Una ferita che non sanguina, un dolore genetico, trasmesso «attraverso le acque della placenta»[1]. Questo è il Novecento di Helena Janeczek, che con La ragazza con la Leica, edito da Guanda, firma il suo quarto romanzo, vincitore del Premio Bagutta 2018. Figlia di due ebrei polacchi che hanno subito sul loro corpo la violenza della guerra e della persecuzione, Janeczek ha ereditato un trauma che, privato dell’esperienza diretta, non può farsi vissuto, traccia, cicatrice, margine all’orrore. E si sente derubata due volte, perché quel passato che le grava addosso atavicamente non le è stato tramandato. Come i soldati descritti da Walter Benjamin nel suo saggio Il narratore tornavano muti dalla guerra, così sconvolti da non riuscire a comunicare quanto vissuto, i genitori di Janeczek chiudono il passato in una «bolla di silenzio, quel “non raccontare mai un cazzo” che doveva farmi da scudo e protezione e probabilmente lo aveva anche fatto, ma che al tempo stesso mi privava della mia legittima porzione di dolore, quel dolore che poteva diventare anche la pompa invisibile che fa andare avanti»[2].

Come può sentirsi parte della Storia, allora? E della propria vita? Come può accogliere il monito al ricordo di Primo Levi in Un uomo, senza trovare un senso, un ponte che la ricongiunga al passato? E scrivere?

Accettando le sfide del paradosso, sembra dirci l’autrice tedesca naturalizzata italiana: scrivendo in una lingua non sua di un passato che non le appartiene. Diventando un’archivista della memoria che gioca sporco, perché può farlo. Non è una storica Helena Janeczek, scrive romanzi. Non le interessa la prova inconfutabile del “così è stato”, quello che cerca è l’uomo, il noi che riecheggia in ogni racconto. La vediamo nascosta tra le fila delle parole che compongono i suoi libri, piegata a cucire i propri ricordi con quelli altrui, a dar loro la voce di cui erano stati privati, a mimarne gli errori, le lacune o a riempirle con la macchina dell’invenzione. Il suo primo romanzo, Lezioni di tenebra, segue la doppia direttrice del rapporto conflittuale con la madre e della sua deportazione nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau e poi in quello di Weißwasser; il terzo – dopo Cibo (2002), mosaico romanzesco di storie che indagano il rapporto di donne (e uomini) con il cibo, il corpo e i desideri –, Le rondini di Montecassino, è un racconto corale: la battaglia, descritta da diversi punti di vista, diviene sineddoche della guerra mondiale, che lascia, nel luogo in cui si è svolta, terreno fertile su cui possano finalmente congiungersi passato e presente. È in questo libro che Janeczek descrive a pieno il proprio intento poetico:

La realtà, la verità di quel che scrivi è un azzardo fondato su un atto di fiducia e di sottomissione alle sue leggi. Credi che esista: per nulla identica e interscambiabile fuori e dentro di te, ma che vi sia una zona in cui la realtà esterna si interseca con quel che hai vissuto, quasi un punto archimedico da cui estrarla e a cui tornare come a una presa a terra. Nulla di ciò che è umano ti è alieno, ripeti con Terenzio, e una storia vale l’altra, ma solo in questo senso: basta che tu riesca a trattarla come la tua o che la tua valga quella di un altro, qualcosa che devi scoprire, interrogare, imparare a conoscere[3].

Scrivere come giocare d’azzardo, sentendosi in colpa all’inizio, poi sempre meno, tant’è che l’autobiografismo tracimante del primo libro si affievolisce nel terzo ed è assente nella Ragazza con la Leica. Il peccato di esistere è estinto, la mano che scrive si fa più sicura e il Novecento si apre a un nuovo sguardo, che coincide con un bisogno: cercare anche nell’orrore la voglia di vivere, di reagire al dolore. Questa è la sensazione che si prova prendendo in mano il nuovo libro di Helena Janeczeck e soffermandosi a guardare la fotografia riportata in copertina: Gerda Taro, nata a Stoccarda il primo agosto 1910, ci fa l’occhiolino, ci sorride e ci sfida. Le rondini di Montecassino si chiude col ricordo di una fotografia, quella del padre dell’autrice che assomiglia a un Pierrot in borghese, con il viso scavato del sopravvissuto. L’immagine che ritrae Gerda in opposizione sembra quasi un risarcimento di volontà all’inazione dei perseguitati. Lei non ha conosciuto i campi, né le devastazioni senza ritorno a cui ha condotto la Seconda Guerra Mondiale; si è fermata a un passo dall’abisso, facendosi divorare dalle sue prime ombre. Nata da una famiglia ebreo-polacca, trasferitasi a Lipsia e poi fuggita a Parigi dopo essere stata arrestata per attivismo politico nel Partito Comunista, è morta a Brunete il 26 luglio 1937, schiacciata da un carro armato alleato mentre era intenta a fotografare lo scontro tra i soldati repubblicani e l’esercito di Franco. A raccontarci la sua vita, nel romanzo, sono ancora una volta i ricordi. Quelli delle persone che le sono state accanto e che con lei hanno condiviso le difficoltà, le speranze, la giovinezza. Willy Chardack, chiamato da tutti il Bassotto e ai tempi studente in medicina rifugiato a Parigi, innamorato senza speranze di Gerda; Ruth Cerf, compagna di stanza e di disavventure; Georg Kuritzkes, amante e amico, il primo a introdurre Gerda alla politica e alla militanza.

