Una tensione verso i luoghi, la memoria e la giovinezza sembra attraversare Sentimentale Jugend, opera lirica di Stefano Pini inserita nel XIII Quaderno di poesia italiana contemporanea (Marcos y Marcos, 2017).
Una tensione verso le città, italiane e non, da Berlino a Lisbona, da Treviglio a Milano, in quella via Ippocrate «dove si tagliano i prati» e «accadevano seconde e terze vite», dove «correvano i matti»; ma «non è l’ora dei tabulati» che vuole testimoniare Pini, la sua poesia rimanda a un altro movimento: «ogni corsa dovrebbe essere muta | tra i rami, non eludere, non sapere».

Dove si tagliano i prati
accadevano seconde e terze vite,
orbite scese da altezze sterminate.
“Lì correvano i matti”
ma non è questa la storia sotto gli archi
del nosocomio, ora non è l’ora dei tabulati.
Il prato è alto dove c’era la fossa delle preghiere.
Non è oggi che cadremo al confine:
abbiamo siglato una tregua, il permesso
per le stagioni e un sabato.
Stesi qui si preme l’erba,
ogni corsa dovrebbe essere muta
tra i rami, non eludere, non sapere.

(Milano, via Ippocrate)

Non può “eludere”, evitare o sfuggire con l’inganno la poesia di Stefano Pini, non può sottrarsi al proprio dovere, disposta com’è a scendere in verticale per indagare «le fermate […] da rimettere a posto»,[1] «sollevare dei pesi, deporli»;[2] non può “sapere”, non può “già” sapere, non può sapere “a priori” la poesia di Pini, non può essere definita da una verità storica antecedente che ne precluda il mistero, la «galaverna» che ricopre il dato reale mantenendolo incerto, sospeso; è una corsa “muta”, incline all’ascolto («“Non parlare”», scrive l’autore in Milano, via Conchetta, «ci riconosceremo nella trama | di questi canali», e ancora, «“Non chiamare” | la storia è già data, la città piega in silenzio.»); è una corsa “tra” i rami, “attraverso” i rami e quanto, forse, può essere detto.

Ma cosa può essere detto?
Il tema della “dicibilità”, centrale in Tersa morte di Mario Benedetti (autore significativo per Stefano Pini, insieme a Milo De Angelis e Vittorio Sereni), si rivela un elemento vitale di questa «corsa muta». Non solo cosa può essere detto di fronte al dolore, alla morte (il “nóstos”, il «ritorno alla parola proprio nel momento in cui se ne percepisce tutta la sua povertà»,[3] un ritorno «costellato di lutti, difficoltà, solitudini»[4] che, come osserva Giorgio Melandri, Mario Benedetti conduce con estrema lucidità in Tersa morte), ma cosa può essere detto nel momento in cui vengono rievocati i luoghi, i personaggi, le stagioni, la giovinezza.

Si pensava allora
quel che non si sapeva dire:
i termini sepolti per la campagna,
le vie, curve circonvallazioni interne
e non più la linea dell’infanzia.
Si intuiva il traguardo di un’età
segreta nell’erba dei giardini,
i pali improvvisati e niente
traversa, le spalle agili sulla schiena.

(Treviglio, viale del Partigiano)

Di cosa può farsi carico, espressione, cosa può “dire” la parola poetica? Lungo una «corsa muta» fatta di intuizioni, luce rotta, percorsi labirintici, tregue, confini, trame, increspature, solchi, fratture, rese. Una corsa nella quale i tempi verbali si intrecciano, dal passato al presente, a volte persino nello stesso verso; una corsa che comporta fatica, necessità, rivelandosi essenziale in quanto discesa verticale.

Era da queste parti
dove dicevi che sono nato,
la piega dei fogli che ho letto e gli steli
del grano d’estate, la terra
dove poggiavo e adesso guardo: il giorno
era a più distanze, ricordo
la luce rotta di chi adesso, labirinto
tra i campi è uomo.
Le mura sono cresciute senza germogli
attorno la pioggia che porta per mano
fino alla carta, dove s’impara il seme
e che questa è una casa so scriverlo,
un amore dove la radice arrampica.
Una pianura, quanta fatica per tornare qui.

(Treviglio, via Milano)

Una fatica, una discesa che chiama in causa le città, luoghi scomparsi, pianure ritrovate, curve e pali improvvisati che animano le innumerevoli vie evocate dall’autore, da Treviglio a Milano, passando per via Sforza.

