[Prosegue la pubblicazione di un lungo articolo di Marco Malvestio dedicato a Yuklio Mishima; la prima puntata la trovate qui, la terza e ultima uscirà martedì prossimo. L’illustrazione di copertina è di Domenico Gregorio]


II.

Opera-mondo è un termine che viene usato piuttosto comunemente, ormai, per riferirsi a qualsiasi romanzo di ampie dimensioni e ambizioni enciclopediche: ma forse varrebbe la pena di parlare, in questo caso, di opera-mandala. Il mandala, il tradizionale simbolo di meditazione buddista composto di figure geometriche e rappresentazioni delle divinità e dei Bodhisattva, «è di fatto un cosmogramma, è l’universo intero nel suo schema esistenziale, nel suo processo di emanazione e riassorbimento: l’universo non solo nella sua inerte distesa spaziale, ma come rivoluzione temporale»[1]. Il mandala non è solo una figura del mondo in senso enciclopedico, e dunque degli oggetti che lo compongono, dei rapporti di forza che vi intercorrono e delle gerarchie che li regolano, ma è anche, soprattutto, una figura dei suoi processi di dissoluzione e ricomposizione, dell’eterna ciclicità del cosmo e della codipendenza di tutte le cose del mondo, prive di identità individuale. Al centro del mandala, tradizionalmente, viene posto un vuoto, oppure una figura del Buddha, cioè dell’estinzione della progressione samsarica; e quindi un’immagine insieme del vuoto e del mezzo per raggiungerlo. In questo senso, la figura del mare evocata nel titolo è particolarmente importante. In una scena di Neve di primavera, Kiyoaki osserva il mare davanti a sé, che gli restituisce a sua volta un’immagine non solo del procedere incessante e inutile della vita degli esseri senzienti, ma anche della infinita catena di relazioni che formano:

Il mare finiva di fronte ai suoi occhi. Mentre osservava gli ultimi istanti di vita delle onde, il giovane comprese che queste ancora si arenavano miseramente lì dopo un lunghissimo e infinito sforzo. In quel punto terminava un sublime quanto inutile progetto che aveva investito gli oceani e il globo intero. Si trattava di un fallimento per certi versi quieto e rassicurante. Dopo essersi rapidamente liberata dal tumulto dei propri sentimenti, l’ultima piccola frangia dell’onda si univa alla superficie piatta e umida della sabbia, per retrocedere poi di nuovo verso il mare nel momento in cui dava vita a una pallida schiuma[2].

Con una descrizione dell’ampio mare impassibile, con le minuscole navi commerciali in lontananza, d’altra parte, si apre anche La decomposizione dell’angelo. E il mare di Mishima è infatti il mare della fertilità, cioè uno degli ampi avvallamenti in cui è divisa la superficie lunare: un mare dunque che tutto può essere fuorché fertile. La tetralogia è infatti, prima di tutto, una storia di decadenza. Come i grandi romanzi occidentali a cui si ispira, da Les Rougon-Macquart di Zola a I Buddenbrook di Thomas Mann, Mishima intende scrivere una serie di opere in cui alla storia dei protagonisti scorra in parallelo la storia del Giappone: Neve di primavera è ambientato nell’era Meiji, A briglia sciolta nell’era Shōwa, Il tempio dell’alba durante gli anni della guerra e La decomposizione dell’angelo negli anni Settanta. E come in quelle saghe familiari, la progressione cronologica permette a Mishima di ritrarre la degenerazione e la decadenza del Giappone a lui contemporaneo in maniera coerente non solo con le sue idee politiche ultranazionaliste, ma anche con il suo estremo nichilismo filosofico.

La fertilità evocata nel titolo è in atroce contrasto con i paesaggi di rovina e di morte degli ultimi due romanzi, in cui i personaggi si alternano in scenografie fatte di macerie prima e di consumismo selvaggio poi. I personaggi dei romanzi precedenti ricompaiono stravolti e grotteschi: Kadeshina, la balia di Satoko, che in Neve di primavera aveva aiutato i giovani a incontrarsi, è ora una vecchia decrepita che mendica del cibo, mentre Iinuma, il padre di Isao, esibisce la cicatrice di un tentato suicidio per impietosire Honda e farsi dare del denaro. La casa che Honda costruisce e nella quale osserva i rapporti omosessuali di Keiko e Ying Chan e il tentato stupro di quest’ultima finisce distrutta dalle fiamme, mentre lo sguardo esterno ed imparziale di Honda si trasforma in quello di uno squallido voyeur che in La decomposizione dell’angelo finisce per spiare le coppiette al parco. Allo stesso modo, le nobili passioni di Kiyoaki e di Isao sono sminuite dalla semplice passione sensuale di Ying Chan, e pervertite nella persona di Toru, mentre la serena nobiltà del Giappone imperiale è stata ridicolizzata e commercializzata dagli invasori americani.

