Disclaimer: in questo articolo troverai pochissimi spoiler e ancor meno riferimenti a trama, personaggi e ambientazioni. È un dialogo tra due appassionati di Twin Peaks che, giunti a metà della terza stagione, si sono detti: «Ma che cosa stiamo guardando?». E così, dopo aver chiacchierato sul nuovo corso di Dylan Dog, hanno provato a capirci qualcosa dell’universo di David Lynch.


Massimo Cotugno: Ho l’impressione che l’originario fenomeno Twin Peaks nasca da un fraintendimento, dallo scarto tra il senso vero dell’opera e ciò che è entrato nel mito della televisione. Il mito vuole che il fanta-horror di David Lynch sia un giallo carico di suspense, dalle atmosfere cupe e ipnotiche. Nulla di sbagliato in questa interpretazione, che però trascura l’elemento essenziale: l’architettura sovrannaturale cui Lynch era ed è particolarmente legato, il motore oscuro dell’azione, loggia bianca e nera, possessione e garmonbozia. Quando la dimensione onirica prese il sopravvento nel finale della seconda stagione – uno dei colpi di scena più agghiaccianti di sempre – furono in molti a sentirsi disorientati e per certi versi truffati dal regista. Fino a quel momento, il popolo della televisione aveva conosciuto solo saghe familiari, drammi da salotto e gialli investigativi: difficilmente poteva accettare un twist simile nella trama. Ora il pubblico è più preparato, meno ingenuo: la serialità ha oggi acquisito consapevolezza dei propri mezzi narrativi, tanto da competere – per complessità e cura nella produzione – con film da botteghino. Ma ecco che il ritorno di Twin Peaks ventisei anni dopo, con una terza stagione, genera un vespaio – un cinguettio – di commenti a caldo, giudizi esaltati e critiche, dando l’impressione che, ancora una volta, come agli inizi degli anni Novanta si sia di fronte a un oggetto non identificabile.

Michele Turazzi: A proposito di oggetti non identificabili, molti dimenticano che senza Twin Peaks non ci sarebbe mai stato X-Files (il cui primo episodio è stato trasmesso nel 1993, due anni dopo l’ultimo di Twin Peaks): Fox Mulder e Dana Scully sono esistiti perché in quei primi anni Novanta il pubblico era maturo a sufficienza per compiere un passo in avanti e le strade aperte da Twin Peaks permettevano alla serialità televisiva di esplorare territori incontaminati. Mulder, in particolare, deve molto all’agente speciale Cooper: la sua ironia, la sua apertura verso il soprannaturale, il modo anticonvenzionale in cui conduce le indagini. I want to believe, si diceva in X-Files, ed è proprio questa la massima che deve essere utilizzata per parlare della (fin qui) meravigliosa nuova stagione di Twin Peaks: credere è un atto di volontà. Per il pubblico, in primo luogo. Sì, perché se vogliamo apprezzarla e comprenderla fino in fondo, dobbiamo sospendere l’incredulità come mai ci è successo finora davanti al piccolo schermo. Il mondo inventato da David Lynch non segue le nostre regole, anzi, ne mina le stesse fondamenta. Eppure ci sembra sempre coerente. Perché?

MC: Forse perché è proprio così: il regista più visionario della sua generazione è anche il più rispettoso del linguaggio da lui stesso creato. Anche in questo terzo capitolo di Twin Peaks gli elementi tipici dell’immaginario lynchano vengono riproposti in nuove combinazioni, quasi fossero frammenti di Dna di una struttura fantastica e potenzialmente infinita. Eppure non si tratta di sterili autocitazioni, ma di rielaborazioni. Fin dai primi episodi della nuova stagione si ha l’impressione di osservare un arazzo composto da tutti i precedenti film di Lynch: dalle macchine piene di leve di Eraserhead alle auto lanciate nel buio della notte come in Lost Highway. L’insolito diventa consueto e quello che si richiede allo spettatore è la massima attenzione al più piccolo dettaglio. Lynch in questo è un vero perfezionista e nella nuova stagione ha modo di dare sfogo alla sua ossessione per i particolari. Ogni fotogramma è saturo di senso: anche il suono di una suola di scarpa che sfrega l’asfalto può produrre un rumore insopportabile. Mi chiedo a questo punto se il ritorno di Twin Peaks aprirà una nuova stagione della serialità televisiva o se rimarrà un unicum.

