Fortunale è un romanzo di non immediata definizione, un oggetto letterario insieme interessante e sfuggente, caratterizzato da sostanziali cambi di ritmo e di atmosfera che impongono al lettore di riconsiderare di volta in volta la propria modalità di lettura. Chiusa l’ultima pagina, egli potrebbe a buon diritto ancora domandarsi – e questo effetto è, in una certa misura, un carattere di pregio del testo – attraverso cosa sia stato condotto dalla voce narrante: una storia realistica, ma attraversata da fatti tanto eccezionali da colorarla di una nota di fantastico? Una storia dai contorni onirici, che parla per via quasi simbolica di un percorso di formazione e rigenerazione?

Occorre dunque procedere con ordine per descrivere il romanzo di Elia Rossi. La narrazione si apre sul protagonista, il Me-Coglione, come si descrive a posteriori la voce narrante: un giovane letterato, autore di un ambizioso tentativo di scrittura romanzesca, dedicato alla vicenda dell’alpinista Walter Bonatti e condotto secondo i modelli di Paul Auster e Albert Camus. Tentativo che si scontra con il rifiuto editoriale. Nicola, questo il nome del protagonista, ripiega sull’attività di pubblicista satirico, prestandosi anche a frustranti comparsate televisive; insomma galleggia, così come fa, con una certa indifferenza, anche sulla superficie della propria vita personale e sentimentale. Questa prima parte del romanzo, ambientata sullo sfondo di Milano ribattezzata la «Città degli Incidenti», ha un buon ritmo, e instrada il lettore sulla via di una letteratura lucida, ironica (e un po’ cinica a discapito del protagonista nella sua fase Me-Coglione), come possibile strumento di rappresentazione di certi aspetti della contemporaneità e di quel prototipo sociale di aspirante intellettuale, che un po’ per sfortuna un po’ per velleitarismo, finisce per sopravvivere professionalmente tra frustrazione e noia.

Poi il caso si abbatte sulla quotidianità di Nicola, e, come suggerisce il ‘fortunale’ del titolo, la sconvolge. La notizia della morte di un ragazzo – C.B., detto l’Arabo, anch’egli aspirante scrittore – è all’inizio solo il movente per una nuova battuta da affidare al blog. Questa figura apre però in Nicola uno spazio di inquietudine, fino alla scoperta per lui spiazzante: il lavoro letterario lasciato interrotto dal misterioso Arabo è un romanzo dedicato all’alpinista Walter Bonatti e condotto proprio secondo i modelli di Paul Auster e Albert Camus. Una coincidenza – parola che intitola uno dei capitoli e che sembra ora assumere il ruolo di misterioso elemento regolatore del mondo rappresentato nel romanzo di Elia Rossi – che segna il punto di rottura nella vita di Nicola: «io mi ero perso», «era come se le vicende del mondo si facessero ogni giorno un po’ meno scattanti e più misteriose, liquide».

La percezione del protagonista, quel «senso di disorientamento per come le cose del mondo vanno a incastrarsi», investe anche il lettore. I caratteri del romanzo qui, dunque, cambiano. Le inquietudini del protagonista si riverberano nell’intonazione della voce narrante, che fa calare un’atmosfera di mistero sulle pagine dedicate alla ricerca da parte di Nicola di notizie sull’Arabo. Lo straniamento di cui egli è vittima – e che aumenta negli incontri con la madre del ragazzo e con l’amico di lui Marlow, curiosa figura di guida, reticente e allusiva – ci investe, portando il romanzo ai limiti del territorio del fantastico: cosa accade davvero? Le coincidenze sono tali e tante nella realtà della storia, oppure è il filtro del punto di vista del protagonista in crisi a trasformare i fatti in una rete di suggestioni e richiami che lo interpellano? Il lettore, accettato questo scarto, è chiamato a ricollocare il proprio orizzonte d’attesa rispetto alla prosecuzione del romanzo, che da qui sembra assumere i tratti di una storia di ricerca interiore, di rigenerazione del protagonista attraverso il contatto con questa sorta di suo doppio che è il giovane scrittore morto:

voglio che sappiate – puntualizza la voce narrante – che in questo mare di robinie, adesso, io mi sto impegnando a scrivere attraverso l’Arabo, a scrivere come se fossi lui. Spero che alla fine della storia riusciate a non separare me stesso da lui, né lui da me, e a figurarvi me e l’Arabo come quella medesima persona che, da un certo punto della storia, io e l’Arabo dobbiamo essere.

