Con Tasche finte, raccolto nel tredicesimo Quaderno italiano (2017) di Marcos y Marcos a cura di Franco Buffoni, Franca Mancinelli ci presenta alcuni tasselli della sua ricerca poetica, includendo sotto questo titolo, insieme ai materiali di una raccolta in corso d’opera, testi delle precedenti raccolte Mala kruna (2007) e Pasta madre (2013). Così facendo, Mancinelli ci offre un quadro complesso e composito di quella che è la ricerca poetica di una delle autrici più originali del panorama italiano, capace di coniugare una straordinaria lucidità stilistica a uno sguardo visionario che dialetticamente interroga la realtà, senza trasfigurarla o rovesciarla, meditando sulle sue forme in costante movimento, sulle sue tensioni nascoste, sugli abiti necessari ad attraversarla.

I testi appartengono a un arco piuttosto ampio (di almeno un decennio), e nella pur riconoscibile evoluzione stilistica, sembrano partecipare di una poetica della resistenza estremamente personale, che contempla sia elementi tematici – come la natura, onnipresente modello epistemologico dell’esperienza– sia elementi formali, come l’enjambement, espediente che mima la frizione tra il continuum della vita e la forma che lo ingabbia, usato in modo insistito in Mala kruna e Pasta madre e preludio del registro prosastico di Tasche finte.

Ho già sottolineato altrove come la metamorfosi sia una delle figure principali dell’immaginazione poetica di Mancinelli. Nella parabola complessiva della sua ricerca, la metamorfosi serve a far emergere le continuità con il mondo naturale, animale e minerale, ma qui, in questa raccolta antologica, sembra ancora di più rivelare la sua teleologia profonda: elaborare e ricreare, nello spazio di testi prevalentemente brevi, una sorta di nuova creazione del mondo in cui il soggetto, abbandonato il suo ruolo centrale di mediazione privilegiata nella great chain of being occidentale, si mette alla prova declinandosi nelle forme più varie dell’esistere (animale, pietra, albero), con un’inquietudine che è ricerca continua di una stasi provvisoria da cui ripartire, quasi compulsivamente, come se nessuna forma fosse davvero capace di esaurire, assicurare un’adesione serena tra ciò che si agita e ciò che potrebbe contenerlo.

cucchiaio nel sonno, il corpo
raccoglie la notte. Si alzano sciami
sepolti nel petto, stendono
ali. Quanti animali migrano in noi
passandoci il cuore, sostando
nella piega dell’anca, tra i rami
delle costole, quanti
vorrebbero non essere noi,
non restare impigliati tra i nostri
contorni di umani.

(da Pasta madre)

I contorni di umani sono i limiti da cui non solo gli animali ma anche le parole migranti tra diversi stati dell’essere cercano di divincolarsi per guadagnare la libertà di nuove mutazioni:

leggo stesa, il libro sul torace
è il mio terzo polmone
che si apre e si richiude.
Stavo sognando la mia muta,
avevo lettere tatuate
come un anfibio stavo sulla sponda.

(da Mala kruna).

Se, come sottolinea Antonella Anedda nella attenta prefazione, Mancinelli è “poeta d’interni”, spesso gli interni in cui risuona la voce poetica sono uno spazio fitto di calchi fossili appena cristallizzati, di mute animali abbandonate che assomigliano agli abiti lisi da gettare via per far posto a quelli nuovi. Il soggetto si aggira in questo spazio chiuso, circoscritto, ma pieno di forme che può assumere per tentare il superamento della soglia del sé in chiave sia mistica, uscendo da sé (elemento non estraneo al dettato di Mala kruna e Pasta madre, ma sempre meno presente in Tasche finte), sia esperienziale, attraverso il confronto con le tensioni e i contenuti dolorosi del mondo reale. Già nelle prime due raccolte dell’elemento umano si metteva in risalto non soltanto la capacità di mutare, ma anche quella di “cucire”, di tenere insieme i pezzi per ricreare nuove forme ancora una volta al limite tra umano e animale:

darò semplici baci di sutura
verserò saliva a ogni giuntura
sarò sbucciata e dolce ai denti.
Ogni mattino ti coglierò un pugno
di fiori dal selciato.
Per te avrò aghi sempre verdi
e sboccerò ogni inverno per bruciarmi.