MT: La tentazione di dire che rimarrà un unicum è forte. La terza stagione di Twin Peaks esce dagli schemi delle serie tv forse perché semplicemente non ne fa parte. La mia impressione è che in questo momento stia giocando su un altro livello: qui abbiamo un artista completo (regista in primo luogo, ma anche musicista e pittore) che mette sul piatto un’intera visione del mondo. Come dicevi tu, ogni dettaglio acquista importanza di per sé, i tempi morti vengono eliminati, le autocitazioni sono fondamentali veicoli di significato. Da questo punto di vista, il fatto che si tratti di una serie tv mi pare quasi irrilevante. Un semplice mezzo che consente di esplorare un linguaggio, ed è lo stesso linguaggio a dar vita al senso. Fermami se ti sembra che mi stia spingendo troppo oltre, ma ho la sensazione che, con la terza stagione di Twin Peaks, David Lynch abbia voluto creare il proprio testamento artistico.

MC: Confesso di non averci pensato, ma c’è più di un indizio a favore della tua tesi. Innanzitutto questa terza stagione giunge dopo un lungo silenzio cinematografico di Lynch, che aveva deciso di dedicarsi principalmente alla pittura (come raccontato nel bellissimo documentario The ArtLife). Ricordo anche la battaglia intrapresa con la produzione per avere più soldi e più libertà nella realizzazione della serie, cosa che conferma un’urgenza sospetta. È evidente poi che il mondo di Twin Peaks sia letteralmente esploso in quest’ultima stagione, superando gli angusti confini del villaggio di provincia e ampliando il palcoscenico su cui tornano i fantasmi del passato. La trasformazione del mitico Roadhouse in una sorta di Late Show, in cui grandi musicisti si esibiscono in chiusura o a metà degli episodi non è solo una trovata seducente, ma ha anche un certo sapore di concerto celebrativo: un tributo all’artista Lynch.

MT: Quando ho visto i Nine Inch Nails salire sul palco quasi non ci credevo. E dire che l’avevo letto che avrebbero fatto parte del cast. Ma un conto è comparire in un cameo, un altro suonare una canzone intera al decimo, quindicesimo minuto di una puntata.

MC: Supponendo quindi una volontà testamentaria da parte del regista, questo nuovo Twin Peaks sarebbe di certo l’opera ultima più potente mai vista su un piccolo schermo. Una supernova abbagliante che vuole riscrivere il mito. Penso soprattutto all’ottavo episodio, da annoverare istantaneamente tra i capolavori della cinematografia di Lynch. Ancora ce l’ho davanti agli occhi. Che cosa abbiamo visto?

MT: Mi hai lanciato una bella patata bollente. Parlare dell’ottavo episodio vuol dire banalizzarlo, le parole non sono il mezzo giusto per raccontare qualcosa che è stato pensato per essere in primo luogo osservato e ascoltato. Giuseppe Genna, in uno dei suoi partecipati post, ha detto che con l’ottavo episodio Lynch «crea il capolavoro visivo della nostra epoca» e «si strappa una libertà totale, che lascia attoniti non soltanto gli spettatori suoi adepti, ma chiunque visioni quest’ora serrata di visione assoluta». Mi trovo d’accordo con entrambe le affermazioni. L’ottavo episodio non ha uguali nella storia della televisione e ne ha ben pochi anche in quella del cinema (si collega direttamente alla videoarte, ma con una differenza fondamentale: l’installazione artistica si rivolge a un pubblico circoscritto, un pubblico che solitamente condivide i medesimi valori estetici di chi l’opera l’ha messa in piedi; qui invece il pubblico è generalizzato, “generalista”, totalmente impreparato a quel che succede sullo schermo). Se vogliamo parlare un po’ anche della “trama”, possiamo dire che l’ottavo episodio racconta il mito fondativo di Twin Peaks: Loggia Bianca e Loggia Nera, Bob e il Gigante, Bene e Male. Ma “raccontare” non è la parola giusta per David Lynch. Il regista ci bombarda di immagini e suoni, di musica, di silenzi, e il significato stesso dell’episodio affonda in un substrato a-logico in primo luogo sensoriale.
Lunedì scorso, alla fine della puntata, sono rimasto alcuni minuti seduto sul divano in silenzio, incapace di comprendere a fondo ciò che avevo visto, poi ti ho scritto un messaggio: «Hai visto l’ottava?», infine mi sono messo a leggere quel che si diceva su internet (di tutto, come spesso succede). Ben presto mi sono stufato, e allora mi sono reso conto che c’era soltanto una cosa che avrei voluto fare in quel momento: guardare tutto l’episodio da capo, e farlo in uno schermo dieci, venti, trenta volte più grande.

