Questa voce giunge dalla più profonda e terribile notte. Dal regno dove si liquefanno speranze e desideri, aspirazioni. Si cuociono in un brodo disperato le ambizioni della razza umana, finché la disgregazione non è totale, pienamente funzionante. E se nel modello del suo maestro riconosciuto H. P. Lovecraft da un certo punto in avanti tutto è disintegrazione molecolare, deformazione disumana, irruzione della più devastante realtà extra-planetaria in quell’ordinato mondo che credevamo il nostro, qui le cose sono appena poco differenti, ma come per Lovecraft anche per Thomas Ligotti vale ciò che ha detto Michel Houllebecq: «un odio assoluto per il mondo in generale». Contro il mondo, contro la vita, si chiama appunto il saggio dello scrittore francese, dedicato ad HPL.

 

Thomas Ligotti è stato uno scrittore drop out dei più radicali del secondo Novecento americano, almeno fino a quando non è andata in onda la prima stagione di True detective (2014). Nel fortunato serial della HBO due poliziotti indagano su omicidi rituali nel Sud-Est americano. Southern gothic d’investigazione. Lo show runner Nic Pizzolatto manovra la macchina della riprogrammazione postmoderna come un deejay assembla la playlist perfetta. Robert W. Chambers, William Faulkner, Tennessee Williams, Fratello dove sei, Alan Moore, Grant Morrison, sono chiamati in scena e ‘prestano’ (sono plagiati) tratti delle loro opere ai personaggi o all’atmosfera. Il nome di Ligotti emerge così dall’indistinta notte nella quale abitava – in realtà una notte molto affollata di seguaci selvaggi – perché il protagonista della serie tv Rusty Cohle pronuncia sentenze anti-nataliste estratte proprio dalle opere di Ligotti. Successo istantaneo, ripescaggio tardivo d’importanti editori internazionali (la Penguin Classics, nientemeno), approdo anche in Italia di alcune delle proprie opere. Nel giro di due anni il Saggiatore pubblica Teatro Grottesco (uscito nel 2007 negli USA e nel 2015 in Italia), La cospirazione contro la razza umana (2010, 2016) e ora anche Nottuario (1994, 2017: le traduzioni sono tutte di Luca Fusari). 

 

cospirazione

Thomas Ligotti è nato, vive e scrive a Detroit. Non è un caso. La città fantasma, la città saccheggiata. Lo sfascio post-industriale. Cattedrali di ferro arrugginito e case sbudellate all’ombra dell’altare sul quale l’agnello urbano è stato sacrificato in nome della gig economy. Assi di legno inchiodate alle finestre, come un bendaggio per gli occhi malati delle abitazioni. Non c’è alcun racconto di Ligotti che parli di Detroit o che fornisca qualsiasi altra coordinata geopolitica: il mondo trascritto su queste pagine è desolato più che astratto. Ci sono uffici, stazioni di benzina, appartamenti, main streets, feste di Halloween, traslochi, appartamenti con basements nei quali indicibili esperimenti d’orrore sventrano corpi e cambiano il destino della trama per sempre. Ci sono chiese e case di legno scricchiolante, ma non c’è topografia, non ci sono riferimenti all’attualità e neanche alla contemporaneità. Nessuno usa il telefono cellulare, lo smartphone, nessuno ha un SUV, vota Trump alle elezioni o qualche altro scellerato candidato. Il mondo di Ligotti è ingovernabile dal consorzio umano: il seggio dell’umano è vacante. O meglio: è il più insignificante. Eppure nessuno ha scritto, nella cornice di una narrativa horror, racconti sul lavoro come i suoi – si veda il ‘ciclo’ della Quine Organization (in A favore dell’azione punitiva e Il nostro supervisore temporaneo, consecutivi in Teatro grottesco) – un grappolo di storie dove i protagonisti vengono investiti dalle cruente assurdità del taylorismo o della subalternità più grigia e senza senso. Racconti come li potrebbe scrivere, qui da noi, Vitaliano Trevisan, con la stessa solipsistica nevrosi. Per certi versi sembra di rileggere uno dei libri più belli di quel Federigo Tozzi, che certamente Ligotti non conosce – parimenti anche molti italiani ne ignorano l’importanza – ma che raggiunge abissi di orrore quotidiano insuperabili, ovvero Ricordi di un impiegato.

