Da qualche anno la collana “Solaris” di Laterza si è fatta promotrice di un discorso saggistico che, sulla tradizione dell’editore, allestisce accoppiamenti giudiziosi con la narrativa. E lo fa affidandosi a scrittori per lo più di fiction. Del resto da Musil in poi il romanzo è anche il saggio ed è sotto il segno di una democrazia abitativa che esce ora La stanza profonda di Vanni Santoni, scrittura ‘impura’ tra saggio e romanzo. Lo stesso scrittore toscano aveva battezzato uno dei maggiori successi della collana laterziana con Muro di casse (2015), analogo esperimento incentrato sui raver. Qui di altra «avanguardia» si parla: quella dei giochi di ruolo, di Dungeon and Dragons e di tutti i suoi figli. Un narratore-che-dice-tu, come il wallaciano narratore di Per sempre lassù e come le azioni di un personaggio da gioco di ruolo, che si sposta sulla «mappa» seguendo una rete complessa di azioni possibili determinate dalle sue caratteristiche ‘finzionali’, dalle scelte anch’esse possibili e dal magistero fatale del dado, capriccioso e imprevedibile come un dio pagano, insomma la voce narrata torna nel «fondo» della sua casa di campagna per vendere a un amico, a sua volta ex-giocatore, giochi da tavolo, collezioni di Lego e altre minutaglie di gioventù. Come molti anche lui si accorda a un rinnovato interesse collezionistico per quelli che sono stati – per chi è nato tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta – i pezzi mobili della propria giovinezza ludica. E fra i reperti che la ricerca mette a disposizione del cercatore ci sono i manuali da master, i dadi da gioco, le schede dei personaggi. C’è un odore di madeleine proustiana, un’intermittenza del cuore che riapre una camera della memoria mai del tutto sigillata. Su questo essenziale scheletro narrativo colui-che-dice-tu racconta e descrive, alterna le esperienze dei giocatori alle evoluzioni del gioco. Traccia una storia, personale e collettiva.

Non è scontato orientarsi dentro questo oggetto narrativo che, più di tutto, somiglia a un romanzo storico. Eppure ho visto una faglia, una piccola fessura, dalla quale proveniva una luce. C’è infatti un momento nella Stanza profonda in cui una piccola spedizione di giocatori – persone che nella realtà si conoscono poco, che sono abituate a trascorrere insieme soltanto una sera a settimana, e che infatti avvertono uno scarto di realtà, come se stessero partecipando a un gioco del quale non conoscono le regole – insomma, questo gruppetto di tre uomini fa un viaggio negli Stati Uniti. È un momento di deriva e di epifania, al tempo stesso: è il primo vero spostamento che si compie nel romanzo dopo tutti i micro-movimenti, perlopiù azioni pendolari, abitudinarie, usuali, di chi conosce «le quarantanove curve contate, note, fatte e rifatte» che conducono da una frazione di comune a un’altra. Questo finalmente è il viaggio, è il Reale in cerca di ricomposizione: il desiderio esotico, come cinema della mente, sta per aggiustare in maniera definitiva l’oggetto della propria illusione. Improvvisamente, quando l’epifania si è già mostrata e la parentesi on the road sta per concludersi assistiamo a una specie di crossover, all’intercettazione di un dettaglio che proviene da un altro romanzo, sodale a questo per struttura e soprattutto per vocazione. Infatti in questo punto della Stanza profonda precipita da un altro universo una citazione di Absolutely nothing, il romanzo-reportage di Giorgio Vasta (e Ramak Fazel all’apparato iconografico) pubblicato lo scorso anno per Quodlibet-Humboldt. Un UFO americano s’incaglia in una storia che, di fatto, ruota attorno a una piccola città.

Parlo di vocazione perché è evidente che anche Vanni Santoni, come Giorgio Vasta, faccia respirare il proprio libro attraverso quello che potremmo definire un polmone modernista. Così anche il viaggio americano dei personaggi di Santoni si configura come una fuga dal postmodernismo, dall’accumulo, dall’orizzontalità, dalla superficie. È un viaggio battesimale, a ritroso, una deriva percettiva che, nell’economia del romanzo, è molto contenuta, ma ha un valore di rivelazione. Del resto da ogni viaggio del deserto è necessario tornare con una profezia o una nuova grammatica della legge, una norma della civiltà.

