Andrea Segre, parliamo de L’ordine delle cose, uscito da poco al cinema. Ho trovato il film, un film che parla di migranti e di Libia, per nulla scontato nella maniera in cui è stato sviluppato l’argomento. Inoltre è sicuramente curioso il fatto che un film come questo esca a pochi mesi dall’intesa del governo italiano con le autorità libiche, sei stato in buona sostanza un precursore dei fatti. Lo sei a ragion veduta o casualmente?

La risposta ufficiale che do quando mi fanno questa domanda è che sono il consulente ufficiale di Minniti (ride). Che è ovviamente una risposta ironica e provocativa, ma che contiene in sé una tragica verità: Minniti ha dei consulenti segreti, ha utilizzato i suoi profondi legami nel COPASIR per attivare esperti dei servizi segreti al fine di questa operazione. Che è un dramma in quanto totalmente segreta. Io l’ho capita in tempo, altrettanto segretamente, perché per arrivare a scrivere la sceneggiatura ho dovuto avere contatti con persone che a diverso titolo hanno a che fare con i servizi. Intervistando queste persone ho capito che ci fosse questa direzione, ma l’ho capito – cosa ridicola – anche prima di loro, che continuavano a dire cose come “Ma no, non è vero, non mi ci mandano in Libia”. Io invece ero convinto che li avrebbero mandati.

Tentavano quindi di sviare i tuoi sospetti?

No, erano davvero sinceri. E’ stato del tutto inatteso anche per loro. Io ho scommesso sul fatto che prima o poi sarebbe successo e ho scritto la sceneggiatura, che è rimasta quella. Sapevo come i servizi avevano lavorato in altri teatri e immaginavo che avrebbero potuto applicare gli stessi metodi. Inoltre conosco bene la realtà libica, ho intervistato decine di migranti passati per di là e tutto questo mi ha permesso di anticipare i tempi.

Quando ti è stato chiaro che le supposizioni stavano divenendo realtà?

Il momento in cui ho capito che avevo ragione è quando Minniti è stato fatto ministro degli interni. Hanno chiesto ad Alfano di togliersi dai giochi temporaneamente – garantendogli che sarà ministro con qualunque altro governo ci sia. Minniti, dal canto suo, è amico con gente che si occupa dell’architettura dei servizi segreti ed è a loro che si è rivolto per questa faccenda in Libia. Io ho iniziato a girare a Marzo e quando ho visto che tutto accadeva in parallelo l’unica scelta è stata quella di accelerare le riprese e il montaggio per avere il film pronto a fine Agosto. Nonostante il soggetto risalga addirittura a tre anni fa.

Come giudichi questo operato sul territorio libico?

Ciò che sta facendo Minniti è particolarmente audace. Lui sta attuando in Libia, in maniera più diretta e spregiudicata, una tendenza normale dell’Unione Europea, che chiede alle polizie dei paesi terzi di fermare i migranti e farne quello che vogliono, piuttosto che farli arrivare. Il problema lì era un problema che poteva affrontare solo un uomo come Minniti, un uomo del sud. I tedeschi e i francesi non avevano idea di come trattare con un potere che non fosse costituito da un governo riconosciuto. L’Italia e Minniti, reduce da precedenti esperienze di trattative con le mafie, sono arrivati a colmare questo vuoto. E dentro a questo contesto di polizia e menefreghismo – che è brutto di per sé – ha fatto una cosa ancora peggiore: è andato a chiedere di fare il lavoro sporco agli equivalenti libici di un Bernardo Provenzano o di un Toto Riina. Lui ha mandato gli uomini dei servizi garantendogli la segretezza – nessuno ovviamente mai saprà il nome di Corrado Rinaldi (protagonista del film ndr) e nemmeno io posso dire i nomi dei Corradi Rinaldi che ho conosciuto – ecco, li ha mandati da questo signore, chiamato “lo Zio”, che poi è Al Dabbashi, pagandolo per trattenere i migranti una cifra certamente più grande del suo introito nel trafficarli. Il che dà le dimensioni della spesa.

Parliamo di Dabbashi.

I metodi di una figura come Dabbashi non divergono in nulla da quelli di un boss della mafia. Per un migrante africano che è stato in un centro di detenzione suo o di altri è normale essere stato appeso a testa in giù mentre le guardie gli pisciavano in faccia. E’ normale che sua moglie sia stata stuprata di fronte a lui e in diretta Skype coi parenti per ottenere i soldi. Sono tutte crudeltà totalmente normali nella logica di un Provenzano o di un Riina. L’Italia è andata da questi figuri e non solo gli ha permesso di continuare a comportarsi in questo modo, ma li ha pagati per farlo.

…Nascondendosi dietro a proclami sensazionalistici come l’ormai famoso “Aiutiamoli a casa loro”.