Nei racconti di Teatro grottesco o di Nottuario c’è solo disgrazia materica, sfascio di tessuti, di strutture; c’è solo una terra sgraziata di corpi anonimi ma tangibili, linfatici, con le loro calvizie, con i loro virus intestinali, con le loro psicosi, con le medicine da assumere. C’è dunque una sottile e costante tensione tra l’horror filosofico – del quale questo scrittore schivo è riconosciuto come un esponente di prima categoria – e l’horror politico più radicale e militante. Insomma, ogni storia è sia, in qualche modo, un’esposizione teorica che un luogo fisico attraversato da ectoplasmi umani, con i loro liquami e i loro scarti corporei.

 

Horror filosofico, ma anche filosofia dell’orrore. Già, perché le tesi del personaggio di True detective sono prese di peso dalla Cospirazione contro la razza umana, il saggio programmatico che espone la ‘filosofia’ del suo autore, la quale, sulla scorta di filosofi come Ray Brassier (firmatario in proprio della prefazione alla CCLRU), Zappfe, Metzinger e, soprattutto, Schopenhauer, si dichiara anti-natalista. Ovvero: la vita umana è uno sbaglio. Colpevole di questo crimine biologico è la coscienza umana, un errore dell’evoluzione. Se in Schopenhauer la Volontà di vivere era una «padrona severa e inconsapevole di tutto l’essere, forza idiota che costringe ogni cosa a fare ciò che fa, stolido marionettista che sostiene il disordine del mondo», per Ligotti la «maledizione della coscienza» è la «genitrice di tutti gli orrori», perché «ci fa fare qualcosa, andare da qualche parte, essere qualcosa, conoscere qualcuno per poter sfuggire al nostro MALIGNAMENTE INUTILE essere, e pensare che essere vivi vada bene e non che non dovrebbe essere». Perfino l’ipotesi di farla finita è subito neutralizzata dal nostro istinto a sopravvivere e riprodurci, giacché la coscienza, quando si è sviluppata come un’aberrazione darwinista, ha ben pensato di renderci «solo un corpo la cui unica occupazione è essere vivo e obbedire alla biologia». Vale a dire: sfornare altri esseri umani.

 

Ma La cospirazione contro la razza umana è anche, a suo modo, un libro ironico: l’estrema disperazione degli enunciati porta con sé un messaggio paradossale di speranza. Una speranza tetra e terribile: l’unica possibilità di salvezza per la razza umana è quella di estinguersi. Smetterla con questo abominio della riproduzione e consegnarsi alla fine della propria sofferenza. Il mondo come volontà e rappresentazione, insomma, diventa una sorta di manuale di auto-aiuto. E proprio come nel capolavoro del filosofo tedesco anche nella CCLRU si parla di buddismo. Se Schopenhauer utilizzava i Veda per mutuare linguaggio e immaginario Ligotti parla del buddismo come disciplina incredibilmente affine al pessimismo: come quest’ultimo anch’esso vede il mondo costituirsi intorno alla «sofferenza» e ogni desiderio essere il propellente per accrescere l’angoscia umana. Sembra di rileggere Satantango, capostipite di molto horror filosofico, pur non essendo apertamente un libro del terrore, ma del Terrore e della leopardiana souffrance. Non a caso Andrea Gentile, nella Postfazione a Nottuario cita Il cavallo di Torino, film di Bèla Tarr, sceneggiato insieme all’autore di Satantango Laszlo Krasznahorkai.

