Il libro dei volti è il titolo della raccolta di Claudia Crocco, inserita come seconda autrice all’interno del Quaderno. Fin dal titolo è evidente il richiamo al social network utilizzato da due miliardi di persone al mondo, Facebook. Tuttavia come ci si può aspettare, il discorso non si limita al solo Facebook, né all’insieme dei social, ma viene rapidamente esteso al digitale tout court, tentando di impostare una riflessione in versi sugli impatti sociali e psicologici della società digitale attraverso i suoi effetti, le sue seduzioni. Negli ultimi tempi abbiamo assistito ad una ricezione della tematica all’interno di svariati settori culturali, in primis la filosofia (vedasi Nello sciame e Psicopolitica di Byung Chul-Han), ma anche sociologia e psicologia (tra i tanti, l’opera di Jean Twenge), per arrivare alla narrativa (Il cerchio di Eggers o Purity di Franzen) e ai numerosissimi riferimenti presenti in musica – limitandoci alla scena italiana, da Brondi a Levante ai “giovani illuminati” degli Eugenio in via di Gioia). Quello che evidentemente manca, invece, è una ricezione di questo argomento in termini poetici, almeno fino ad ora, il che denota un ritardo a tratti preoccupante di questo genere letterario nei confronti di ciò che vive al di fuori del cosiddetto “mondo interiore”.

La poesia di Crocco, indipendentemente dai suoi risultati, ha quindi in primo luogo l’indiscutibile merito di porre l’accento su un aspetto del contesto socioculturale odierno finora generalmente ignorato a favore di una dimensione poco storicizzata e molto narcisistica del testo. L’esperimento, nei fatti, non è però riuscito completamente. Nella misura in cui l’autrice fronteggia il reale, emerge un duplice atteggiamento. Quando il soggetto poetante concentra le forze espressive su se stesso e sul suo rapporto personalista con alcune propaggini tecnologiche (tra le quali primeggia Skype, come medium della vista nella sua funzione più diretta) il risultato è francamente banale; testi come Hotel Luna fino a quello di chiusura Riproducibilità ammiccano a un’intrusione del digitale recepita ed elaborata solamente attraverso il corpo – e allora perché non avventurarsi sul tema della biotecnologia? – o, in senso più stretto, la sessualità – il che andrebbe anche tematicamente bene (Han ha scritto un ottimo saggio sulla questione) se sul piano testuale non si scadesse in un approccio indecorosamente adolescenziale fatto di “scopate” sparpagliate per una geografia umana anonima e silenziosa e di amarezze esistenziali derivanti dalle stesse. L’intimità viene volutamente ridotta a una serie di atti caduti nel vuoto, a un’impossibilità di condivisione autentica, che certo fa il paio con le illusioni del digitale, ma che risulta una lezione non così necessaria a giustificare la presenza dello stesso. Spesso infatti accade che alcuni elementi antropologici (la difficoltà delle relazioni, la contraddittorietà dell’atto sessuale, l’impossibilità di condividere e condividersi autenticamente) vengano fatti oggetto di riflessioni testuali sul digitale in maniera un po’ forzata; non di rado infatti, tolta la giustificazione tematica, i movimenti e le parole si riducono ad una figurazione testuale dal pathos adolescenziale abbastanza abusata, inserita nella tipica dinamica Lei/Lui (che spesso si alterna nello stesso testo a un Io/Lui provocando un movimento indifferente tra prima e terza persona) e comprendenti espressioni come le «addolorate stanze», la «luce che filtra tra le persiane chiuse», i «vestiti | lasciati in fretta tra sedia e pavimento», i «Perché stai piangendo?», o il momento «eco di istanti che saranno | strappi nella pelle». O ancora, in Skype night:

Siamo la perfetta solitudine
di questo istante, il tuo respiro affannato
e poi l’orgasmo tra i denti; il mio affanno diverso
la tua eccitazione sulle mie labbra –
immaginata e desiderata,
da me o da te, cosa importa.