Su questo la risposta più intelligente mai data l’ha scritta Giovanni de Mauro in un editoriale di qualche tempo fa su Internazionale dove elenca una serie di provvedimenti che l’Europa dovrebbe prendere per “aiutarli a casa loro”. Aggiungo a quell’elenco di cose che il modo migliore per aiutare i migranti è permettergli di migrare regolarmente. Concedere la migrazione regolare è concedere un motore di sviluppo ai paesi di origine, come d’altronde racconta la storia d’Italia.

Nel film, il protagonista, il tuo Corrado Rinaldi, è un personaggio con cui si entra difficilmente in empatia, curiosamente imperscrutabile anche nelle scelte che compie all’interno della trama. E’ una mia percezione o è volutamente reso in questa maniera?

Corrado Rinaldi rappresenta noi, ma lo fa attraverso un personaggio estremamente particolare. Rinaldi rappresenta il nostro desiderio – ormai diffuso – di risolvere le cose, ma di farlo in maniera non approfondita, numerica, con l’obiettivo di vedere il dato – “Sbarchi diminuiti del 30%” – con soddisfazione. La sua particolarità è ovviamente quella di essere un poliziotto direttamente coinvolto. Queste persone cercano di costruirsi delle solide barriere rispetto al rischio di farsi impietosire. I poliziotti anti immigrazione, sapendo di aver a che fare con povera gente, tentano sempre di dotarsi di un buon livello di cinismo che nel film è ben rappresentato dal personaggio di Battiston, che non si sarebbe mai fermato a prendere una micro card dalle mani di un migrante; l’avrebbe buttata a terra. Rinaldi compie l’errore di farsi crepare da quella micro card però ci mette un po’ a farlo. Lui sa benissimo che quella cosa non andrebbe fatta, ma interviene dall’esterno il quadro di Beatrice Cenci. Beatrice Cenci, raffigurata da Guido Reni, era la figlia di un cardinale papalino del 1500, schifoso e brutale, che la stuprava e violentava. Lei di risposta decide di farlo uccidere con l’aiuto della madre e dei servitori. Ad atto compiuto, però, è il Papa a condannare lei, che

Beatrice Cenci, Guido Reni, 1599

Beatrice Cenci, Guido Reni, 1599

verrà giustiziata davanti a Castel Sant’Angelo. Questo episodio fu il primo nella storia in cui il popolo romano si oppose ad una sentenza Papale. il momento di uccisione della Cenci fu un momento di forte protesta popolare. Corrado, davanti a quel quadro, che gli dipinge la tendenza del potere a schiacciare la dignità degli esseri umani, ha una crepa che arriva da un vissuto della nostra civiltà e dei mostri che ha prodotto contro se stessa e contro gli altri. Il quadro e lo Skype sono i momenti in cui questa falla dentro di lui si allarga.

Il protagonista è un uomo geometrico. Con la passione per la scherma, una volta in hotel, sistema il tappeto come se fosse una pedana o, in altre scene, piega e dispone i vestiti secondo un ordine quasi ossessivo compulsivo. Questi gesti sono la materializzazione di quelle difese di cui parlavi? 

Certo. Ciononostante mi impongo di non razionalizzare troppo le simbologie. A un certo punto sento che c’è una simbologia che funziona e non voglio entrarci troppo. Senz’altro in questa cura dell’ordine è rappresentata la sua ricerca di “far stare le cose bene”.

Rinaldi è inviato in Libia a risolvere una crisi. Questa risoluzione viene trovata e accettata, ma a prezzo della propria umanità. Mi pare dunque corretto poter dire che, anche se in una dimensione immediata e pragmatica si trova l’accordo, non sia possibile incontrare una soluzione reale. Il conflitto fra una misura di giustizia reale e uno ideale è insanato.

La bravura attoriale è stata rendere conto del dolore derivante da quanto dici, ma di non farne il fulcro della scena finale. Il dolore sta per esplodere, la lacrima sta per uscire, ma tutto viene contenuto e lasciato fuori dalla porta. Quando Rinaldi compie questo gesto consegna quel dolore a noi. La soluzione la si trova soltanto se si cambia l’ordine delle cose, la definizione del problema e se si cerca la soluzione in un’altra direzione. Corrado è solo un funzionario, non può fare più di così. Ma noi, che restiamo fuori con quel dolore addosso, se non vogliamo fare la sua fine, dobbiamo cambiare l’ordine delle cose. Dobbiamo ridefinire il problema e non trovarci in quel conflitto devastante che c’è in lui, tra etica e ragion di stato. O riusciamo a portare la ragione di stato a dialogare con l’etica oppure ci ritroveremo a dover portare quel dolore. Nel momento in cui si apre una falla in noi come nel protagonista, non c’è più scampo perché quella falla è del sistema.

Corrado Rinaldi è quindi uno sconfitto?

Certamente. Noi siamo degli sconfitti, finché non agiamo. Il film è un appello alla nostra dignità: vogliamo continuare a stare in questo ipocrita benessere dove le cose non esistono perché non le vediamo, in questa banalità del male – che è l’altra faccia della medaglia – o vogliamo metterci nella posizione di non dover scegliere tra etica e ragione di stato, ma provare a farle stare insieme?