C’è un filone del sottogenere postapocalittico che ha conosciuto grande fortuna negli ultimi anni, con tante opere uscite curiosamente a distanza ravvicinata sullo stesso tema. Mi riferisco a quelle storie ambientate in un mondo senza speranza in cui però un barlume di umanità si ostina a brillare nelle tenebre: l’amore di un padre verso il figlio. Penso naturalmente al premio Pulitzer La strada di Cormac McCarthy (oltre che al bel film omonimo con Viggo Mortensen), ad Anna di Niccolò Ammaniti, a The Last of Us, il videogioco creato da Naughty Dog per PlayStation. Ed è proprio dallo spirito di queste opere – oltre che dal fumetto Vecchio Logan di Mark Millar – che Logan, l’ultimo film in ordine di tempo targato X-Men e ultimo film in assoluto per Hugh Jackman nei panni di Wolverine, trae ispirazione.

In The Last of Us la civiltà è stata spazzata via da una misteriosa infezione fungina capace di trasformare le persone in mostri assetati di sangue, le nazioni sono cadute e il pianeta è un immensa landa desolata, in cui comunità di sopravvissuti resistono come possono. Il protagonista Joel è un uomo di mezza età annientato dalla morte della figlia avvenuta tanti anni prima e disilluso nei confronti della razza umana. Finché un giorno la sua routine di contrabbandiere non viene viene stravolta: le Lucciole, una sorta di gruppo sovversivo, gli affida la quattordicenne Ellie, nel cui sangue forse, e solo forse, scorre la cura per salvare la razza umana. Joel si trova così suo malgrado a compiere un viaggio attraverso gli Stati Uniti in compagnia della ragazzina, un fardello che non ha chiesto e che, almeno all’inizio, non ha intenzione di sobbarcarsi. Allo stesso modo uno stanco e disilluso Logan accetta riluttante di trasportare la giovanissima Laura a nord, oltre il confine del North Dakota, fino a raggiungere il Canada e un improbabile luogo chiamato Eden, rifugio di un manipolo di giovani mutanti. Logan è invecchiato, mezzo storpio, rallentato nei riflessi e nel suo caratteristico fattore rigenerante che lo teneva al sicuro dall’intossicazione da adamantio (il metallo che ne ricopre lo scheletro). Solo e in balia di un degrado fisico e morale, intraprenderà con la sua giovane amica un percorso di redenzione, fino a trovare una nuova ragione per vivere e combattere.
Così come il Padre de La strada, anche Logan continuerà ad avanzare, ferito e malato, ma mai domo, verso uno destino che forse coincide con il sacrificio e la morte.
Nelle opere citate, così come in Logan, a contare sono i sentimenti più che lo spettacolo. Gli uomini, più che i supereroi: non a caso la pellicola si intitola semplicemente “Logan”, e non c’è traccia del nome di battaglia del mutante canadese (anche se naturalmente i nostri ineffabili distributori non hanno pensato due volte ad affibbiare un bel The Wolverine in calce al titolo).

L’altra fonte di ispirazione è Vecchio Logan di Millar, ma è quanto mai nominale. Rispetto al fumetto il regista James Mangold si limita a trarre l’idea di un mondo senza più supereroi e mutanti, e un Wolverine stanco e anziano. Anche l’ambientazione è molto diversa: quella di Vecchio Logan è molto più estrema, con un mondo simile a quello di Mad Max in cui la civiltà è stata annientata e i cattivi – Kingpin, Destino, Teschio rosso e un Hulk oramai impazzito – si sono spartiti gli Stati Uniti. Nel film di Mangold la società è ancora in piedi, per quanto alcuni dettagli qua e là suggeriscano un contesto in cui il rispetto della vita umana vale molto poco. Un’altra fondamentale differenza col fumetto è il passato di Logan. Se nel testo di Millar Wolverine si porta dietro il rimorso di essere stato lui stesso causa della morte di tutti i suoi compagni mutanti, nel film di Mangold questo lascito ricade, forse, su un altro personaggio, smorzando così la statura tragica del suo protagonista.