Si baciano il confine delle labbra
la Guastalla in controluce nei rami
del parco respinge il traffico, di là.
Milano è questo,
vent’anni sotto un cappotto
l’abilità di morire ogni venerdì
di febbraio e galaverna.
Il mare, di là.

(Milano, via Sforza)

Milano: il mare e il traffico da una parte, la città dall’altra come una creatura che respinge, resiste «sotto un cappotto» nell’inverno che «trattiene un calore | agli angoli dei mercati, nei sottopassi», una città dove è possibile riconoscersi nella trama dei canali, nel riverbero dei tetti, nelle increspature.
Berlino, le fondamenta sotto il cemento dove «resiste il solco | la frattura viva dei fossi».

Si nasce nelle fondamenta,
i nervi che seguono la spina
mentre una storia cede,
le mani intrecciate al confine.
Sotto il cemento resiste il solco,
la frattura viva dei fossi.
L’edera solennemente bella
sulle pietre sbeccate degli anni.

(Berlino, Friedrichstraϐe)

Lisbona, «vera e propria metafora dell’esistenza: i suoi incendi e i suoi terremoti si intravedono ancora nelle strade e nelle case, che tuttavia non tremano».[5]

Un’intera metropoli qui
si flette e prega, raccolta
nell’incavo della collina
dove il mezzogiorno scivola e un incendio
ha spento terremoti, risparmiato solo le acque.
Nessun giudizio, nessuna ricostruzione,
eppure le strade non tremano al sole:
i secoli muoiono a Occidente
e non tremano.

(Lisbona, Jardim das Amoreiras)

Luoghi nei quali l’autore incontra la morte e il dolore, due temi centrali attraverso i quali Pini intrattiene un dialogo con Mario Benedetti: «il riso di Curzio rimandato | per non avere mai sempre vent’anni» richiama direttamente «E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni».[6] Se in Mario Benedetti questo verso appare come un monito ad essere accorti, a non avere «solo vent’anni» ma a maturare la tragica consapevolezza della condizione umana riguardo la morte (e quindi la vita), nel testo di Pini la morte incombe spezzando il riso di Curzio, “rimandandolo” per sempre, per quei vent’anni mai raggiunti eppure fissati nel ricordo, nella memoria, unico tramite che sembra in grado di lenire il dolore: «se penso a via Bovisasca la sera | fatico a dormire, a ricucire le voci | spezzate dalle ringhiere | ad agosto». Un dolore sobrio, nascosto, segreto, eppure presente, come perdita, distacco, in luoghi e tempi rievocati «di cui non c’è più niente».

Rivedi il solaio disegnato dai ragni
tele che tracciavano le estati
sorprese divelte, riparate in poche settimane.
La grazia è passata di qui
nella corteccia del leccio, nella locanda
con il distributore; è accaduto
l’amore prima delle sbucciature
e nuovi amori, quando il silenzio
era paradigma della sera e io
non tenevo la tua mano, questo tempo
di cui non c’è più niente.

(Mozzanica, strada statale 11)

Un dolore che, come osserva De Angelis, «diventa il senso di una rinascita possibile, di un continuo e drammatico tentativo di vivere»[7] che fa apparire la nostra esistenza «un alternarsi feroce di ferite e convalescenze, di paralisi e piccoli spiragli da cui scaturisce il respiro che sembrava soffocato».[8]

L’età mette ordine nei cassetti
le primavere ancora rosa, come le scale
del santuario che sta lì da secoli
e nessuno più teme, nell’orbita del paese.
Si crede in una specie, un conforto
per le ossa azzimate e il suono di un figlio,
le ore contate che fanno un padre.
Si prova qualcosa, a dire che non è la fine.

(Treviglio, via Deledda)

Più avanti, nel capitolo Nomi, l’autore ci presenta una serie di personaggi: Adele, «braccia e caviglie […] tutte allerta nei giochi»; Celestino, «giovane e vecchio | un’antologia di guerra, poco più di un paese | interrotto»; Marta, «che consuma | la pelle dell’indice, anniversari»; Paolo, sul cui bavero del cappotto «cresceva | una grammatica di cristallo».
Nomi avvolti dal mistero, intrecciati all’infanzia, per i quali si avverte la necessità di utilizzare in modo giusto la parola, senza sprechi, ridondanze, alternative: «per ogni sostantivo | il suo posto». Ogni parola è collocata nel testo perché non è possibile fare altrimenti, sembra volerci dire l’autore, evocando un’etica della lingua, se così possiamo definirla, a cui Pini vuole attenersi non solo in questo capitolo ma nell’intero libro, divenendo tratto essenziale della propria poetica. Come se all’interno di ogni testo fosse stato necessario compiere una scelta indispensabile, incontrovertibile, portando in superficie soltanto ciò che pare in grado di dar voce alla profondità nella quale la parola poetica ha percorso il proprio travaglio.