Tutto questo, naturalmente, è perfettamente coerente con il pessimismo politico di Mishima. Scrittore precoce e immensamente prolifico, autore di alcuni dei più importanti romanzi del Giappone del dopoguerra (Confessioni di una maschera, 1949, Colori proibiti, 1951, Il padiglione d’oro, 1956, La casa di Kioko, 1959), di una quantità enorme di drammi e novelle, Mishima gode, ai suoi esordi, del successo dato anche dallo scandalo che generano le tematiche che affronta – i turbamenti erotici del semiautobiografico protagonista di Confessioni di una maschera, l’underground omosessuale di Tokyo in Colori proibiti, l’erostratismo del giovane monaco che incendia il tempio buddista che dà il titolo a Il padiglione d’oro. Mishima diventa una figura pubblica di dimensioni internazionali, alterna ai suoi romanzi seri un gran numero di opere su riviste popolari, i suoi lavori sono rappresentati ovunque e portati al cinema, in pellicole in cui recita lui stesso.

Durante i primi vent’anni della sua carriera, Mishima si costruisce una maschera dopo l’altra di giovane turbato, di omosessuale, di dandy eccentrico, di letterato tradizionalista, di bodybuilder. A questo senso continuo di finzione che porta con sé la sua figura pubblica, che lo conduce a opporre alla lingua falsa delle parole quella sincera del corpo e dell’azione, Mishima reagisce aderendo all’ideologia neonazionalista che si diffonde nelle università, e nel 1968 fonda il proprio gruppo paramilitare, l’Associazione dello Scudo, che raccoglie cento giovani selezionati in base alle capacità fisiche e alla fedeltà all’imperatore e alla tradizione guerriera giapponese. Nel 1970, Mishima, con tre membri dell’associazione, sequestra un generale delle forze armate giapponesi, tiene davanti a ottocento soldati fatti radunare per l’occasione un discorso cui questi rispondono con indifferenza, e commette seppuku insieme al suo amante Morita.

La spettacolare morte di Mishima e gli scritti politico-filosofici degli ultimi anni ne hanno fatto, in Occidente, un simbolo dell’estrema destra; d’altra parte, l’aggettivo fascista, nel caso di Mishima, è problematico, sia in senso molto immediato (il nazionalismo giapponese è sovrapponibile al fascismo europeo? Probabilmente no, o forse solo nei fantasiosi elzeviri echiani sull’Ur-fascismo), sia in senso più personale. L’impressione, leggendo i romanzi di Mishima, è che l’approdo al nazionalismo e al culto dell’imperatore (perché ufficialmente il suo suicidio è una protesta contro la rinuncia dell’imperatore alla propria natura divina, imposta dagli USA dopo la guerra) sia una via di fuga dandistica dal senso di morte e di caducità che anima tutto il suo lavoro di scrittore e la sua persona pubblica: come ha scritto Flanagan, l’imperatore diviene “un simbolo trascendente di ciò che è eterno e immutabile, opposto al tumultuoso procedere del tempo storico”[3].

È una posizione che Mishima stesso rappresenta in A briglia sciolta nel personaggio di Isao: contro la corruzione dei tempi in cui vive, Isao fa propria una fede incondizionata nella figura dell’imperatore e nel culto del passato. Interrogato dal principe di cui ricerca la complicità, afferma la sua intenzione di togliersi la vita sia che l’imperatore approvi il gesto del suo gruppo terroristico, sia che lo condanni: se lui preparasse, suppone, delle polpette di riso per Sua Maestà, e questi respingesse un piatto tanto semplice, avrebbe il dovere di uccidersi; ma se Sua Maestà le accettasse, la gratitudine dovrebbe comunque accompagnarsi al suicidio, nella certezza dell’inadeguatezza della propria offerta davanti alla maestà del sovrano[4]. L’estremismo di simili posizioni, che sono assolutamente inconciliabili tanto con la natura del fascismo quanto più in generale della cultura occidentale, rende difficile, per chi non sia giapponese, prendere Mishima alla lettera come modello politico.