Ma l’aspetto più interessante del film sta tutto nel punto nella maniera in cui si pone rispetto agli altri film di superoeroi usciti in questi anni. Rispetto a questi ultimi, Logan si distanzia per due elementi, il primo importante, il secondo fondamentale: la violenza e il pathos. Grazie al successo di Deadpool che ha sdoganato il divieto ai minori per un film di supereroi, possiamo finalmente ammirare Wolverine all’opera in tutta la sua gloria e in tutto il suo orrore. La macchina da presa non ha più timore di inquadrare l’effetto devastante degli artigli ricoperti di adamantio sui nemici, né di mostrare il nostro eroe completamente imbrattato di sangue, proprio e altrui, sottolineandone la natura tragica. Sia chiaro, nessuno ama la violenza gratuita, ma è innegabile che ci sia un certo piacere atavico nell’ammirare l’orgia di sangue e devastazione che il vecchio Wolverine porta tra i suoi nemici, un’esaltazione primordiale che rende finalmente giustizia al suo ferino protagonista.
Il secondo elemento di novità, come detto, è quello del pathos, la cui cronica mancanza è probabilmente il peggior difetto del genere supereroistico. Possiamo infatti divertirci di fronte a Hulk che spiaccica l’ennesimo tirapiedi di Loki, o Iron Man che disintegra con i suoi raggi i robottini di Ultron, ma al di là di un certo infantile sollazzo sostanzialmente non ci importa nulla di quanto stia accadendo sullo schermo. Persino il tanto lodato scontro nell’areoporto di Civil War assomiglia più a una baruffa tra amici piuttosto che una lotta fratricida. Non a caso, forse l’unico momento realmente emozionante dell’intera saga targata Marvel è quando Capitan America confessa ad Iron Man di essere a conoscenza dell’omicidio dei genitori a opera del Soldato d’inverno; lo scontro che ne segue ha ovviamente tutto un altro sapore rispetto a tutti i precedenti. Se in film simili è accettabile spegnere il cervello, lo è molto di meno congelare i palpiti del cuore.
Sul fronte DC le cose sono leggermente diverse, con l’ammirevole tentativo da parte di Zack Snyder di rendere più mature ed appassionanti le vicende dei suoi personaggi, col risultato però di innervosire i fan di fronte a Superman e Batman che non si fanno problemi ad uccidere, o, peggio, di scadere nel ridicolo con l’oramai celebre equivoco sull’omonimia delle madri dei due eroi.
I film della Fox si sono sempre situati in una via di mezzo tra la facezia della Marvel e la gravità della DC, per cui nello stesso film possiamo avere le gag al rallentatore di Quicksilver e la visita di Magneto ad Auschwitz, dove i genitori avevano incontrato la morte. Logan di Mangold punta decisamente verso una ricerca del pathos e della commozione inedita finora nel cinema supereroistico: Logan è stanco e disilluso, un relitto di un’altra epoca che come il Padre de La strada o Joel di The Last of Us tiene duro come può in un mondo che non è più il suo, ferito, debilitato e barcollante, ma sempre fiero e dignitoso. E Xavier, l’anziano Professor X che forse nasconde una terribile colpa, assume a sua volta il ruolo di padre putativo di Logan, condividendo con lui le poche battute del film, momenti di umorismo dolente che hanno il sapore dell’ineluttabilità. Tutto il contrario delle scenette comiche dei film Marvel, che altro non fanno che ridicolizzare il nemico e smorzare il dramma non appena questo tenta di fare capolino.

Un altro difetto cronico dei film di supereroi (soprattutto Marvel) è quello dell’inconsistenza del villain. Non tanto quanto per i poteri in sé (Loki è un dio, l’Idra una potentissima organizzazione segreta), ma per come vengono rappresentati e per il reale pericolo che offrono agli eroi, con il doppio risultato negativo di appiattire il senso di dramma e oppressione incombente e allo stesso tempo di svilire i buoni e le loro fatiche: il vero eroe, non si dimentichi, si misura con la consistenza del proprio nemico. Vedere Thor che nel secondo capitolo prende la metro per andare a combattere il cattivo di turno durante l’apocalisse potrà essere simpatico, ma cancella completamente la percezione della minaccia nello spettatore. Stesso discorso per Hulk che sbatacchia Loki a destra e a manca, in una delle scene più celebri di The Avengers.
Logan va in direzione totalmente opposta: i cattivi non vengono mai ridicolizzati né la tensione viene smorzata dai momenti umoristici. C’è da dire però che per metà abbondante di film Wolverine, per quanto male in arnese, non incontra mai nemici degni delle sue capacità, senza contare che dalla sua può contare sull’aiuto di Laura, la ragazzina terribile su cui siamo certi punteranno sui prossimi film. Questa sproporzione di forze fa un po’ a pugni con il tentativo di mostrare un protagonista fragile e in difficoltà, ma la situazione cambia quando il vero nemico viene rivelato. Purtroppo, e questo è forse il maggior difetto del film, il boss finale con cui Logan e Laura devono confrontarsi non spicca certo in originalità, per quanto temibile possa essere.

In conclusione, molto più di Deadpool (il cui spirito è quello di Wile E. Coyote e Beep Beep, al di là del sangue e della volgarità) questo Logan può essere un apripista per tutta una serie di prodotti di intrattenimento che non abbiano ritrosia di mostrare non solo la violenza, ma anche e soprattutto i sentimenti più forti e profondi, senza timore di spaventare il proprio pubblico. Ma anzi, con la consapevolezza che turbare e impressionare i propri spettatori significhi mostrare loro rispetto, molto più che farli uscire dalla sala con l’elettrocardiogramma, oltre che l’encefalogramma, completamente piatto.