Busato costruisce il suo libro intorno a due temi in dialogo perenne: la vasta onnipresenza della depressione, e il colloquio costante dei vivi con i morti. Intelligentemente, questi due temi non sono però mai esplicitati: così come la domanda che anima tutto il libro («perché Evelyn, da un giorno all’altro, senza avere una storia di malattia mentale né di dipendenza, si lancia dall’Empire?») rimane senza risposta, così i personaggi del romanzo possono solo aggirarsi intorno alla depressione e alla morte, costeggiarne i bordi senza penetrarne mai il senso.

À la Rashōmon, Busato costruisce ogni capitolo di Non sarò mai la buona moglie di nessuno intorno a un personaggio di contorno della storia di Evelyn – la madre, la sorella, il fidanzato, ma anche il fotografo che scatta la foto, la redazione di «Life» che la pubblica, una donna sopravvissuta a un altro lancio dall’Empire State Building. In questo senso, il libro descrive con attenzione e ricchezza di particolari le infinite nervature di inquietudine che si propagano dal buco nero della depressione e della morte, che Evelyn unisce, incarna, ed eterna: i personaggi sono attraversati da un disagio e un’agitazione che non hanno cause apparenti e che non sanno spiegarsi, come animali prima di un temporale. Si tratta di un disagio che agisce come un’ipnosi, che si manifesti nei ricordi delle compagne di Evelyn, o nell’estasi del fotografo che ha immortalato il suo cadavere – Evelyn si presenta sempre e soltanto come un enigma da cui è impossibile distogliere lo sguardo:

Quello che ho fotografato non è un cadavere. Io non ho fotografato la morte di questa donna, ma la parte più de­terminante della sua vita. E questa non è l’istantanea di un amore non corrisposto, né il fantasma dell’inaccessibile ar­monia di un corpo composto dalla catastrofe. Si tratta invece della testimonianza della pura e innegabile potenza gravita­zionale che tiene ancorati i grattacieli di Manhattan al suolo. Se mi è permesso esprimere la mia personale opinione, do­vrebbe chiudere le indagini. Adesso. […] Dico sul serio. L’unica cosa che può fare è continuare a spiare dall’esterno la vita di questa donna. E più continuerà a farlo, più lei prenderà vita nella sua vita. E non le riuscirà più di seppellirla, dacché lei è già morta una volta.

Il libro, in altre parole, è il lungo colloquio di chi le è sopravvissuto con l’assenza di Evelyn, che riesce a farsi presenza solo con la sua sparizione definitiva: se, con la morte, Evelyn attraversa finalmente il confine intorno a cui ha vissuto tutta la sua vita («Non cercavo l’incontro, ma la prossimità»), lo fa tanto per entrare nel regno dei morti quanto per porsi, stavolta finalmente al centro, di quello dei vivi. I morti, scrive Busato, «circondano i vivi. […] I vivi sono il nucleo dei morti. […] Da soli i vivi sono incompleti. […] I vivi e i morti sono interdipendenti»; e nel suo romanzo, i vivi si specchiano costantemente nell’immagine della morta, interrogandola, cercandovi risposte che la defunta non è, per forza di cose, più in grado di dare; e tuttavia il suo fantasma fluttua onnipresente nella vita di coloro che ha lasciato. Nel ricordo del fidanzato, della sorella, delle amiche dell’adolescenza, Evelyn, che per tutta la vita aveva occupato una posizione marginale rispetto agli eventi, con la spettacolarità del suo suicidio ha acquisito uno stato di centralità con cui i personaggi non possono evitare di confrontarsi. Gli episodi di piromania di Evelyn, descritti dalla sua commilitona al Women’s Army Corps e dal suo fidanzato, si trasformano, nella luce di questa morte, da semplici fatti bizzarri in cupi presagi. Allo stesso modo, quando alla fine è Evelyn a prendere la parola, la ascoltiamo ansiosi, ma solo per capire che tutto sommato non ha molto da dirci: c’è la sua esperienza, la sua sensazione di separatezza, che però non riesce a farsi motivazione esaustiva del suo suicidio, che resta il buco nero intorno al quale ogni cosa si muove. La verità non è un contenuto da comunicare, né il prodotto di una relazione tra due soggetti, bensì quella stessa relazione.