(da Pasta madre)

In fondo, anche l’immagine delle “tasche finte” che dà il titolo ai materiali inediti ricade in questa sfera semantica, potenziando ulteriormente i due poli tra cui oscilla la scrittura di Franca Mancinelli: la ricerca instancabile di una nuova forma e una sorta di nostalgia di una forma inattingibile, la consapevolezza di un non-essere che minaccia il soggetto (e da qui la tensione talvolta mistica) se pure gli lascia intatte le forme a lui note. A questa dialettica sembra alludere l’immagine delle tasche finte: siamo in un orizzonte comune dell’esperienza umana che rievoca ancora la sapienza del cucire, qui nella sua capacità non di rimbastire i tessuti e i loro margini ma di disegnare profili, forme, e in particolare quelli della tasca un tempo adibita a contenere, ma adesso assunta come simulacro/testimonianza di quella possibile pienezza perduta. Questa immagine, titolo di una delle prose inedite non pubblicate nel Quaderno (ma reperibile qui), detta il passo a tutta la sezione delle prose che, aboliti gli a capo, adottano un respiro più lungo, si muovono in un contesto antropocentrico, dai tratti riconoscibili e ordinari. In questo spazio allargato appare uno sguardo capace di aprirsi alla realtà esterna, declinata nelle forme e negli oggetti dell’esperienza comune (prevalentemente non urbana): il pozzo di mattoni, il tubo di plastica, la falda da riparare, il canestro sporco, le erbacce difficili da strappare disegnano uno spazio antropizzato, ma non meno allegorico. Il giardino, che ricorre come spazio, si presenta infatti come la versione secolarizzata di un Eden contemporaneo in cui il soggetto s’interroga sui propri limiti e sulla conoscenza del bene e del male, talvolta con gli occhi nuovi dei progenitori, talvolta con l’inquietudine del demone caduto.

Nel giardino, vicino al pozzo di mattoni, un gomitolo di acciaio emerge dalla terra, e si congiunge a un tubo di plastica che striscia sull’erba fino a raggiungere l’orto. La sera, con una sigaretta tra le dita, guardando il cielo scurirsi come terra bagnata, mio padre annaffia. Frutti sempre più piccoli di quelli che si aspetta riempiono ogni tanto le sue mani e un canestro sporco sulla credenza. Quando è laggiù, nascosto dalle piante dei pomodori, nell’angolo più lontano del giardino, posso sentire dal pozzo l’acqua versarsi e scendere tra i granuli, fino alle radici dove è attesa. Qui, dove il flusso dell’acqua si perde, crescono erbe dure da estirpare, infestanti dal piccolo fiore, piante dal frutto velenoso, cibo per gli uccelli. Ma non riesco a zapparle via, non a riesco a riparare la falda.

(da Tasche Finte)

Questo elemento di riflessione sulla realtà e sulla posizione/sguardo del soggetto, che spesso assume la forma di una “voce di impotenza fuori campo” (Anedda) che commenta tracce mnestiche o fotogrammi di episodi minimi, rappresenta lo scarto principale del nuovo approdo stilistico di Mancinelli. Abbandonata la tensione che verticalizzava vertiginosamente il dettato poetico, Mancinelli elabora delle prose che sono, ancora secondo Antonella Anedda, “documentari interiori al rallentatore”, “indizi, dilatati nel tempo”, dei quali è difficile stabilire lo statuto di esperienza reale o onirica. Ma sono anche, nelle parole della voce poetica, insieme testimonianza di disappartenenza e tentativo di appartenenza, di radicamento a una “coordinata dello spazio”.

L’anziana che abita nel palazzo vicino esce ogni tanto in balcone: spazza, stende i panni sul filo, li raccoglie, annaffia due vasi. Quando partirà, lascerà uno spazio pulito, ordinato, che ha preso la forma della sua vita. Semplici gesti che ripete ogni giorno, ribadendo il confine tra la propria presenza e la propria assenza. Quella precisione istintiva, sensata, mi guida per brevi sequenze che mi permettono di spostare la polvere, di cambiare posto alle cose. E rimettendo ordine alle stanze mi sembra che nella mente si apra un luogo chiaro: come riemergendo da una nebbia, lentamente prendo posto, qui, in questa coordinata dello spazio.

(da Tasche Finte)

Le “brevi sequenze”, che alludono metapoeticamente ai testi che compongono la raccolta, sono il gesto quotidiano che assegna un posto alle cose, piccolo rituale privato contro la “propria assenza”, riemersione dalla “nebbia” e dal caos senza forme, e infine prova generale di un radicamento nella “stanza” della “precisione istintiva, sensata”.