Gli eventi della trama di Fortunale (alcuni dei quali, in questa seconda parte, non sembrano strettamente necessari, distogliendo l’attenzione dall’equilibrio tra verosimile e fantastico su cui si fonda il romanzo, e in cui consiste il suo valore) conducono all’esplicitazione di questo esito: Nicola, dopo un’ultima surreale comparsata televisiva nei panni di autore satirico, arriva al punto di rottura e di separazione dal “vecchio” Me-Coglione. Per congiungere la propria identità a quella dell’Arabo: la parte conclusiva del romanzo ci presenta infatti il protagonista nella capanna dove il suo doppio era solito ritirarsi per scrivere. Qui egli a sua volta si ritira, trascorrendo in un isolamento quasi uterino un tempo lungo, di sei-sette anni, sconvolto da tutti gli eventi legati alle surreali coincidenze che hanno investito la propria vita affiancandola con quella dell’Arabo, e anche in fuga da un nuovo incredibile incidente che lo coinvolge contemporaneamente come assassino e come eroe. Si comprende ora che tutta la storia raccontata nel romanzo è narrata, al passato, da Nicola in questo luogo di ritiro-latitanza, da cui infine egli esce, rinato, come si potrebbe intuire dal finale, in cui ogni lettore potrà tentare di trovare la propria spiegazione e la propria chiave di lettura di una storia tanto articolata, regolata dal capriccio della sorte e dalle famose coincidenze, e, anche per questo, straordinaria.

Rimane da dire, infine, del ruolo che Elia Rossi assegna, almeno all’interno di questo suo romanzo, alla letteratura stessa: essa è infatti tema della narrazione e oggetto di una riflessione metaletteraria condotta dai personaggi principali, tutti in qualche modo scrittori. È l’esperienza della scrittura letteraria a determinare i presupposti per il verificarsi della coincidenza che mette in relazione la vita di Nicola con il suo doppio, quasi avesse il potere di aprire finestre e creare fili attraverso i quali la vita scorrerà in maniera imprevista e destabilizzante. D’altra parte sono i personaggi stessi a rivelare un’idea di letteratura come veicolo per l’emersione delle dinamiche più incontrollate dell’esistenza: «Io qui dentro ho dei demoni» erano le parole dell’Arabo rivolto a Marlow, con un dito a picchiarsi la tempia, «dei diavoletti, ho, capisci? E loro si appiccicano alle mie parole». Ed è infine alla parola letteraria che Nicola affida la propria storia, dal proprio esilio (o latitanza), nella capanna dell’Arabo, di cui vampirizza l’identità: «è da lì che sono entrato in scena io. Da quando il Me-Coglione disse: “Mi chiamo l’Arabo” e, detta quella prima bugia su di me, si sentì autorizzato a dirne altre, a inventarmi una storia e un passato, a costruire un personaggio». Nel lettore potrebbe qui persino sorgere il dubbio che tutta la storia sia un’invenzione, da parte del protagonista, nell’invenzione romanzesca: vengono in mente il film Big Fish e il suo giocare, anche a dispetto del pubblico, tra verità e menzogna.

Forse non è poi così importante capire cosa si possa rubricare sotto le categorie di verità, menzogna o semplice incomprensione tra ciò che sappiamo da parte della voce narrante: «Io vedo solo la confusione», ci dice nel proprio congedo, «tanto vale darci una calmata. Essere un po’ inclini alla tolleranza». Potrebbe essere una buona indicazione per il lettore stesso di Fortunale: rinunciare ad assumere una postura definitiva nei confronti del romanzo e della realtà ad esso interna, e lasciarsi condurre nella trama di incidenti, doppi, coincidenze e dubbie verità che la regolano. E questo, in conclusione, è il valore della proposta avanzata da Elia Rossi in queste pagine: affidare all’effetto di straniamento e a una parola letteraria che lambisce il territorio del fantastico la rappresentazione di quelle aree di crisi, di trauma, ma anche di silenzio, di profondità ritrovata e di rigenerazione che, come ci rivela la sorte del Nicola-Coglione, non troverebbero parole e vie di espressione efficaci nella cosiddetta realtà oggettiva. È la proposta, utile e interessante, di una forma e di un atteggiamento della parola di fronte alla confusione della realtà.


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Elia Rossi, Fortunale, Roma, L’Erudita, 2016, pp. 148, 15,00 €.