“Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, cuique suum tribuere”: il celebre motto che riassume i fondamenti dello ius naturale latino campeggia oggi, negli squadrati tratti tipici dell’architettura del Ventennio, sulla facciata del Palazzo di Giustizia di Milano.  Svariati cittadini confrontano ogni giorno l’accidente delle proprie condotte quotidiane con i monolitici e secolari principi che, riteniamo, siano a fondamento della convivenza civile.

In Primo non nuocere (titolo originale: Do no harm) a confrontarsi con il caposaldo neminem laedere è il prof. Henry Marsh, neurochirurgo inglese di fama internazionale, narrando «storie di vita, morte e neurochirurgia», che hanno segnato la sua lunga carriera di medico e la sua vita di uomo sempre alle prese con il giuramento di Ippocrate ed i suoi doveri, etici e materiali.

Henry Marsh ci accoglie con la precisione e la pulizia che sono associate, nell’immaginario collettivo, agli uomini di scienza: una brevissima prefazione, poco meno di una pagina, riassume con una chiarezza fuori dal comune il pensiero di un professionista che, dopo una lunga e soddisfacente carriera, osserva con rispetto e disincanto il ruolo del chirurgo, a costo di apparire impopolare. Colpisce la serenità nel descrivere come il medico appaia “eroe” o “infame” agli occhi del paziente (dipendendo dai risultati), ma come in realtà egli sia innanzitutto un uomo, sì dotato degli strumenti e della conoscenza che la medicina mette a disposizione, ma in ogni caso troppo spesso travolto dalla sorte o costretto a prendere decisioni difficili, che non si possono ridurre ad un mero esercizio intellettuale. «Successo e fallimento sono spesso al di fuori del controllo dei medici» e «bisognerà fare inevitabilmente degli errori», che obbligano a «vivere con delle conseguenze a volte terribili» sono la netta presa di posizione che prepara il lettore a sbirciare nel passato dell’autore. Nonostante questo, però, l’uomo di scienza Henry Marsh ci ferma, con lapidaria razionalità, dal cadere preda dello sconforto, ricordandoci l’imperativo di aver fiducia nei medici, perché «la vita sarà molto più difficile se non lo facciamo».

Tutti i racconti sono pervasi dal chirurgo e dall’uomo creando un connubio che caratterizza in modo unico e particolare il narrato. Veniamo guidati costantemente dal professionista Marsh, che ci tratta con la precisione ed il rigore caratteristici dell’argomentare scientifico, avvicinandoci ai singoli episodi con il sangue freddo del chirurgo esperto, ormai avvezzo alla riduzione del dramma umano di subire un intervento ad un problema clinico. Ogni storia è infatti presentata come un caso a sé e introdotta da un termine medico adeguato, del quale è fornita una succinta definizione da manuale universitario. L’effetto è estraniante, alla luce del fatto che quasi nessun termine è di comune diffusione e che le relative definizioni ci portano a entrare in un mondo di patologie ignote e, spesso, di denominazioni particolari di diversi tumori cerebrali.  Ne è prova “pineocitoma”, raro tumore a crescita lenta della ghiandola pineale, che introduce immediatamente il lettore nel vivo della sala operatoria, durante il meticoloso susseguirsi di azioni necessarie a “tagliare il cervello”, “farsi strada tra la morbida materia bianca”, fino a rimuovere il pineocitoma. Tuttavia il racconto ci presenta anche elementi diversi, come il rapporto professionale con l’assistente ed il collega anatomopatologo, nonché uno spaccato della degenza post-operatoria del paziente e della sua vita pre-operatoria, il contatto con i parenti e l’inevitabile discussione su rischi ed esito dell’intervento.

L’autore, dunque, non rinuncia al proprio ruolo di professionista, trascurando tecnicismi e linguaggio appropriato, che sono invece proposti con naturalezza. Tuttavia egli non sconfina in un trattato. Le riflessioni, che muovono dalla pratica professionale, così come gli episodi di vita ospedaliera e privata, strappano il lettore dal piano più strettamente medico, riconducendolo ad un alveo più confortevole. Nonostante ciò, però, il messaggio resta affidato ad un argomentare essenziale, spesso lapidario, non avvezzo a fioriture, né di stile, né di pensiero. Ne deriva un impatto ugualmente potente, nell’essenzialità del messaggio stesso e nella sua, quasi ostentata, forza argomentativa, che, in ultima istanza, lascia al lettore l’immagine di un uomo incapace di rinunciare alla propria forma mentis di medico, ma comunque incrollabile nell’affermare i principi in cui crede e su cui ha costruito la propria professione.

Al termine del libro possiamo convenire che Henry Marsh non fa sconti, né alla nobile scienza della medicina, né a se stesso, né al lettore posto implicitamente ad interrogarsi su quanto sia facile convenire sul neminem laedere, ma quanto sia complesso poi attuarlo, a maggior ragione se si vive una vita dedita alla salute del prossimo.

Nel mondo attuale, che si affaccia ad interrogativi sempre più prossimi ai confini del conosciuto, l’esperienza del prof. Marsh è un legato prezioso. Ci avvicina a molti temi di oggi, quali testamento biologico, rifiuto alle cure e accanimento terapeutico, offrendo un punto di vista unico, in cui, al di là delle accese opinioni che costantemente animano il dibattito, e nonostante il dubbio, silenzioso compagno dell’uomo di scienza, a dominare sono la pace e la serenità.


 

primo non nuocereHenry Marsh, Primo non nuocere, Milano, Ponte alle grazie, 2016, pp. 328, € 16,80.