A questo testo, quasi un manifesto di poetica della nuova ricerca, si giunge attraverso una rinnovata consapevolezza, che emerge chiaramente da un’altra prosa in cui sono evidenti la continuità e la frattura con le raccolte precedenti, e la connotazione “formativa”, “esperienziale” di questo nuovo tempo della scrittura:

Indosso e calzo ogni mattina forzando, come avessi sempre un altro numero, un’altra taglia. Cresco ancora nel buio come un bambino, una pianta che beve dal nero della terra. Per vestirsi bisogna perdere i rami allungati nel sonno, le foglie più tenere aperte. Puoi sentirle cadere a un tratto come per un inverno improvviso, un’immediata mutazione del sangue. Nello stesso istante perdi anche le pinne, la coda e le ali che avevi. Da qualche parte del corpo lo senti. Non sanguini, è una privazione a cui ti hanno educato, a cui ti adegui. Non resta che cercare il tuo abito. Quello che rende invisibili. Scivolare come un raggio, diritta, fino al calare della luce.

(da Tasche Finte)

La “muta” animale, ricorrente nelle raccolte precedenti, è diventata l’abito da indossare, un abito da “forzare” per adattarlo alla crescita del soggetto, una crescita ancora però declinata attraverso un campo metaforico naturale: per vestirsi, e assumere uno sguardo pienamente consapevole sulla realtà (è questo l’abito cui forse si allude) è necessario “perdere i rami allungati nel sonno” (le proiezioni oniriche, i desideri impossibili che si fanno spazio nell’inconscio) e “le foglie più tenere aperte” (le fragilità esibite, il fianco scoperto a misurare la minaccia rappresentata dall’altro). Caduti questi ostacoli, quasi attraversando una linea d’ombra (“l’inverno improvviso”), avviene una mutazione invisibile ma più profonda – la “mutazione del sangue” – che, come in un’accelerata evoluzione darwiniana, fa perdere parti di corpo non più funzionali alla sopravvivenza: “le pinne, la coda e le ali”. La creatura mostruosa capace – in una sorta di onnipotenza infantile – di nuotare come un pesce, o di librarsi nell’aria, diventa infine propriamente adulta, non per effetto di un trauma ma di una ”educazione”, cioè, nel senso etimologico, una spinta che conduce il soggetto fuori dalla coazione della metamorfosi. “Non resta che cercare il tuo abito”: non resta che cercare il proprio sguardo, la propria strategia di selezione, contenimento e analisi consapevole del mondo, per diventare invisibili (onnipresenti e assenti). A questa svolta si accompagna, come si diceva, il passaggio da un dettato visionario, rivolto all’interiorità della percezione, a una visionarietà più piana, che riesce a mettere a fuoco dettagli, dilatandoli, misurandone la portata e il potere di significazione. È interessante che entrambe le voci femminili raccolte nel Quaderno propongano riflessioni – seppure diametralmente opposte – sulla natura dello sguardo come punto di partenza per indagare forme ed espressioni della rappresentazione dell’esperienza contemporanea. Come se la “cecità”, che attribuisco alla voce poetica dei testi di Claudia Crocco e al suo annebbiato desiderio di “essere guardata”, e la “visione”, da cui Mancinelli si allontana, ma lentamente, per avvicinarsi alla realtà, fossero due tensioni dialetticamente efficaci – grazie alla loro radicalità – per problematizzare i limiti corporei ed esistenziali di un’esperienza il cui statuto non è più possibile dare per scontato o ritenere universalmente intellegibile.

La rappresentazione del difficile percorso dalla “visione” alla “realtà”, con le sue accelerazioni, cadute e arresti improvvisi, imposto dal soggetto a se stesso come “liberazione” e allo stesso tempo “consapevolezza della perdita”, è la chiave della ricerca poetica di Mancinelli in questi anni, una ricerca che corre costantemente il rischio di avventurarsi in territori inabitati della percezione e con altrettanta risolutezza torna alla realtà per ricucirne il senso in forme inedite, precarie, provvisorie, talvolta persino riluttanti a farsi riempire (“Un buio popolato di fremiti”, da Tasche Finte). Difatti, l’immagine della tasche finte suggerisce anche questo: la prossimità metaforica del cucire con la scrittura poetica, una pratica che conserva la memoria/visione del compito antico di intessere fili di senso tra le parole e le cose, ma spesso è costretta a mostrare solo i segni più o meno visibili di una forma difficile da ristabilire nella sua originaria funzione. La dialettica tra visione, come presente del futuro, e l’attenzione alla realtà come presente del presente (per citare l’Agostino delle Confessioni) ha forse la sua traduzione migliore in questi versi, tra i più belli di Mancinelli: “Iniziata la lotta: / chi raggiunge prima / la cucina, deglutisce più veloce,/ chi ha la vera ragione di piangere / intuisce l’istante per spingere / sott’acqua l’altra testa” (da Mala kruna). Le ultime prose di Mancinelli spingono sotto la superficie della realtà la postura visionaria di un tempo, mutano la forma dello sguardo sul mondo per restituirci spazi circoscritti di esperienze minime, che hanno però la profondità e l’urgenza del respiro riguadagnato dopo l’apnea.