Nella foschia dei suoi giorni l’uomo avanza – «migra» è il termine usato nel libro – come il personaggio di un racconto dell’orrore soprannaturale o weird (l’altra grande etichetta che si dà a Thomas Ligotti), perché l’esistenza stessa della razza umana è inspiegabile, la sua persistenza, la sua dominazione sulle altre specie viventi, la sua presa di coscienza sono un mistero.

nottuario

«Qualcosa di terribile nella sua essenza arriva e avanza le sue pretese», è questo il motivo ricorrente dell’orrore soprannaturale, della letteratura weird. È un problema soggettivo: la percezione – creata anch’essa dalla coscienza, come una deviazione, giacché gli animali non provano tanatofobia o sensazione di una «atmosfera» soprannaturale, ma la loro storia si basa sulla nutrizione e la riproduzione e infine la morte –

di essere ghermiti da qualcosa di gigantesco, di extra-umano. «A dirla tutta, usano tutti e hanno sempre usato tutto, perché vengono da un tempo antico, da prima che tutti i mondi si risvegliassero da una notte lunga e insensata» (da L’angelo della signora Rinaldi, in N). Qualcosa che ci ha atteso da sempre, fatalmente. Lo stesso Ligotti (Premessa a Nottuario) indica la doppia valenza semantica di weird a seconda della sua funzione grammaticale: in quanto aggettivo weird indica lo ‘strano’, ‘l’inquietante’, il ‘perturbante’. Il grande intellettuale radicale Mark Fisher, morto suicida nel 2017, dedicò il suo ultimo saggio proprio a questa problematica, tra eerie e weird (a proposito: quando arriveranno in Italia tutte le opere di Fisher? Ne abbiamo un bisogno urgente. Intanto ci accontentiamo di Not Edizioni che pubblica con la traduzione di Valerio Mattioli Realismo capitalista).

Se utilizzato come sostantivo, invece, weird significa «destino». Tutti noi siamo i personaggi di un racconto weird, tutta la nostra esistenza è condannata a vivere in un mondo «in definitiva eccentrico e in definitiva ridicolo». Qualcosa che esiste da molto prima di noi emerge per farsi beffe del nostro supposto primato nell’assemblea galattica delle potenze. Un terrore che umilia le nostre minuscole idiosincrasie come i nostri più lancinanti dubbi metafisici. L’orrore soprannaturale ha la stessa temperatura in Lovecraft e in Schopenhauer: ovunque «dietro la vita c’è qualcosa di deleterio che rende il nostro mondo un incubo».

L’amore per Lovecraft, come si può ben capire, è incondizionato. Lo Tsalal del racconto omonimo di Nottuario è certo un omaggio ai «Grandi Antichi» e al Necronomicon di Lovecraft. Ma soprattutto l’amore è tale in virtù dell’opera di Lovecraft, basata interamente su «una nidiata di pseudo‑divinità la cui presenza nell’universo declassa l’idea del miglioramento nella razza umana a banale errore di calcolo cosmico». E proprio dal maestro di Providence Ligotti ha mutuato alcune tecniche narrative.

 

I racconti di Ligotti – quelli migliori cioè – non hanno una progressione narrativa. Qualcosa accade, qualcosa di incredibilmente misterioso accade, ma di fatto non cambia (di molto) le cose. Gli eventi sono sconnessi, accidentati, non alludono a un fine. Non si va da nessuna parte. Il Teatro grottesco-racconto è così: di tanto in tanto dei personaggi scompaiono o sono rinchiusi in manicomio oppure sono sottoposti al più inesorabile disfacimento fisico. Il Teatro Grottesco – allegoria dell’esistenza umana, «il Teatro era, ed è, un fenomeno intensamente distruttivo» – estende fin nelle sue propaggini nere il Teatro Naturale di Oklahoma di Kafka, col quale si chiude America. Niente muta, perché, fin da subito siamo avvertiti che l’esperienza umana – a qualunque latitudine – si svolge nel più fitto mistero.