MC: Anch’io ho avuto l’impulso di imprimere meglio nella memoria quanto appena visto, ma ho avuto poi la sensazione che i miei occhi dovessero riposare, rielaborare e scomporre nella mente tutto quel materiale visivo. Il tuo messaggio è stato di un tempismo perfetto. Serviva un dibattito da cineforum per quella che è al momento la cosa più forte che io abbia visto quest’anno, contando anche il cinema. Per me è stato come affrontare senza preavviso un esame universitario di lingua sumera e scoprire magicamente di tradurre all’impronta, comprendere le sfumature di significato e accedere alla comprensione di un intero mondo senza sforzi. L’immaginario di Lynch ha in fondo uno schema preciso, decodificabile pur senza essere didascalico. E a ben vedere non è privo di riferimenti ai grandi maestri del passato. Lynch non ha mai nascosto la sua passione per la delicatezza onirica del Fellini di , riconoscibile nella sequenza degli adolescenti messicani a fine episodio, ma anche la sua ammirazione per Kubrick affiora nella suggestione fantascientifica dell’interno del fungo atomico. Si può anche avvertire, in modo meno esplicito ma più diffuso, un tributo al cinema di Jacques Tati, fatto di gesti meccanici e coreografie grottesche.

MT: Tutto vero, anche se – ovviamente – a me non sarebbe mai venuto in mente Tati. Eppure… ripensando a quanto ci siamo appena detti mi è venuto un dubbio: sbaglio o qui stiamo facendo un’agiografia? Alla fine, di difetti ne ha anche Twin Peaks. Sarebbe irrealistico sostenere il contrario. Penetrare nel suo mondo è molto difficile, per esempio. Anche molti fan della prima ora sono rimasti turbati dalla terza stagione: il linguaggio della serie “storica” rimaneva, pur negli eccessi, di facile decodificazione, e la trama principale, seguendo le indagini e svelando i segreti di una città di provincia, offriva molti appigli narrativi. Qui non è così.
La mia preoccupazione maggiore ha però a che fare con un altro aspetto. Per ora Lynch si sta muovendo egregiamente, riuscendo a tenere le fila di decine di sottotrame, bilanciando momenti ironici, momenti disturbanti e momenti artistici, riuscendo a tendere il filo che lo tiene collegato allo spettatore senza spezzarlo. Ma non è detto che ci riesca fino al termine: mancano ancora otto puntate alla conclusione, e il timore che serpeggia tra i fan è che soltanto una minima parte dei nodi saranno portati al pettine. Una logica narrativa costruita sfidando così apertamente le regole della coerenza, della credibilità e della verosimiglianza è un’impalcatura fragile. E basta poco a farla crollare. Si tratta di quel sottilissimo limite che separa un capolavoro come Mulholland Drive da un’opera largamente autoreferenziale come Inland Empire. Ma qui mi fermo, dopotutto sto facendo l’avvocato del diavolo.

MC: Timore più che giustificato, ma che non condivido. La rete di indizi è disposta con una cura fin troppo studiata per essere casuale: siamo di fronte al Lynch definitivo di fronte al suo pubblico migliore. Non è il tipo di regista che non rispetta i patti o butta via i soldi della produzione. Certo non escludo possibili sbavature o un eccessivo indugiare su alcuni dei suoi innumerevoli feticci visivi. Scommetto anche che tra otto episodi saremo di nuovo qui, increduli, a chiederci: «Che cosa abbiamo guardato?».