L’esperienza poetica di Angelo Maria Ripellino (1923-1978) rassomiglia a chi per tutta una vita tenta di farsi luce in un bosco con uno zolfanello. Con un leggero movimento di spalle, tenendo le mani in tasca, si dice presto Praga Magica (l’opera di Ripellino più celebre pubblicata nel 1973 da Einaudi e ultimamente riproposta), oppure, più spesso, l’epiteto di poeta segue, a fatica, sostantivi ed aggettivi quali slavista, traduttore, saggista, critico.

E così va a finire che, come i ragazzi più scarsi nel gioco del calcio restano gli ultimi alla conta dei capitani e alla fine si guadagnano un misero posto tra i pali, o, bene che vada, in difesa, allo stesso modo il poeta Ripellino viene lasciato fuori coi suoi baffetti ordinati, a contarsi le pulci, a sgomitare per dover emergere. Lungo il corso degli anni -e questo è certo- hanno lasciato fuori uno che pure dalla panchina sarebbe stato in grado di segnare in rovesciata. Per tutto questo ho provato rabbia e dispiacere. Il suo nome, tempo fa, lo aveva inserito Giacinto Spagnoletti, in un’antologia Guanda. Ultimamente (si fa per dire, nel 2005) appare in Dopo la lirica. Poeti italiani 1960- 2000, volume della bianca einaudiana curato da Enrico Testa. Appare, però, con tre sole poesie. A precederlo, nell’antologia, Giudici. A seguire, Pagliarani. A seguire Pagliarani, Sanguineti. L’ultimo ad inserire Ripellino in un’antologia è stato Alberto Bertoni in La poesia contemporanea (Il Mulino, 2012). Tra i nomi degli altri autori, però, quello del poeta siciliano rassomiglia più ad un giocatore di cricket naturalizzato argentino, oppure ad un pizzaiolo di Ostia, che ad un poeta. Quello che l’autore siciliano ha dato alla poesia italiana del Novecento, invece, è uno dei più grandi scatti di velocità di sempre. Le sue principali raccolte, che dal 2007 si possono trovare per i tipi Einaudi, ma che, se si cercano nella splendida edizione Aragno, si fa prima a diventare giocatori professionisti di poker online, sono da considerarsi come una fontanella di luce nell’affanno di questo secolo. Per questo lavoro di riconoscenza e devozione bisogna ringraziare Antonio Pane, Alessandro Fo e Federico Lenzi, che sono stati in grado di restituirlo ai lettori. Ripellino ha dalla sua parte la lingua, ‘l’arroganza cetrulla’ di chi con le parole fa quello che gli pare. I suoi testi, per eleganza barocca, plasticità, forza espressiva, intelligenza emotiva, senso tattile e onirico del vero, scorrono in una grande parata lungo le pagine. Nel fasto solenne, è chiaro, si stagliano, tra le influenze, i poeti tradotti (da Pasternak a Chlébnikov a Holan), i pittori amati (da Klee a Schlemmer a Ernst), le attrici (molte più bionde che more). Ripellino assorbe il mondo slavo, lo catalizza, e lo restituisce italiano alla poesia italiana. Prima di lui, di là da ogni assolutismo, ci hanno provato in pochi. Fa piazza pulita di eredi e si mangia i padri: Toti Scialoja (con il guizzo allegro e fiabesco) o lo stesso Sanguineti (ma con una vorticosità più antica e classica), o ancora il Parise poeta, lo guardano. Abitua il lettore a carambole, a trappole, a giochi di stile, con la presunzione di chi sa di poter forzare. Dribbla ogni qualsivoglia struttura, non percepisce cardini, giocola con i calchi, i neologismi, i prestiti. Lancia i versi in aria come clave, e si dimentica di riprenderle. Ripellino è uno che fischia alla morte e si gira dall’altro lato. L’ambiente, il più delle volte, è quello farsesco, sproporzionato, ingigantito di un tendone da circo, al cui interno ‘sguazzano come ranocchie le frivole stelle’. ‘Nella mia tristezza entravano masnade/ di pierrots, di pagliacci, di stracci sgargianti,/ ma soprattutto ragazze dal muso di topo,/ argentee donnine di pasta lunare’, scrive ad un tratto ne Lo splendido violino verde, del 1976 (dopo due anni morirà). Federico Lenzi parla della sua poesia come di un campo aperto ad ogni rêveries, e Giuseppe Montesano in Lettori Selvaggi (Giunti, 2016) aggiusta il tiro parlando di ‘fantasticherie estreme, affiches scolorite’. Ripellino doma i leoni sventolando fazzolettini di seta, con squilibrata incoscienza. E’ un acrobata che fa continui salti mortali, ma che se dimentica la maglia della salute è finito. La dolcezza audace con la quale parla del suo amore per Ela, o di quello per le sue figlie (‘Vorrei che tu fossi felice, cipollina, vorrei’), o ancora la brama di ardere nonostante gli inverni della sua malattia (‘Dov’è il mio furore di vivere, il mio barocco?’), e la continua ironia molesta di un ubriaco nel giorno di festa (‘aggrapparsi alla molle coda spiovente del frac di un pianista, squarciarla’ e poi ‘mettersi a piangere, perché lei si commuova’), sono parte centrale della galassia-Ripellino. Fenomenale, ancora, come con la tonalità del giallo –del semplice giallo- giochi a tressette con il dolore, la caducità, il fondo dei vuoti, con la rabbia che prova verso la birra, i berlingozzi toscani, il miele, dato che gli sono vietati dal diabete. L’autore siciliano, per definirsi, scrive ‘ho le scarpe color canarino’, appunta esercizi di libertà e annuncia che è favoloso ‘svolazzare senza ragione, ubriacarsi di giallo’, si confida al lettore così: ‘porto in me un paesaggio ferroviario/ con luce minerale di limone’, o ancora, dando la spalla all’espressionismo tedesco di Kirchner, per prestare un’immagine al tempo, scrive: ‘di cravatta in cravatta è fuggita la vita,/ con strisce storte e gialle farfalline’. Ripellino anticipa il rap, sistema il cappello al contrario, e giustappone immagine ad immagine. Come un’ossessione da confidare in sedute di psicanalisi, non resta che parlare di Ripellino ai più intimi, o a chi è disposto a sfiancare librai di librerie dell’usato per trovare le sue prime raccolte, o, ancora, a chi torna ‘dal nero fiume la sera,/ intriso di malinconia, scarruffato dalle chitarre’. Eppure, se ne avessi possibilità, se solo mi fosse data una possibilità di scialba gloria terrena, sono sicuro che mi avvicinerei come una ‘goffa pavana’ al tavolo del poeta, e lo esorterei a continuare, a desistere, a vivere: ‘Coraggio, signor Vanellino, dimentichi, balli con me il prossimo tango’.

