Nel recente volume Occidente senza utopie pubblicato da Il Mulino, Massimo Cacciari e Paolo Prodi pongono quella che appare essere una delle questioni peculiari del nostro tempo: è ancora possibile elaborare un progetto per il futuro? È ancora immaginabile uno scenario alternativo all’attuale sistema del capitalismo globale? Per rispondere a questa domanda decisiva, i due autori considerano il destino dell’Occidente, leggendolo attraverso il complesso rapporto tra il concetto di profezia e quello di utopia. Il volume è composto da due saggi: Paolo Prodi analizza da un punto di vista storico il rapporto tra profezia e utopia nell’Occidente cristiano, considerando anche le istituzioni politiche e religiose nella loro interazione; Massimo Cacciari, invece, con un taglio più filosofico, elabora un’analisi concettuale dei due termini, per mostrare il loro intrecciarsi nella storia delle idee. Entrambi i testi, inoltre, presentano un’innovativa concezione della secolarizzazione, che non viene più intesa come il passaggio delle istituzioni dall’influenza del potere ecclesiastico a quella del potere civile, ma come un processo di “osmosi” in cui la Chiesa assume progressivamente le prerogative del politico e viceversa. Lo stesso, secondo i due studiosi, può essere detto della dimensione concettuale: sarebbe troppo riduttivo pensare all’utopia come ad una forma secolarizzata della profezia; tra le due, infatti, sussiste un rapporto di reciproca influenza che porta la seconda a farsi progetto politico e la prima a rivendicare l’autorevolezza della parola del profeta.

Il contributo di Paolo Prodi, intitolato Profezia, utopia, democrazia, pone al centro dell’indagine il concetto di profezia ed assume un valore particolare in quanto ultimo scritto dello storico di Scandiano, scomparso poco dopo la pubblicazione del volume. La prima parte del saggio introduce una tesi estremamente originale: la democrazia moderna ha radici antichissime, che risalgono addirittura alle origini di Israele, dove il “potere carismatico” del profeta che parla in nome di Dio si attua nella contestazione del “potere istituzionale”, resistendo a qualsiasi abuso da parte del politico. La profezia, intesa come contestazione non assorbibile del sistema, costituisce, secondo Prodi, una delle condizioni indispensabili della democrazia, in quanto piena realizzazione della libertà di espressione, esercitata a volte anche in opposizione al gruppo dominante e al diritto positivo. Con queste osservazioni, lo storico si inserisce nel dibattito sulla natura della democrazia, ritenedo che essa consista nell’insieme degli strumenti finalizzati ad impedire una dittatura della maggioranza. Prodi procede mostrando come, con l’avvento del cristianesimo, la profezia si sia istituzionalizzata facendosi Chiesa e perdendo gradualmente la propria forza eversiva. Questo avviene soprattutto a partire dalla “rivoluzione papale” inaugurata da Gregorio VII nell’ XI secolo, con il quale l’istituzione ecclesiastica rivendica il monopolio del sacro, separato dalla sfera del politico.

Nell’età moderna, lo spirito profetico si ripresenta sotto forma di progetto politico, attraverso una serie di passaggi che vanno dalla predicazione di Savonarola alla pubblicazione di Utopia di Tommaso Moro nel 1516. L’autore mostra così come l’utopia non sia semplicemente la secolarizzazione della profezia, bensì il risultato di un processo in cui la Chiesa tende a politicizzarsi con il rafforzamento della monarchia papale, mentre la politica fa proprie alcune peculiarità della religione. Nel corso dell’età moderna, tuttavia, così come la Chiesa ha gradualmente espulso le tendenze più autenticamente profetiche, anche i nuovi soggetti della politica moderna, gli stati nazionali, hanno abbandonato l’iniziale slancio “utopico-rivoluzionario” lasciando spazio al nascente pensiero costituzionale e alle due vie della “religione civile” e della “religione politica”. La prima, seguendo il modello di Montesquieu, distingue la dimensione della morale da quella del diritto positivo e vede Dio come fondamento del patto costituzionale. Alla base di questo modello – che ha una sua prima compiuta incarnazione nella rivoluzione americana – non vi è solo la nota separazione dei poteri e tutti i meccanismi istituzionali ad essa connessi, ma soprattutto una dialettica fra stato e società, fra norme positive e valori etici e religiosi. Nella “religione politica”, invece, la dimensione religiosa è assorbita dallo stato e la Nazione – in conformità all’ideale regolativo dello stato-chiesa – è innalzata a nuovo Dio, secondo il modello delineato da Rousseau, che ispirerà numerose esperienze: dalla rivoluzione francese, al modello dello stato giacobino ereditato dal bonapartismo, fino ai totalitarismi del Novecento, in cui l’ideologia diventa la nuova fede e qualsiasi voce di opposizione viene soppressa. Il saggio di Prodi termina con una breve considerazione sulla situazione attuale in cui sia la Chiesa sia la politica hanno perso qualsiasi contenuto utopico o profetico. Unico spiraglio di speranza nello sconsolato scenario del presente risulta essere, agli occhi dello storico, l’elezione al soglio pontificio di Papa Francesco, un pontefice-profeta venuto dalla periferia del mondo e intenzionato a riporre al centro dell’attenzione della Chiesa il dimenticato dualismo profezia-istituzione. Il contributo di Prodi risulta di notevole interesse soprattutto nella sua prima parte nella quale sostiene la tesi del legame tra profezia e democrazia, tesi approfondita dallo storico in molte delle sue opere più significative. Le osservazioni sul pontificato di Bergoglio, invece, risultano più che altro l’ultimo auspicio di Prodi, che è costretto ad ammettere che “tre anni in una svolta epocale sono troppo pochi per azzardare un giudizio storico”.