Ma d’altronde questo è quello che cercano di fare tutti i personaggi – il master, Bollo, Tiziano, Andre, Leia, Paride, Silli – durante le loro sessioni serali: si creano delle tavole della legge in mancanza di un mondo che funzioni da generatore di senso: «Chiudersi e produrre senso proprio perché fuori ce n’era sempre meno».

È essenziale l’elemento della regola, nel romanzo come nel gioco. Ma se un romanzo non può essere uguale al gioco, perché «chi gioca è fruitore e autore assieme, e solo quando è a sistema con gli altri», è vero che il romanzo, dal gioco, ha attinto molto. Borges, Queneau sono, oltreché amori di Santoni, fonti stesse della Stanza profonda. Narrativa a soluzioni multiple, come il calviniano Castello dei destini incrociati o Il gioco dell’oca di Sanguineti. Le griglie determinano la libertà d’azione, delimitano il perimetro d’esistenza del mondo. Il macro-romanzo che Santoni sta portando avanti con il suo lavoro ‘mutaforme’ (dal ciclo fantasy intertestuale di Terra ignota, ai suoi «sketch book» ‘precari’, perfino agli esperimenti poetici delle 999rooms, senza contare gli articoli, i longform, gli approfondimenti e le occasioni di dibattito pubblico) racconta proprio della mutazione che il genere romanzo sta subendo, che forse è già del tutto compiuta o che si sta compiendo all’infinito: La stanza profonda è intrinsecamente metatestuale, un romanzo della mente insomma. Per non perdersi nella proliferazione lovecraftiana – o nel bad trip alla Philip K. Dick – sono necessari i confini, le definizioni, le nominazioni. Capire anzitutto cos’è un dungeon:

Dungeon non si traduce. […] Si dice dungeon perché solo quella parola va a formare ciò che ci si attende da quel buco in terra immaginaria: un diagramma di flusso fatto di stanze e porte e trappole, passaggi segreti e mostri e scale, pozzi e sepolcri, predelle e statue (a volte anche inanimate), tane, fiumi sotterranei, tesori: insomma, l’avventura. Il mondo di Dungeons & Dragons, così come di tutti i giochi di ruolo fantasy, era un universo di folli architetti del sotterraneo: perché si scavava così tanto? Ovunque un campo ctonio speculare al mondo e altrettanto selvaggio; ovunque passaggi, porte, sale buie da rischiarare con torce o incantesimi.

La precisione definitoria di Santoni è un’ansia edenica, un battesimo dei frammenti per sottrarli all’entropia. L’enciclopedismo della Stanza profonda – così come l’enciclopedismo che Santoni pratica come scrittore – è lo stesso dei flaubertiani Bouvard e Pécuchet, non a caso personaggi all’alba di un modernismo che di lì a poco sarebbe esploso (anche cruentemente, con l’immane tregenda della Grande Guerra).

C’è dunque un doppio movimento che emerge dalla lettura. Il primo: la ricerca di un altrove, un immaginario, un possibile. Il secondo movimento è di escavazione, di carotaggio.

Centrifugo il primo, centripeto il secondo, entrambi cooperano a una parola che, come per Vasta, è fabbricatrice di senso e che qui, come per le geografie del vuoto americane, abita un territorio (tuttavia non più coincidente con una toponomastica urbana). La catabasi dei personaggi, che scovano il «passaggio», che irrompono in una stanza ancor più profonda è una via d’accesso a un mondo dei possibili dove sfumano i contorni tra realtà e finzione. Dove si realizzano le possibilità, determinate dalle regole di un gruppo che in cooperazione si autogoverna.

Si diceva che dal deserto non si può che far ritorno con una tabula delle leggi o con una profezia. E le lunghe carovane dei giochi di ruolo sembrano portare con sé proprio un vento del futuro, per come ci appare oggi:

Le schede personaggio. Il loro essere un mix tra codice genetico e carta d’identità. Preludevano alla cultura di Internet, ai social media come luogo di proiezione e ridefinizione dell’identità.

Siamo dalle parti di Baudrillard, dei simulacri di noi stessi. La realtà è oggi un ologramma, una proiezione desiderante, una ridefinizione psico-somatica di aspirazioni, immagini e immaginari. Infiniti occhi del Grande fratello ci osservano, c’inverano:

La realtà si misura forse dal numero di fruitori? Non ne basta forse uno, non basta un solo osservatore per far uscire le cose dallo stato di latenza?