*

Come gialli funghi cinguettano stasera

le punte gialle delle candeline,

i gialli turaccioli di luccicosa cera,

piccole dita di cera sottili gialline.

Chi è quel figuro che si specchia nel fogliame?

Un istrione bramoso di pimpinelle,

uno stinto cascame,

un autunno agghindato di gialle morenti fiammelle.

Mentre egli alterca vanitoso con lo specchio,

urla un trenino delle vicinali.

Come un coniglio spaurito egli tende l’orecchio:

è la vita che fugge con gialli fanali

verso una gialla bruciata brughiera.

E dall’estremo vagone con indifferenza lo guarda

una donnina beffarda,

cantando: Guantanamera.

 

da Lo splendido violino verde, Einaudi 2007, p. 230

 

*

 

Vado al porto di Fiumicino in una taverna,

un enorme oste baffuto mi guarda con rancore,

seggo in un angolo, bevo vino bianco

nel cono di luce un’affumicata lucerna,

osservo una Liz di cera sotto un velo di orgàndis,

ascolto la musica di un posteggiatore

e piango.

Mi specchio nel vino, in un bianco

bicchiere che ha un collarino di lardo,

ascolto la musica di un tartassato violino,

ricordo irrevocabili giorni, e singhiozzo e piango.

Una megera impiastrata di lurido fardo

mi esorta: Coraggio, signor Vanellino,

dimentichi, balli con me il prossimo tango.

 

da Lo splendido violino verde, Einaudi 2007, p. 268

 

*

 

L’amabile arte di farsi dei nemici,

la gioia di godere un giallo farfalla

nell’aria già intrisa di primavera,

schivando i superciliosi che sputano muffa,

che spengono il balenìo del sorriso,

gli embrioni calvi in mascherina, gli uffa,

i venditori di baròmetri, i callisti,

i trappisti marciti nella pedanteria.

L’amabile arte di farsi dei nemici,

pascendosi di fumo di poesia,

scherzando con tutto e con tutti come farfalle,

abbagliati dal quarzo del cielo inebriante,

e in barba ai cèrei cipigli, alle baie dei cerusici,

ai loro divieti e precetti e al canchero che se li mangi,

svolazzare senza ragione, ubriacarsi di giallo,

ciarlare come le gazze, ridere stupidamente.

da Notizie dal diluvio, Einaudi 2007, p. 62