Anche i racconti di Lovecraft non sono che resoconti di esplorazioni di mondi ignoti. Gli eventi contano ben poco, in entrambi gli autori. I personaggi lovecraftiani sono quasi interscambiabili, tanto la loro psicologia è ridotta a zero. Sono robotici, ridotti a pura funzione. Devono fare soltanto una cosa: prestare lo sguardo agli orrori cosmici, spiare dal buco della serratura l’universo di contorsioni xenomorfe che hanno abitato la Terra prima di noi e ancora le galassie e ancora le abiteranno dopo di noi. Lovecraft è più un prosatore antico che non un narratore moderno, benché il suo immaginario sia quanto di più moderno abbia prodotto la letteratura nel primo Novecento: HPL è un descrittore di mondi, non un artefice di trame. Le terribili scoperte dei protagonisti rimangono sonnolente, per così dire, tornano al loro torpore iniziale, sonnambolico, come prima che fossero scoperte. Di racconto in racconto, di storia in storia Lovecraft illumina una orografia mostruosa ma parziale.

Anche alcuni racconti di Ligotti, come il già citato Teatro Grottesco, ma anche A favore dell’azione punitiva (in TG), il celebrato La Medusa (in N), il bellissimo La Torre Rossa (in TG), Il pagliaccio marionetta (in TG), Luna park e altre storie (in TG), il meraviglioso Responsabile cittadino (in TG), I luna park nelle stazioni di rifornimento (uno dei suoi migliori in assoluto), Il prodigio dei sogni (in N), Folle notte di redenzione (in N), quasi tutti gli apologhi filosofici che chiudono Nottuario, nella sezione Taccuino notturno, tutti questi racconti danno l’impressione di averci fatto assistere – noi, spettatori impotenti – a un frammento di eternità che accade da sempre e che continuerà ad accadere anche dopo il nostro passaggio. Qualcosa di malignamente immutabile da non poter essere interferito con alcuna azione umana. Bagliori di oscure eternità che s’illuminano in uno scatto al magnesio; e poi, come in una dissolvenza al nero, subito tornano nella tenebra. Così in Il prodigio dei sogni: «l’incredibile e irregolare estensione della storia umana non fosse che una voce, patetica e parziale, di un’infinitamente vasta e oscurata cronaca di metamorfosi universali». E ancora, nell’Angelo della signora Rinaldi: «Tutti i miei brutti sogni, dopo un po’, ebbero fine, come sempre avevano fatto e sempre faranno, per usare il mio mondo soltanto a intervalli e dissolvere la mia vita, poco a poco, nella loro». Proprio in questo racconto, dopo quello che accade tra il giovane protagonista e la signora Rinaldi, ci aspetteremmo una metamorfosi decisiva nel destino del personaggio. Invece la vita prosegue com’era stata finora. Ci sono più Carver e Richard Yates che Stephen King.

 