La platea dei testimoni legittima la nostra esistenza, la testimonia approvandola. Giudizio ed empirismo sono alla base della cultura dei social network, fra I’ll be your mirror dei Velvet Underground e il recente Panorama di Tommaso Pincio: esiste solo ciò che lo specchio riflette, che l’eco diffonde. La stanza profonda dove esplode lo scatenamento selvaggio degli immaginari è un laboratorio della rivolta:

il gioco di ruolo sarebbe poi giunto come il salto di paradigma definitivo: fatteli da solo, gli immaginari; fatteli come vuoi, fatteli con chi vuoi, fattene infiniti.

Se i ragazzi nati tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta sono i primi «ad accumulare immaginari» il Gdr è la loro liberazione visionaria, incantagione alchemica, «carbonara», da sottoporsi all’ombra di un fondo, di una stanza segreta, quasi come un pragma dei fuorilegge (e ci sarà almeno un personaggio che si dà a una breve clandestinità nel gruppo), «chiusura» contrapposta all’«escapismo» che una surreale conduttrice di un programma-contenitore della Rai proclama come statuto dei Gdr che innesca la visione/immagine di comunità a venire, di gruppi mutualistici.

Ecco che i giocatori di ruolo si scoprono affini ai ravers, anche loro riuniti in tribe aperte, libere, nelle quali tutti concorrono alla definizione di un proprio immaginario. Entrambi perseguitati dall’autorità, quella questurina per le tribù di Muro di casse e quella dei ‘branco’ per i giovani giocatori di Kata Kumbas (mitico Gdr italiano) o Hero Quest: entrambi colpevoli di non accettare regole imposte, ma di volersi autodeterminare. Giocatori di civiltà, più simili a designer di cooperativismo che non di autarchia. I gruppi di D&D sono veri e propri progetti di comunità, «controculturali» perché fuoriescono dalla cerchia delle maggioranze, perché adoperano il nobile esercizio della non-accettazione, del rifiuto di fronte al gruppo di potere.

Due movimenti, si diceva. La parola reificante di Santoni «torna al dungeon perché è il luogo del subconscio. Di più: perché è il subconscio, dove il dettaglio si scioglie in archetipo e il tempo si riorganizza a sistema di scelte». Movimento di profondità, sismico.

Ma la parola va anche verso un eccentrico vanishing point, una visione che, da Cărtărescu (citato esplicitamente) a Michaux, agli effluvi psichedelici sui quali Vanni Santoni scrive fin dagli esordii, è sempre una visione immaginifica di un mondo dove quel fottuto there’s no alternative, mantra caro al neoliberismo, non ha più ragion d’essere.

La stanza profonda però è anche una borgesiana «rosa profonda», un luogo del recupero, della salvezza di materiali inesausti. Là sotto sono raccolte le voci perdute dei compagni d’un tempo, di una stagione ormai passata, irriconoscibile eppure ritentata, come si ritorna all’epica. La parola dà senso e salvezza: ogni master, infatti, ha bisogno di scrivere le proprie regole: «la parola crea il mondo, la mappa circoscrive il possibile». Dentro al possibile vive il riscatto all’indeterminatezza, alle bordate dolorose del destino (che colpiranno duramente almeno un personaggio): ogni regola è un tentativo di ri-programmare il Fato, di coglierlo d’anticipo come fa un giocatore di scacchi, che spiega sulla planimetria figurata del mondo, sulla «mappa e territorio» (Houllebecq), i pezzi da giocare. Prevedere le mosse per anticiparle, studiare una strategia per non soccombere.

In questo senso la stanza profonda dove si svolgono le giocate più importanti del gruppo è come la scatola blu di Mullholland drive: uno scrigno dove ruoli, maschere e identità si ricombinano, dove ogni approdo si rovescia in deriva, dove niente è detto. Non a caso ci si domanda nel libro: «Nel momento in cui il virtuale si sovrappone al reale, in cui tutto diventa narrazione, chi può svalutare con sicurezza quanto avveniva là sotto?». E di nuovo si tirano i dadi.


 

la-stanza-profonda-vanni-santoniVanni Santoni, La stanza profonda, Laterza Solaris, Roma-Bari 2017, 160 pp. 14€