Da qualche anno ormai siamo stati abituati in qualità di pubblico ai bizzarri adattamenti cinematografici di best seller e con essi è diventato inflazionato il detto “meglio il libro che il film”, cosa ben ovvia, dal momento che sia oggettivamente difficile racchiudere la mole (spesso ingente) di pagine e conseguenti dettagli in due ore di pellicola. Quello che, mi pare, stia accadendo ora in questo ambito è un passo avanti: il libro non viene più solamente adattato al film, ma la sua storia diventa un insieme da non seguire più pedissequamente nel tentativo di fedeltà assoluta agli aspetti identitari di una storia; questo diviene una “linea guida” a cui rifarsi per trovare i sommi capi narrativi della vicenda (esordio, sviluppo, conclusione) e introdurla, però, con dettagli, episodi, passaggi del tutto estranei. È stato il caso dell’ultimo blockbuster, l’adattamento al grande schermo de Lo Hobbit, tratto dall’opera di Tolkien e trasposto in una trilogia il cui esito ha lasciato molto a desiderare. Caratteristica di intenti dichiarata anche dalla regia è stata proprio quella di voler seguire la traccia dell’autore, ma di poterne gestire liberamente la materia a patto di giungere al medesimo punto conclusivo.

Ecco, con The Circle, tratto dall’omonimo libro di Dave Eggers (Mondadori 2014), siamo oltre.

Mae è una giovane impiegata in un call-center che ottiene, grazie a un’intercessione, un colloquio nell’azienda più prestigiosa degli ultimi anni: il Cerchio. La filosofia dell’azienda ricalca l’ottimismo visionario dei colossi della Silicon Valley, un ente totalizzante, una sorta di fusione tra tutto quello che possiamo immaginare: Facebook, Google, Apple, etc. I circler sono gli esponenti (o si percepiscono tali) di una società del futuro, sono giovani incandescenti intenti allo sviluppo di idee e tecnologie. Mae non faticherà a entrare in questa mentalità e a scoprirne i benefici (uno su tutti, l’assicurazione sanitaria per i genitori). E qui siamo costretti a interrompere la nostra sinossi, dal momento che le trame di libro e film divergono radicalmente.

Siamo di fronte a un punto nuovo, in senso peggiorativo, del processo di “riscrittura”, dal testo alla sceneggiatura: i blocchi narrativi non vengono più considerati come una sequenza da rispettare, bensì intercambiabili al fine di dare vita ad una storia che, in pratica, somigli al testo di partenza, ma se ne distanzi. Non è un caso infatti che rivelazioni giunte al lettore a pagina 378 su 398 si verifichino dopo circa venti minuti di film e che, venendo sovvertito l’intreccio, si aprano dei vuoti narrativi riempiti non da un ulteriore scambio (mettere la conclusione al posto dell’esordio è fattibile, ma non il contrario), ma dall’invenzione. Detto in poche parole: la conclusione della pellicola non ha alcun riscontro nel testo, anzi, potremmo dire che se ne distanzia in maniera totale.

I problemi dunque sono quantomeno di duplice ordine, a livello macro e microscopico e due domande perciò sono necessarie a questo punto. La prima: la validità del film è intaccata da questo sovvertimento strutturale? La seconda: quale motivazione ha spinto a risolvere la vicenda in maniera quasi antitetica al messaggio del libro?

La risposta alla prima è autoevidente a partire dall’osservazione del film. Il sovvertimento degli elementi dell’intreccio genera, come detto, una serie di vuoti narrativi. A essi sono però affiancati altri buchi derivati da una sistematica semplificazione della trama in termini di giustificazioni logiche delle azioni e approfondimento dei personaggi. Perché Ty, uno dei fondatori del Cerchio dovrebbe vivere nascosto a metà tra l’esilio e la prigione, ma può andare libero per il cerchio in anonimato? Perché Annie, l’amica inserita nell’azienda prima “boss” e poi scalzata da Mae, dovrebbe ammettere che il Cerchio è una banda di farabutti, ritrattando le sue posizioni? Perché Mercer, l’ex fidanzato nel libro, qui un amico stretto, va a vivere in un bosco? Come funziona davvero il Cerchio? Cosa propone e come vi si lavora dentro?

Nessuno di questi aspetti è minimamente giustificato o consegnato a un fotogramma o a una battuta, forzando così gli spettatori a immaginare collegamenti che coprano i salti logici dello schermo. Inoltre, la frenesia con cui si tenta di tenere insieme i fili di una trama dilaniata e mal ricomposta non lascia spazio, come detto, allo sviluppo in profondità dei personaggi. Ci si sofferma solo sulle fisionomie più semplici quali Eamon Bailey, il calco di Steve Jobs, e la già citata Annie, l’amica nelle grazie dei capi e poi in inesorabile decadenza. La stessa Mae è davvero distante dalla protagonista del libro. Ma c’è di più. Accanto alla scarsità di prospettiva interiore dei personaggi sullo schermo ce ne sono altrettanti totalmente assenti, alcuni fondamentali per lo sviluppo della personalità di Mae.

Se la scelta di tagliare fuori dal film i rivolgimenti sentimentali di una ventiquattrenne può essere tutto sommato una mossa oggi condivisibile, non lo è l’omissione di un personaggio come Francis Garaventa che rappresenta insieme all’oscuro Kalden – personaggio chiave del libro, ma declassato e riplasmato con un’altra identità nel film – uno dei due poli attraverso cui si edificano la consapevolezza e le scelte della protagonista. Francis e Kalden rappresentano un sistema di personaggi (in definitiva uno pro e uno contro lo status quo) intorno al quale Mae oscilla per tutta la prima parte del libro, sbilanciandosi poi da un lato e determinando così il corso degli eventi che crollano tragicamente. Mae è dunque un carattere in costruzione che finisce sempre di più con l’accettare (fino quasi a dirigere) il nuovo meccanismo: dalla metà della vicenda non avrà più ripensamenti su quale strada da percorrere sia la migliore. Il personaggio del film, al contrario, oscilla dall’inizio alla fine tra accettazione e rifiuto delle istanze imposte dall’azienda senza mai scivolare nella tragedia della distopia.