D’altra parte, diventa anche difficile prendere Mishima sul serio dal punto di vista politico per le contraddizioni di cui è intessuta la sua vita: Mishima arriva alla disciplina militare e alla dottrina guerriera dal culturismo, e al culturismo dal desiderio per il corpo maschile. L’adozione del codice del Bushidō (o meglio, al volgarizzamento del Bushidō come ideologia imperiale prima che come etica guerriera portato avanti nell’era Shōwa) rappresenta, in questo senso, un’altra forma di vanità, e proprio per sfuggire a questa vanità che lo insegue di maschera in maschera Mishima si aggrappa alla tradizione, alla figura dell’imperatore, mettendo la parola fine alla propria vita col suicidio prima che la sua ansia vitalistica possa contraddirlo di nuovo. Può essere che il successo di Mishima presso l’estrema destra europea sia dovuto principalmente al fatto che il suo è stato un gesto estetico prima che etico, che va a rinforzare quella fitta schiera di dandy nazistoidi “ultimi dei romantici” che va da Junger a Maximilien Aue: ma è difficile prendere sul serio i proclami politici di un uomo che, mentre stava programmando di morire in nome dell’imperatore, si esibiva come icona gay nel volume fotografico (splendido) Ba-ra-kei, «Ordalia delle rose».

Ne Il mare della fertilità viene suggerito che Isao, che muore vergine, abbia il coraggio di scegliere la morte eroica proprio in virtù del fatto di non avere mai conosciuto i piaceri della carne. La purezza ideologica e virginale di Isao, che riesce comunque a essere turbata anche solo da un bacio di Makiko, assume tratti femminili nel sogno che prefigura la sua successiva incarnazione in Ying Chan, in cui Isao si vede tramutato in un corpo femminile, in «una massa di carne flaccida e tremante che andava disfacendosi»: «Si sentiva ricolmo di questa sorta di nebbia soffice e gelatinosa; tutto appariva più incerto e ambigui, e per quanto cercasse non riusciva a scorgere alcun ordine o struttura, nessuna colonna portante che lo sostenesse»[5]. È un sentimento a cui Mishima, da conservatore decadente qual era, non poteva certo essere alieno.

Mishima in "Ba-Ra-Kei" di Eikō Hosoe

Mishima in “Ba-Ra-Kei” di Eikō Hosoe

Il fatto è che è la struttura stessa della tetralogia (la cui conclusione, essendo essa un mandala, non è una conclusione ma un centro[6]) che contraddice Isao – e Mishima. Prima mi sono riferito alla scelta di Mishima di legare i romanzi tra loro tramite la reincarnazione di Kiyoaki come di un espediente. È tale anzitutto perché Mishima stesso si rivolge alla dottrina buddista della reincarnazione proprio come a una soluzione che non fosse la forma della saga familiare per legare tra loro quattro opere diverse:

Anzitutto, c’era il problema di come rendere Il mare della fertilità un libro diverso da ogni altro che fosse stato scritto, e superare il problema pratico di trascendere il tempo storico in maniera naturale. La risposta fu adottare la teoria buddista dello yuishiki, che sostiene che tutto ciò che esiste altro non sia che un’illusione prodotta dalla coscienza. Commentando la propria metodologia artistica, Mishima osservò: «Fortunatamente sono giapponese e avevo a portata di mano il concetto di reincarnazione. Tuttavia, le mie idee sulla reincarnazione erano estremamente basilari, dunque ho dovuto studiare numerosi testi buddisti»[7].