E poi le Stagioni, i grandi eventi della Storia che ci hanno «sorpresi la sera | sul campo arroccato, nei sobborghi»: da una parte «la marginalità della Bassa», dall’altra «il crollo | l’inizio di una storia»; «noi | pronti al dribbling tra mobili e poltrone, | negli sbuffi della Merla» e «i palazzi di Praga sullo schermo». «Tutto è successo in una stagione»: la Storia e la giovinezza, tutto è avvenuto nella medesima stagione.

Ci ha sorpresi la sera
sul campo arroccato, nei sobborghi.
Ricordo la propaggine della via
la marginalità della Bassa
sulle terre di confine,
sei canali sul telecomando e un ordine
bambino. Il crollo
l’inizio di una storia.

*

Ritrovo la nebbia che si spegne sui prati,
il confine segnato da un voto impreciso.
La cortina s’accendeva davanti a noi
pronti al dribbling tra mobili e poltrone,
negli sbuffi della Merla.
Tutto è successo in una stagione:
i palazzi di Praga sullo schermo,
il respiro di traverso dove non si avanzava
la cena.

È «una memoria che preme | mentre ovunque si muore», una memoria che necessita di silenzio («tace la pietra sulla via»), ripetizione («si ripete | questa fotografia | ieri, oggi, sempre dall’alto»), che comporta una solitudine «fraterna», un’alleanza, ma soprattutto coraggio: «il coraggio di guardare», di ripercorrere tempi e luoghi che possono aver generato un dolore ma che non per questo devono essere evitati. La poesia di Pini li esplora, li evoca, inoltrandosi lungo la propaggine, la nebbia.
È il coraggio che “diserta” «i bastioni | le automobili in fila indiana bloccate | sul ghiaccio» portandoci verso «le rotte delle rose», «fuori»; è il coraggio che allarga la crepa nel metrò mentre si avvicina la fermata, che ci riporta a «guardare» mentre tutti «cantano, | hanno faccende di cui occuparsi, | quasi quotidianamente si sentono eterni»[9] per il loro «continuo affaccendarsi».[10]
«Cucivamo un silenzio irrisolto», scrive Pini in una delle ultime poesie della raccolta, rivelando probabilmente la tessitura che intreccia il corpus dei testi e la posizione dell’autore verso la realtà, la memoria, la giovinezza.

Cucivamo un silenzio irrisolto
il trasudare delle sorgive
e il giorno pieno della pianura ci teneva
gli occhi come per caso: “Nessuna prosa”
dicevamo al compiersi delle tele,
primo sguardo di un uomo,
il profilo delle cose in una serratura.
Niente era nostro del tutto
ma per caso.

Poiché «ci è stato dato questo e non altro», «un’attesa qui e non altrove», e noi non possiamo che «frugare».

Premono i pesi sul petto,
le ore sulla sera e noi a frugare
lavori che non esistono più,
un tempo del tempo per cui siamo
qui tra le cime e i fontanili. Ci sono
camicie e anelli e denti a ciascuna finestra
i ritorni di chi ha stretto un patto
con i corpi e le fabbriche.
Quello per cui restiamo
e rimane dopo di noi.

(Agosto 2017)


Immagine di copertina: Max Beckmann, La Sinagoga a Francoforte sul Meno, 1919, olio su tela.

[1] Mario Benedetti, Tersa morte (Mondadori, 2013), p. 9.
[2] Ibidem.
[3] Giorgio Melandri, Tersa morte in Nuovi argomenti (Mondadori, settembre 2013).
[4] Ibidem.
[5] Milo De Angelis, Sentimentale Jugend in XIII Quaderno di poesia italiana contemporanea (Marcos, 2017), p. 241.
[6] Mario Benedetti, Tersa morte (Mondadori, 2013), p. 15.
[7] Milo De Angelis, Sentimentale Jugend in XIII Quaderno di poesia italiana contemporanea (Marcos, 2017), p. 242.
[8] Ibidem.
[9] Mario Benedetti, Tersa morte (Mondadori, 2013), p. 38.
[10] Ivi, p. 80