Ed è proprio con quest’ultima affermazione che entriamo nella risposta alla seconda domanda. Esiste un “perché” che possa motivare lo stravolgimento dell’intreccio e il finale inaspettato? Partiamo dal finale del libro: la conclusione è a tinte fosche (il cui sentore mina in un gioco di ironia tragica i proclami rientranti nell’area semantica della “luce”) e sebbene il modello orwelliano si intraveda per tutto il tessuto narrativo e in alcuni punti emerga di prepotenza – specie nell’enunciazione dei tre “nuovi” principi del Cerchio (nel film non così calcati): i segreti sono bugie; condividere è prendersi cura; la privacy è un furto – esso decade completamente sul finale.

Ciò che rende il libro inadattabile allo schermo è infatti la quasi totale assenza di una resistenza alla forma mentis dell’homo digitalis. Se il capolavoro di Orwell è impostato sull’avversione dei personaggi al regime e sul loro fallimento, il fuoco di The Circle è basato sulla descrizione di quella stessa forma mentis che si critica sciorinandola. Nonostante la trama si articoli per le sue strade pare effettivamente impossibile, durante la lettura, uscire dal meccanismo perfetto del Cerchio.

Dalle scelte di sceneggiatura invece traspare la volontà di mitigare la negatività dell’originale. Il messaggio che riceviamo dal trionfo del personaggio Mae è che la tecnologia è “buona”, se usata bene, e che le implicazioni etiche siano tutte solo a riserva e discrezione dell’uomo. L’intenzione che traspare è dunque la correggibilità della tecnologia. Essa, nel film, è un mero organon, un ausilio alla perfettibilità dell’uomo, ma soprattutto è il segno inalterabile del cambiamento verso il futuro e della necessaria accettazione di questo. Il cinema di Ponsoldt è dunque davvero a lunga distanza dalle conclusioni del romanzo.

Ciò che più di tutto manca è infatti il carattere di assuefazione alla tecnologia, l’idea di psicosi collettiva, di stakanovismo autodistruttivo, dall’ansia del dato e della misurazione; in una parola l’ossessione del controllo. Controllo che si esercita prima di tutto su se stessi e che non è imposto da parte di nessuno, ma ricercato dallo stesso utente nell’esperienza di un approccio totalizzante alla realtà. Si badi che ciò allontana Eggers da un altro grande modello distopico, Huxley. L’idea di dominio al Cerchio prescinde infatti dalla possibilità di controllo di un ente su un altro, sulla base dei piaceri e della soddisfazione dei bisogni, ma presuppone la soddisfazione del bisogno primario di ogni uomo: ossia, per l’appunto, la padronanza totale su ogni aspetto della propria personale esperienza. La possibilità di gestire, enumerare, ottimizzare ogni aspetto, persino quello biologico, in un divampare di schermi e schermetti, la mania per la produzione del dato e della sua archiviazione in eterno sono elementi persuasivi di una comodità – dietro la quale si nasconde l’accentramento – da cui si genera una vera e propria psicosi, inserita in un tempo superficiale e frammentario. La tecnologia fornisce gli strumenti all’individuo per autocontrollare se stesso facendo leva sulla base di quella tendenza all’autodeterminazione che ogni uomo ha nei confronti della società proprio nel tentativo di autoaffermarsi distinguendosi dagli altri. Nessuno mette il guinzaglio ai singoli, glielo si dà in mano facendo promesse di libertà su se stessi.

Tutto questo nel film appare davvero troppo sporadicamente, limitandosi a qualche scena peraltro marginale nel nuovo assetto dell’azione. Ciò che emerge qui infatti è una strizzata d’occhio (e magari una carezza) a un pubblico meno sensibile alla questione, grazie alla vittoria dei “buoni”. Ma tale vittoria, ripeto, non è considerata nella sconfitta dell’alterità, ma nella sua assunzione responsabilizzata e corretta. Questo procedimento, nel tentativo di confortare lo spettatore, declassa la tragicità della vicenda a una semplice questione di raziocinio, elemento invece del tutto assente dalla follia che permea il libro: siamo più forti della macchina e possiamo gestirla. Proprio su quest’ammiccamento dal sapore positivista si chiude la vicenda cinematografica, mostrando come ineluttabile l’intrusione di quella tecnologia e di quella forma di pensiero. Tutto ciò non registra drammaticamente l’appello del libro, il quale, nel descrivere la dipendenza umana dalla mentalità digitale, pone fine a ogni possibile ottimismo sulla questione.

In buona sostanza credo che l’autocritica portata da Eggers al modello sociale imposto al mondo dai padroni Silicon Valley grazie alla globalizzazione sia un obiettivo completamente mancato dal suo adattamento cinematografico in quanto ideologicamente non condiviso. La denuncia è solo una denuncia del possibile male, ma anche una dimostrazione del possibile bene, quasi a stringere la mano ai detentori di quel potere: la Mae del film viene salvata da un incidente in kayak proprio grazie al controllo ossessivo posto su di lei; l’altra, nella stessa scena, tenta un contatto con la natura staccandosi da ogni dispositivo e proprio questa privacy sarà deturpata. Un’immagine sufficiente.