Ma si tratta di un espediente prima che di una credenza perché, per ragioni romanzesche, Mishima attribuisce alla reincarnazione alcuni tratti che appartengono più alla superstizione che alla dottrina. La presenza dei tre nei sul fianco dei protagonisti e il loro reiterato destino di morire a vent’anni sono espedienti finalizzati a permettere a Honda di riconoscere in essi fuori di dubbio le reincarnazioni della stessa persona, ma non hanno nulla a che fare con la reincarnazione come concetto filosofico. Nella dottrina buddista, infatti, non esiste un io, un’anima immortale sempre riconoscibile come l’individuo cui appartiene, che si sposta di corpo in corpo: a reincarnarsi è infatti la coscienza, cioè il quinto degli aggregati che costituiscono l’essere senziente. Nel buddismo, la coscienza è la facoltà che anima gli altri quattro aggregati, cioè materia, sensazioni, percezioni e formazioni mentali, ma non coincide in nessun modo con quello che in Occidente chiamiamo “io” o anima, bensì si limita a essere una forza vitale che non si estingue con la morte del corpo: così come il soggetto non è che un insieme di elementi transitori e mutevoli, «una volta che concepiamo la vita come un divenire, ossia come un susseguirsi di fenomeni impermanenti, la morte, oggettivamente, non appare più come una cesura definita, come un’eccezione, come un evento traumatico, ma si presenta come una trasformazione particolarmente intensa, come un “passaggio ad altro stato”, così come accade quando l’acqua passa, dallo stato liquido, a quello gassoso del vapore o a quello solido del ghiaccio»[8]. La coscienza procede a reincarnarsi in un altro essere senziente in conformità con le azioni positive o negative compiute durante la sua esistenza (secondo quindi gli effetti della legge karmica), perché le energie fisiche e mentali che ci animano e che poniamo in essere non cessano con la morte fisica del nostro corpo. Il Buddha ha usato l’esempio della fiamma: passando da una candela all’altra, la fiamma conserva le proprie proprietà, ma allo stesso tempo si tratta di una fiamma diversa.

La dottrina buddista della reincarnazione è problematica (oltre che talvolta contradditoria, come è ragionevole per una filosofia diffusa dall’Iran al Giappone in un arco di circa duemilacinquecento anni), e ha suscitato in diversi interpreti moderni delle perplessità: un monaco e studioso come Stephen Batchelor, per esempio, conserva una posizione agnostica in materia, sostenendo (non a torto) che la reincarnazione non è stata sviluppata dal Buddha come dogma, ma che apparteneva alla realtà in cui viveva, e rappresentava per lui una realtà fisica, non teologica, non diversamente dall’eliocentrismo per un uomo del nostro medioevo: e infatti l’assenza di reincarnazione non è in contraddizione con l’idea di coproduzione condizionata, e il fatto che la nostra coscienza, se esiste, trasmigri o meno in altri esseri senzienti dopo la nostra morte non cambia nulla della percezione buddista dell’universo come movimento privo di motore. Reincarnazione o meno, non è l’io a reincarnarsi; non esistendo affatto l’io, se tracciamo un parallelo tra i piani dell’esistenza e gli stati mentali, è evidente che noi ci reincarniamo in ogni momento.

Honda vive la propria vita come una sorta di sfida filosofica tra il corso della Storia, determinato dalle passioni di uomini come Kiyoaki e Isao, e la sua natura di osservatore imparziale. Il suo desiderio di influenzare a sua volta il corso degli eventi dalla sua posizione di separatezza, dimostrando così la superiorità della propria scelta di vita, si manifesta nell’adozione di Toru, ma viene frustrato dalla scoperta che, secondo le teorie di Honda (che, per quanto inaccurate, comunque strutturano il romanzo), Toru non sia la reincarnazione di Kiyoaki. Tuttavia, così come la mancata morte di Toru segna il fallimento della posizione esistenziale di Honda, il colloquio con la badessa segnala anche la vanità della passione nell’influenzare la Storia: Kiyoaki non solo non è mai esistito per lei, ma non è mai esistito in assoluto, così come nulla esiste, ma è solo il prodotto della nostra errata percezione del mondo. Come insegna il Sutra del cuore, «la vacuità è forma, e la forma è vacuità; la vacuità non è distinta dalla forma, la forma non è distinta dalla vacuità; ciò che è forma è vacuità, ciò che è vacuità è forma»[9].