Versi come questi possono essere certamente rafforzati nel loro messaggio se inseriti nel frangente di un’interazione digitale e quindi fittizia, come il sesso via Skype, ma potrebbero benissimo esistere al di fuori di questo contesto. La rivoluzione tematica dell’autrice non riesce perciò a espellere il tranello dell’ego per concentrarsi sull’argomento, rimanendo un movimento incompiuto e privando i suoi testi della forza potenziale fornita dalla scelta tematica. Quando infatti il dettato e la voce si chiudono in un soliloquio, quando l’effimera realtà dei rapporti – che è vera, ancor più se filtrata attraverso il digitale – viene presentata in soggettiva, ecco, quando si verifica questo movimento, l’ansia generazionale e il lamento frustrato scadono letteralmente in lagna (vedasi il testo a CP, per ogni tragica impossibile condivisione) che si fa scudo della chiave digitale a proteggere una presunta originalità, ma che nei fatti non trova giustificazioni. Ad esempio, la promettente prima sezione Io voglio essere guardata esaurisce l’argomento digitale in un’esposizione di gretta nudità e di contrasto tra “faccia virtuale” e “faccia reale”; aspetti chiaramente pertinenti alla tematica complessiva, ma non gli unici e non certo i più complessi e interessanti. Invece che tentare un percorso poetico impervio sulla natura dell’homo videns/homo mimeticus di girardiana memoria, si preferisce restare nel solco di una specifica tradizione poetica, la quale, però, non è predisposta a rielaborare in maniera efficace il tema scelto, presentandocelo solo attraverso l’unica specola possibile, quella troppo soggettiva dell’autrice. In poche parole, la poesia di Crocco rientra a pieno titolo in una tradizione lirica sicuramente a lei ben nota, ma potrebbe esistere tranquillamente anche senza l’intrusione di Skype o Facebook, che restano marginalizzati, corolle in funzione attributiva a testi che continuano ad avere il proprio centro in altri territori.

La critica mossa nel paragrafo precedente è tanto più vera dal momento che esistono testi, contrariamente a quelli citati, in cui la stessa tematica trova invece uno sbocco più felice. Questi testi gettano una luce ben diversa sul digitale. Alcuni di essi evitando di calcare la mano sugli effetti soggettivi, creano un contesto di per sé autoevidente, chiaro e produttivo; parlo di prove in cui il tema è messo a fuoco con più precisione e mescolato in misura minore alle esternazioni del soggetto. È qui che l’intenzione è pregevole e riuscita, nonostante tali tipologie siano presenti in misura minore all’interno della raccolta. A titolo di esempio alcuni versi:

Se qualcosa rimane sai che cambia, dicono cambia sempre,
in fondo non esiste, sei soltanto
l’eccitazione qui di confessare, i frammenti per dire che ci sei.

[da Diario]

o ancora:

C’è una donna accanto. Forse è felice,
ma non si può saperlo.
Ritagliare gli spazi, eliminare tutti
gli altri tempi dall’immagine. Pensa
che non importa prima quando non c’è dopo.

[da Immagine personale]

Gli esperimenti maggiormente felici sono però i versi in cui le conseguenze nefande della società digitale vengono proiettate all’esterno nel momento in cui il soggetto interagente si trova a vedere o a dialogare in contesti palesemente impattati da una mentalità plasmata sugli effetti negativi dello stesso. Voglio dire che rispetto alla masturbazione via Skype sono più efficaci i giovani universitari di Via Cecco Angiolieri «che non sanno | […] che non ricordano un prima» sui quali ha agito la forza oblivionica dell’atomizzazione delle conoscenze, che «sono gentili», ma che si trascinano nell’inconsapevolezza; o ancora i due che s’incontrano alla gelateria affollata «soli | l’uno di fronte all’altra, per caso», che richiama con silenziosa efficacia i singoli componenti dello sciame digitale, i quali si scontrano sulle direttrici casuali della rete («Non si conoscono ancora non sanno | di essere meno estranei in uno sguardo») per poi perdersi. Il sentimento di perdita (nel senso di sconfitta e di abbandono) è il segmento che collega più efficacemente i poli positivi della poesia di Crocco, l’ansia generazionale e le distanze insieme geografiche e dell’animo.

