« Sogno o son desto ? ». Ecco la prima frase che mi è affiorata in mente dopo aver visto (e apprezzato) l’ultima opera di François Ozon. Ma non è di certo Cartesio che può aiutarci a decriptare l’ultimo lungometraggio di questo (ormai ex) enfant prodige del cinema francese contemporaneo, che racchiude una buona parte delle caratteristiche della sua filmografia.

Presentato nella selezione ufficiale del festival di Cannes, L’amant double è un piccolo capolavoro girato interamente a Parigi, metropoli e capitale, e personaggio essenziale tanto quanto lo sono Chloé, Paul e Louis.

Parigi

L’autore ci offre uno sguardo atipico e personale su una città universalmente conosciuta. Alcuni luoghi emblematici come il Trocadero, o ancora i viali del XVI° distretto immaginati dal barone Haussmann e i palazzi borghesi dell’ipercentro, sono osservati con sguardo obbiettivo. La loro presenza non è mai gratuita: la camera vaga in compagnia di Chloé in un mondo familiare, personale, quotidiano, non turistico. Che si tratti degli esterni o degli interni di questo centro urbano, il mondo intravisto dallo spettatore è ben diverso da quello visibile nel precedente Ricky (Ricky : Una storia d’amore e libertà, 2009), che ci mostrava le avventure, vissute in periferia, di un’umile famiglia parigina.
Le immagini scelte dal direttore della fotografia Manuel Dacosse racchiudono tutti i simboli della media borghesia della capitale: la coppia Chloé/Paul sceglie di abitare in uno dei quartieri a Sud della città, profondamente modificato da infrastrutture di nuova generazione, spesso ancora in costruzione, e che subisce una gentrificazione osservabile all’interno di altre metropoli europee come Londra.
L’arredamento scelto sembra ispirato da una rivista di design, le abitudini alimentari della coppia sono rigorosamente legate all’agricoltura biologica.

Chloé

Gli occhi con cui osserviamo questi luoghi sono quelli di Chloé. Il film, ricco di simboli, penetra gradualmente nella sua mente, ma non solo. L’autore, fin dalle prime immagini, tenta di decriptare dall’interno il suo personaggio, i cui orifizi sono esplorati e filmati in primissimo piano.
Gli occhi della giovane donna diventano lo specchio di un’anima disorientata, scossa da problemi invisibili che Ozon tenta di rendere concreti.
Film psicologico quello dell’autore: durante una scena ripresa dall’alto, Ozon ci mostra una scala a chiocciola di cui non si percepisce la base. Si tratta di un’illusione ottica, di un tunnel simbolico che annuncia allo spettatore attento che a partire da questo momento si penetra in un mondo altro dove la realtà e l’immaginazione si legano e si confondono. Entriamo progressivamente nel subconscio della donna, penetriamo in una selva oscura dove lo sguardo e i sensi si perdono progressivamente. Che si tratti di un museo di arte moderna, dove è esposta un’imponente scultura ramificata in legno, o di un parco della città, l’autore sfrutta come un’allegoria una natura fitta, contorta e misteriosa.
Il percorso di Chloé sembra quello di Alice nel paese delle meraviglie, e ricorda in parte quello intrapreso dal personaggio principale de Il labirinto del Fauno (2006) di Guillermo del Toro.
Da notare la presenza di molti gatti, osservatori taciturni di un mondo umano fatto di piccole violenze quotidiane. L’onnipresenza di questi felini ci ricorda quella del thriller Elle (2015) di Paul Verhoeven, dove ritroviamo una splendida Isabelle Huppert. A differenza del personaggio di Michèle creato da Verhoeven, quello di Chloé immaginato da Ozon ci appare indifeso, senza punti fissi, grigio e androgino. Chloé è una crisalide che muta durante tutto il film: la giovane donna assume progressivamente la sua femminilità repressa, e mostra di possedere una tempra inimmaginabile durante i primi atti di quest’opera. Il suo abbigliamento evolve costantemente: il jeans, la maglietta ampia e le scarpette lasciano spazio a un abbigliamento sempre più provocante. L’essere timido con cui abbiamo a che fare si trasforma in una femme fatale, personaggio tipico dei film noir a cui Ozon fa riferimento.

Bibliofilia e cinefilia

Una delle costanti di quest’opera sono i libri. Il film stesso è ispirato dall’opera Lives of the twins (1987) dell’autrice statunitense Joyce Carol Oates.
Il titolo di questo thriller psicologico – letteralmente “l’amante doppio” – girato da Ozon, richiama fin dal titolo l’opera originaria.
Il dualismo, caro alla psicologia e alla filosofia, è uno degli spunti maggiori del film.
Senza rivelare nulla, possiamo dire che l’autore fonda una buona parte della sua opera sulle apparenze, sulle sensazioni, accompagnandoci verso una verità a tratti prevedibile, di cui conta soprattutto il percorso. Che si tratti dello studio di Paul, di quello del suo gemello Louis, della casa di Chloé o di quella della signora Schenker (personaggio misterioso di una madre borghese e conformista) i libri sono ovunque.
Nella sala di attesa di Paul è visibile un libro d’arte su Botticelli, nello studio di Louis ritroviamo delle opere di Kafka, e nell’appartamento di Chloé una serie di libri sulla psicologia, ma non solo, che riempiono una biblioteca intera.
La struttura stessa del film sembra quella di romanzo che potremmo integrare facilmente nella corrente francese del « Nouveau roman ». Ozon si rifuta di darci delle soluzioni facili, ci fornisce una storia che sembra essere poco strutturata, dà molta importanza ai personaggi in secondo piano e ci descrive l’alienazione vissuta dall’umanità urbana odierna.
Il suo film decide di adottare la strada di un realismo a volte onirico che lascia spazio a delle scene che sfociano nel fantastico.
Contrariamente a questa corrente letteraria però, l’autore decide di dare una grande importanza al personaggio principale femminile della sua opera che, come quelli di memoria antoniana, vaga alla scoperta di se stessa e di un mondo che la spaventa, e di cui non conosce ancora tutte le zone d’ombra.
In una delle scene finali del film, gli spettatori cinefili noteranno una scena palesemente ispirata dal primo Alien di Ridley Scott. Le altre citazioni cinematografiche visibili sono spesso molto più discrete. Gli spostamenti di Chloé, rigorosamente effettuati tramite dei mezzi pubblici, ricordano quelli dei personaggi parigini di Godard. Il suo viso durante un taglio di capelli, sembra quello di uno dei personaggi di Il maschio e la femmina (Masculin feminin) (1966). Una scena girata sotto la doccia non può che ricordarci dei momenti di suspense tipicamente hitchcockiani.

Gli spunti da evidenziare sarebbero ancora tanti, ma lasciamo i futuri spettatori italiani apprezzare un’opera che, vista da qui, somiglia a uno splendido millefoglie, denso, ricco di sfaccettature, ma mai indigesto.