Il contributo di Massimo Cacciari, intitolato Grandezza e tramonto dell’utopia, ha il merito di mostrare l’attualità del pensiero di Tommaso Moro, Tommaso Campanella e Francesco Bacone, solitamente considerati autori minori. È infatti frequente vedere le opere principali di questi pensatori ridotte a meri esercizi letterari privi di spessore filosofico e volti ad immaginare e descrivere mondi fantasiosi e irrealizzabili. Questo breve saggio riesce a smentire un pregiudizio tanto diffuso, mostrando la forza prefigurante del pensiero utopico. La prima parte del testo realizza una sintetica fenomenologia dell’utopia, mostrando come questa sia una forma di pensiero che mira a delineare un sistema socio-politico universale – oggi potremmo forse dire globale – legato al progresso tecnico-scientifico, che costituisce il vero motore della modernità. Ben lungi dall’essere una fantasia irrealizzabile, l’utopia parte da un’analisi realistica delle condizioni materiali del presente, di cui individua la nuova soggettività. Marx la definirà il “cervello sociale”, l’organizzazione dell’accademia, in grado di diffondere e applicare le nuove scoperte, promuovendo allo stesso tempo l’augmentum scientiarum contro le resistenze delle forme arcaiche di potere politico, del tutto incapaci di conciliare la struttura delle istituzioni con le esigenze dell’apparato tecnico-scienifico. Obiettivo di questi autori è pensare ad un’organizzazione della società che consenta una perfetta divisione del lavoro produttivo, ovvero quel lavoro che coinvolge tutti nel progresso indefinito del dominio della natura da parte dell’uomo e che giustifica, ad esempio, la critica di Moro alla proprietà privata della classe aristocratica parassitaria e antiproduttiva.

De te fabula narratur: la Nuova Atlantide di Bacone, secondo l’interpretazione di Cacciari, parla proprio della società capitalistica attuale, che rappresenta il compimento dell’utopia moderna. Un compimento non privo di problemi, come mostrano le numerose disuguaglianze che impediscono un godimento universale della ricchezza prodotta. Proprio per questo, all’origine della società industriale, la letteratura utopista trova una nuova linfa con i “socialisti utopisti” (Saint-Simon, Fourier, Owen, Proudhon), impegnati ad immaginare una nuova organizzazione della società che, ponendo al centro l’industria, riesca ad ottimizzare il lavoro produttivo e a ridurre il disagio sociale. Contro questi autori si scagliano le critiche di Marx che accusa l’utopia di nascondere le contraddizioni del capitalismo dietro all’immagine fantastica di una comunità pacificata. A questa fantasia il filosofo tedesco oppone il progetto di un socialismo scientifico, capace di condurre la contraddizione al proprio necessario esito rivoluzionario. Queste due posizioni, secondo Cacciari, si confrontano nel Novecento all’interno della cultura marxista: alcuni, come il filosofo ungherese György Lukács, continuano a proporre un socialismo scientifico, opponendosi alle critiche riformiste e socialdemocratiche di chi sostiene che le contraddizioni del capitale non possano fondare in alcun modo un suo superamento. Altri, invece, come Ernst Bloch o Walter Benjamin, nel tentativo di formulare un’ipotesi rivoluzionaria che non ricada nelle falle della scienza marxista, recuperano elementi del pensiero utopico e profetico. Nel dibattito tra Bloch e Lukács, descritto da Cacciari alla fine del volume, le due prospettive si annullano reciprocamente, lasciando l’Occidente, per la prima volta dopo l’età moderna, privo della capacità di immaginare uno scenario alternativo.

Se il saggio di Prodi apriva nella conclusione alla possibile svolta del pontificato di Francesco, Cacciari non è altrettanto ottimista. La difficoltà di immaginare uno scenario alternativo alla situazione presente non è frutto del fallimento del pensiero utopico, bensì del suo compimento. L’analisi sviluppata dal filosofo nel suo contributo si rivela un’efficace diagnosi dei problemi del presente: dalla mancanza di autorevolezza del politico che ha cessato di preoccuparsi del Fine, riducendosi sempre più ad apparato tecnico-amministrativo, alla difficoltà delle forze politiche riformiste e rivoluzionarie, legate a categorie e concetti appartenenti all’onda lunga di un pensiero che, come è stato mostrato, si è compiuto ed esaurito. Che cosa resta da fare? Solamente “ricordare l’essenza dei termini in cui si gioca il nostro destino, farne davvero archeologia, indagare l’arché” (p.131). Quello che i due saggi, letti nella loro complementarità, sembrano volerci dire è che solo dalla consapevolezza dell’essenza di profezia e utopia e del loro rapporto con le istituzioni che storicamente le hanno incarnate, solo da questo modesto lavoro di igiene intellettuale, un giorno potranno forse nascere le condizioni per tornare nuovamente a pensare il novum.


occidente-senza-utopieMassimo Cacciari, Paolo Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna 2016, 144pp., 14€