Piattaforme del disagio. Spesso ci sono palcoscenici nella narrativa ligottiana. Stanno lì, stage appena rialzati, illuminati da lampade a stelo. Spettacoli tristissimi. È chiaro: siamo delle marionette, come il Pagliaccio del racconto omonimo. «L’immagine umana come marionetta è peculiare del pessimismo» (da LCCLRU). Siamo marionette perché tutto è già stato deciso – il nostro fato ci attende nel vuoto del cosmo. Nello splendido racconto I luna park alle stazioni di rifornimento un certo Quisser racconta al narratore di quando i suoi genitori lo portavano a visitare alcuni inquietanti luna park dentro le stazioni di benzina. I capannoni sono sudici tendaggi allestiti nei pressi della pompa di rifornimento. Al loro interno panche di legno grezzo, scomode, traballanti. Di fronte al pubblico sparuto (spesso composto dalla sola famiglia di Quisser) si alternano circensi che nascondono, sotto a frusti vestiti da clown, i sudici abiti da lavoro dell’officina. I numeri, poi, non prevedono né alcuno spettacolo acrobatico, nessuna gag, nessun numero comico o ginnico, nessuna trovata. Ci sono ‘attori’ come l’Ipnotizzatore, che porta in volto una maschera di plastica, «imitazione scarna e pallidissima di un volto umano» che al posto degli occhi reca due dischi con disegnati sopra delle spirali. Lo spettacolo dell’Ipnotizzatore consiste nel rivolgersi al pubblico con gesti «caotici» e poi «arrancare fuori scena». Ma il più inquietante di tutti è lo Showman. Un teatrante il cui spettacolo dà l’impressione di essere «sempre in corso». Lo Showman è in piedi, sul palco, «con un vecchio cilindro in testa e un mantello che sfiorava il palco sporco». Da sotto il cappello spuntano «ciocche di capelli rossi stoppacciose» che somigliano a un «nido di nauseanti parassiti». Unico altro dettaglio visibile: le mani che afferrano il mantello. Mani verdognole, malaticce, deformi, «che si arricciavano in piccoli artigli». Lo Showman non fa niente, rimane immobile sul palco. Non si volta, anche se dà cenno di poterlo fare da un momento all’altro. Si rimane paralizzati nell’insostenibile tensione di questa performance del male. Dove vuole andare la gag dello Showman? Siamo colti da una smania angosciosa sempre più crescente, poi irresistibile. E ben presto capiamo che questo numero teatrale è così inquietante perché ci fa sentire come il gatto intrappolato nella scatola di Schrödinger: siamo al tempo stesso sopravvissuti e uccisi dalla terrificante visione, che però non arriva.

 

teatro grottescoLo Showman. Un uomo di spettacolo. Un uomo – forse una creatura, uno spettro, la veggenza di un desiderio fantasmatico – che surriscalda e fa esplodere il circuito che separa la finzione dalla realtà. Clic. Finzione. Clic. Realtà. E così dietro allo Showman e tutte le altre sfiancate marionette di Ligotti, che odorano di pericolo e di catatonia, si affaccia il fantasma di Andy Kaufman. In Absolutely nothing Giorgio Vasta scrive frasi molto azzeccate sul ‘comico’ americano: «In ogni circostanza, da Kaufman veniva fuori un senso di inadeguatezza così forte da rendere inequivocabile che non avere idea di cosa fare sia la struttura costitutiva dell’umano […] tutto in Andy Kaufman dice sopporta, resisti al bisogno di un senso preciso, prova a stare in un senso instabile. Accetta che l’immagine delle cose sia sempre sfocata, malferma, brulicante: esisti nella chiarezza dell’ambiguità». Quello che c’è di Kaufman nella narrativa del Teatro grottesco o in Nottuario è la comicità dell’insensatezza. La presa alla lettera del mondo, l’assunzione senza sfumature della sua tragicità e dunque della sua indole ridicola. Teatro grottesco, appunto.

 

Il teatro che cancella: la mente. Come in Lynch (lo Showman è molto simile al Boogeyman di Mullholland drive) anche qui ogni dramma dà l’impressione di svolgersi in un teatrino dentro un termosifone: fra il calore cristallino degli elementi, in un paesaggio meteorico e immobile; nell’infinitamente piccolo. Forse è per questo che le geografie ligottiane non hanno nome, perché si svolgono nel mondo subatomico che solo una narrativa quantistica potrebbe indagare e i nomi dei borghi cadenti o delle strade sarebbero allora Quark Street, Leptone Avenue, Gluone Square, Fotone Park, ecc. Forse questo mondo infinitamente piccolo è proprio il nostro universo, anzi, lo è certamente: non siamo che Nulla, osservati dai topografi spaziali dei Grandi Antichi, dalla prospettiva di forze e presenze che ci hanno creato e ci manovrano. «E io non posso che aspettare, conscio che un giorno egli si volterà, scenderà dal palco e mi restituirà all’abisso che da sempre temo. Forse allora scoprirò che cosa ho fatto – cosa tutti noi abbiamo fatto – per meritare questo destino». Così dice il narratore a proposito dello Showman. Un racconto perfetto. E terribile. Una favola definitiva per l’addio alla razza umana.