Massimo Gezzi nella nota di apertura, fa notare come una delle maggiori ricorrenze nella poesia de Il libro dei volti sia “niente”/“nulla” a favore di un affresco generazionale drammaticamente vuoto di prospettive e opportunità. Al contrario della tematica digitale, questo aspetto è sicuramente colto in pieno dalla poesia di Crocco, che snocciola e cesella al meglio i sentimenti di aspettativa frustrata di una categoria sociale composta da giovani universitari, studenti, dottorandi, ricercatori, in attesa di un “miracolo che si compia”, regolarmente disattesa dai fatti. È in tale dipinto emotivo che la Crocco eccelle, e questo è evidente in poesie come il testo tripartito senza titolo dedicato ad A e a M, o ancora nel testo dedicato a V.

Non è l’assenza di un destino
non ci preoccupa realmente –
ma è non poter difendere
neanche i pochi attimi di ora, gli incontri
e le vite separate scanditi dai giorni
le offerte Ryanair

[da Senza titolo, ad A e M]

o ancora:

Nelle foto i colori ricreano gli anni Novanta, parlano
dei loro quasi trent’anni, dell’intesa da coppia ambiziosa
di quel che diranno a tutti tra poco.
Per un attimo tu ne sei partecipe.

[da Senza titolo, a V]

Crocco registra perfettamente e in pochi versi il sentimento di un’intera generazione (che va dai diciotto ai trent’anni e forse più), in crisi proprio per non saper maneggiare né capire in che verso sta andando il mondo e lei con esso. Una generazione, come tutte, in condizione di incomunicabilità verso i padri, ma che – soprattutto e più di prima – non ha la possibilità di rendere autentici gli attimi reali perché costantemente pungolata da un moto centrifugo che combacia poi con l’inseguimento chimerico delle poche possibilità di realizzazione, sparse per una geografia sempre più ampia e senza controllo. L’ansia di cattura dell’attimo, tradotta in un ventaglio di espressioni dalle più carnali alle riflessive, rivela l’essenza di precarietà del tempo presente, creando un dettato riconoscibile per molti e denunciando la difficoltà di bilanciare soddisfazione professionale e una vita sociale genuina – il lato oscuro del “globale”? La sua mancanza di durevolezza, la difficoltà di far attecchire radici e semi: «Sapevamo che non avremmo scelto, ma | ora non sappiamo muoverci, ci manca | un’idea di spazio | galleggiamo in questa piazza lattea […] | senza una geografia nota». E così «il treno, che di nuovo | rende tutto più decente e, allontanandosi, ci allontana» diventa simbolo (assieme all’aereo low cost) di una componente sociale piena di potenzialità, ma sparpagliata lungo rette difficilmente convergenti che, ed ecco il movimento corretto e virtuoso dell’intrusione, lasciano il campo al suppletivismo digitale, insieme necessità e danno:

Noi guarderemo altre storie saremo altri carnefici
di chi sarà vicino nel quadro del momento –
dimenticheremo ciò che è intenso e ci fa vivere ora.

[da Ancora Skype]

La poesia di Crocco quindi raggiunge il suo stadio più efficace nel momento in cui il «precipitato sociologico» (rubo le parole dall’introduzione di Gezzi) si materializza fuori dal soggetto e impatta contro i suoi sensi e la sua ragione, quando il personalismo e il narcisismo lirico viene espunto o elaborato all’interno di un collettivismo condivisibile. Nel momento in cui il soggetto cessa di parlare e inizia a lasciar parlare o ad osservare, la sintesi fra testo e tema è senz’altro meritevole. Il momento più alto è però da ricercarsi nell’affresco generazionale, nell’ottimo dipinto di ansie e inquietudini, cifra specifica dei giovani, ancor di più nel tempo presente.