La storia di Evelyn diventa anche, inevitabilmente, una storia delle immagini e dei miti del XX secolo: diventa, nelle digressioni dei capitoli centrali del libro, la storia di «Life» e di «Vogue» e di mezzo secolo di fotografia americana (perché «le immagini che registriamo nella memoria sono i frammenti con cui puntelliamo le nostre rovine lungo la vita»), ma diventa anche la storia dell’Empire State Building, luogo simbolo del sogno americano e cupo catalizzatore di suicidi (un capitolo intero è dedicato a Friedrich Eckert, il primo suicida nella storia dell’Empire). E del sogno americano, rappresentato dalla serenità familiare e domestica della villetta dei McHale, Busato ricostruisce sin dalle prime pagine l’insoddisfazione e le contraddizioni profonde, quando descrive la depressione strisciante della madre di Evelyn, Helen, e i suoi contrasti con un marito maschilista e conservatore, che la portano all’alcolismo. È questo scarto tra un modello e la sua realizzazione, tra aspettative e realtà, a farsi, se non causa, epifenomeno della frattura di Evelyn. Nella lunga prima scena del romanzo, Helen prepara una cena a base di lingua per la famiglia McHale, e Busato delinea lo iato che separa la lingua in sé, che «esiste quasi solo nel buio» in quanto ripugnante pezzo di carne da maneggiare e massaggiare, e la pietanza che verrà consumata distrattamente dalla sua famiglia:

Di tutti quelli che la mangeranno, Helen sarà l’unica a sapere com’era davvero la lingua quando era solo un tran­cio di cadavere. E sarà l’unica a sapere quanta cura e mani­polazione sono state necessarie per trasformare un organo in putrefazione nell’irresistibile delizia che le garantirà po­chi minuti di silenzio a tavola, la testa dei suoi figli china sui piatti, il germogliare spontaneo di quel sorriso sul viso di suo marito.

Allo stesso tempo, Busato ha l’accortezza di non fare sociologia spicciola, e, pur non mancando le descrizioni delle soffocanti ritualità della provincia americana, Evelyn non diventa mai una posticcia eroina femminista, e le sue motivazioni non sono mai ridotte a questioni sociali o culturali: perché solo rifiutando radicalmente qualsiasi discorso sul piano della famiglia, della moralità pubblica, della tradizione, Evelyn riesce a sabotarle, minandone, nei personaggi che incontra, la validità e la solidità. Peraltro, probabilmente proprio in quanto autrice anche di romanzi erotici (ha pubblicato l’anno scorso il gustoso Gioca con me per LIT), Busato ha l’intelligenza di non feticizzare il sesso, di non appiattire il femminile sul suo rapporto col maschile: al contrario (e a dispetto del sottotitolo d’ufficio), da questo romanzo la dimensione erotica è quasi completamente assente, e permette di localizzare così in un insondabile altrove le origini del male di Evelyn. Barry, il fidanzato di Evelyn, è solo uno tra i tanti personaggi che costellano la vita della protagonista: il gesto di Evelyn non deriva da un amore impossibile o da una delusione (e anzi, viene compiuto subito dopo che Evelyn è stata chiesta in sposa), e la figura di Barry, che un altro narratore avrebbe potuto enfatizzare, viene invece decentrata e relegata in uno stato di confusione e di minorità.

Non sarò mai la brava moglie di nessuno è un libro felicemente privo dell’ossessione stilistica che caratterizza tanta narrativa italiana contemporanea, e che ne rende spesso la lettura fastidiosa: al contrario, la prosa di Busato, benché influenzata talvolta, nell’uso eccessivo di paratassi, dal modello giornalistico, è sicura e tranquilla, e riesce a passare con eleganza dalla ricostruzione di ambiente a parentesi liriche e introspettive. In Non sarò mai la brava moglie di nessuno Busato interroga con intelligenza e senza retorica il ruolo della donna nella nostra società, mostrando le aspettative e le simbolizzazioni di cui è investito il femminile, che si manifestano nel romanzo in tutti i ruoli in cui Evelyn non riesce a inserirsi (figlia, sorella, soldatessa, sposa), e sono riassunte nella morbosa attrazione che esercita la foto del suo cadavere. Allo stesso tempo, questo libro esamina il nostro rapporto con l’ambiguità terribile della morte: con la sua rappresentazione e la sua centralità morbosa nel contemporaneo, ma anche con la sua insondabilità.


[1] Busato, in un’appendice al libro, cita tra le canzoni ispirate dal suicidio di Evelyn anche Jump They Say di David Bowie (da Black Tie, White Noise, 1993), e benché la canzone, in effetti, sia piuttosto appropriata, da bowiano di ferro non posso esimermi dal fare notare che la vulgata ufficiale suggerisce che il singolo sia stato invece ispirato dal suicidio del fratello di David.


busatoNadia Busato, Non sarò mai la brava moglie di nessuno, SEM, Milano 2018, 255pp. 16€