Sostenuta da uno strenuo lavoro di ricerca e documentazione, Janeczek ricostruisce la biografia della giovane donna per come essa è stata percepita e rimodellata dalla memoria altrui, come se la sua vita fosse indissociabile da quella dei suoi amici e compagni di giovinezza, un gruppo di ragazzi che negli anni Trenta del Novecento lottava per la propria vita e per le proprie idee. Il filtro del ricordo preserva inoltre il suo profilo da facili psicologismi, allontanandoci da ogni possibile identificazione. Facendocene, proprio per questo, innamorare.

Riviviamo con i narratori gli anni di Lipsia, quando un gruppo di studenti si ritrovava nel salotto di Dina Gelbke, la madre di Kuritzkes, a commentare gli ultimi eventi e a costruirsi un apprendistato politico; scopriamo le difficoltà di Parigi per i rifugiati di origine ebraica, ma anche il fermento sociale e culturale di una città che nelle sue strade e nei suoi caffè, primo fra tutti il Dôme, raccoglieva una gioventù piena di speranze e voglia di libertà. È qui che Gerda scopre la fotografia, prima grazie a Lilo e Fred Stein, che la ospitano insieme a Ruth Cerf a Parigi; poi grazie a un simpatico spaccone con la faccia da zingaro, André Friedman, che diventerà il suo compagno fino al giorno della sua morte. Il nome con cui oggi lo conosciamo è un altro, Robert Capa, e appartiene al più grande fotoreporter della storia, come riportavano i giornali che pubblicavano le sue fotografie. A inventarlo è stata la stessa Gerda, che aveva trovato un nome d’arte anche per sé, ispirato a quello di Greta Garbo. E che trovava si addicesse molto di più alla grande fotografa che si apprestava a diventare, rispetto a quello meno d’effetto di Gerta Pohorylle.

Infine, giungiamo in Spagna, dove Gerda e Capa si uniscono alla lotta dei repubblicani e delle Brigate Internazionali, documentando quanto accade, in prima linea tra i soldati a fotografare gli scontri.

È nella memoria di Ruth Cerf che si staglia l’immagine della morte di Gerda. Si trova nello studio di Capa, intenta a lavorare alla cernita delle fotografie da salvare dall’avanzata tedesca. Csiki Weisz, amico inseparabile di Capa dai tempi di Budapest, è con lei e a fatica le riporta quanto ha appreso:

L’ultima a usare la Eyemo, mormora Csiki, era stata Gerda. La Leica sbalzata via dall’impronta dei cingoli, con il rullino ancora intatto, era stata recuperata, ma della cinepresa non era rimasta traccia [4].

Forse è Gerda stessa a lanciare la macchina fotografica, per far sì che il suo lavoro non venisse perduto. Forse no. Ma la Leica e il rullino si salvano dalla distruzione e divengono correlativo oggettivo di una generazione che ha voluto vivere ad ogni costo, «ma non a ogni compromesso»[5].

Con questo romanzo, Helena Janeczek esprime a pieno l’importanza del ricordo, come ciò che rende l’uomo integro, salvo dall’oblio e dal nichilismo. E forse è proprio nella memoria, nostra e del mondo in cui viviamo, che si nasconde il senso stesso dell’esistere.


 

[1] Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, Guanda, Milano 2011, p. 12.

[2] Helena Janeczek, Le rondini di Montecassino, Guanda, Milano 2010, pp. 360-361.

[3] Ivi, p. 138.

[4] Helena Janeczek, La ragazza con la Leica, Guanda, Milano 2017, p. 152.

[5] Ivi, p. 144.


ragazza con la leicaHelena Janeczek, La ragazza con la Leica, Guanda, Milano 2017, 320 pp. 18€