Questa vacuità è l’assenza di vero sé, di un io immutabile, che rappresenta insieme il prodotto e la condizione costitutiva di quella che viene chiamata coproduzione condizionata, riassunta nella figura della catena di casualità dai dodici anelli: «L’ignoranza causa l’azione, l’aziona causa la coscienza, la coscienza causa il nome e la forma, il nome e la forma causano i sei organi di senso, i sei sensi causano il contatto, il contatto causa la sensazione, la sensazione causa il desiderio, il desiderio causa l’attaccamento, l’attaccamento causa l’esistenza, l’esistenza causa la nascita, la nascita causa l’invecchiamento e la morte, la preoccupazione, il dolore, la sofferenza e l’angoscia»[10]. Le cose non esistono di per sé, ma solo in dipendenza di fattori, sia fisici che mentali, i quali a loro volta sono il prodotto di altri, e così all’infinito, in un perenne mutamento dove ogni fenomeno è contemporaneamente condizionato e condizionante; quello che chiamiamo io non esiste di per sé, ma solo come risultato della combinazione provvisoria di corpo e facoltà mentali, che cambiano costantemente, in un movimento privo di inizio e privo di fine, per uscire dal quale c’è soltanto l’annullamento del desiderio che si verifica nel Nirvana – non un luogo fisico, bensì una condizione di indifferenza, un superamento mentale del procedere samsarico e della contrapposizione dialettica tra Samsara e Nirvana. Prosegue il Sutra del loto: «Essi non si capovolgono, non si muovono, non regrediscono, non ruotano. Sono come lo spazio vuoto, privi di natura propria, al di lì della portata delle parole. Essi non nascono, non emergono, non sorgono. Sono privi di nome, privi di forma, privi di vera essenza. Sono privi di volume, privi di limiti, privi di ostacoli, privi di barriere»[11].

È questo il senso della risposta negativa della badessa Satoko alle domande di Honda: la realtà fenomenica è un’illusione priva di significato, e l’attaccamento a una singola forma, nella convinzione che questa possa sfuggire all’impermanenza che caratterizza l’esistenza, non ha senso. Ne Il mare della fertilità, come ha scritto Napier, «la verità non emancipa, ma acceca e distrugge»[12]. Honda si attacca alla metempsicosi buddista nella speranza che questa gli confermi che il desiderio di potere influenzare gli eventi, o che gli eventi possiedano un significato, non è ingiustificato. Si avvicina cioè alla dottrina buddista come a quella giuridica che è la sua professione: alla ricerca di un ordine nel mondo. Quello che gli rivela la badessa Satoko, invece, è che il mondo, e dunque la Storia che tentava di influenzare, semplicemente non esiste: ha la forma che vediamo solo in virtù della nostra percezione, ma è in realtà un vuoto. Dopo il suo incontro con Satoko, Honda è invitato a visitare il giardino da una novizia, e sul vuoto che gli si apre davanti si chiude Il mare della fertilità:

Era un giardino luminoso e quieto, senza nulla di particolare. Come un rosario che scorra tra le dita, regnava assordante il frinire delle cicale.
Nessun altro suono al di fuori di quello. Il giardino era vuoto. “Sono venuto” pensò Honda “nel luogo del nulla, dove ogni ricordo è cancellato”.
Il sole estivo inondava la quiete del giardino…[13]


[1] Giuseppe Tucci, Teoria e pratica del mandala, (Roma: Ubaldini Editore, 1969), p. 37.

[2] Mishima, Romanzi e racconti, pp. 436-437.

[3] Flanagan, Yukio Mishima, pp. 68-70. Traduzione mia.

[4] Mishima, Romanzi e racconti, pp. 820-821.

[5] Ivi, p. 1024.

[6] In tibetano, la parola che indica il mandala (dkyl ‘khor) significa letteralmente “centro-circonferenza”.

[7] Flanagan, Yukio Mishima, pp. 192-193.

[8] Giangiorgio Pasqualotto, Dieci lezioni sul buddismo, Venezia, Marsilio Editori, 2008, p. 23.

[9] Sutra del cuore della perfezione della saggezza, in La rivelazione del Buddha, Volume secondo: Il grande veicolo, a cura di Raniero Gnoli (Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 2011), pp. 13-14.

[10] Il sutra del loto, trad. it. Soka Gakkai, (Milano: Esperia Edizioni, 2014), p. 193, originale The Lotus Sutra and Its Opening and Closing Sutras, ed. and translated by di Burton Watson (Soka Gakkai, 2009).

[11] Ivi, p. 277.

[12] Susan Napier, Escape from the wasteland: romanticism and realism in the fiction of MishimaYukio and Oe Kenzaburo (Cambridge: Harvard University Press, 1991), p. 213. Traduzione mia.

[13] Mishima, Romanzi e racconti, p. 1748.