Azzurra D’Agostino (1977) ha esordito in poesia nel 2003 e le sue ultime raccolte sono D’aria sottile (Transeuropa, 2011), Versi dell’abitare (in XI Quaderno italiano di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, 2012), Canti di un luogo abbandonato (Sassiscritti, 2013) e Quando piove ho visto le rane (Premio Ciampi Valigie Rosse, 2015). Alfabetiere privato (Lietocolle-pordenonelegge, 2016) è il suo ultimo libro, un’antologia personale che fa il punto di un quindicennio di scrittura. Il libro è organizzato secondo un criterio tematico-lessicale, raggruppati i centotré testi in sette sezioni, ognuna intitolata con una parola maiuscola (Animali, Corpi, Filosofia, Mondo, Morte, Parola, Presenze). Ho rivolto all’autrice alcune domande.

È stato difficile smontare i libri precedenti? Questo Alfabetiere, che per i futuri lettori – suppongo – rappresenterà la tua poesia, è anche una forma di congedo dai tuoi libri precedenti?

Entrare nei libri con uno sguardo diverso, che comprendesse tutto il lavoro, è stato bello, un viaggio dentro lo sguardo, un viaggio con cui ho avvicinato le mie tematiche scoprendole. Questa esperienza è anche, forse, prendere il congedo in qualche modo. Sento di dover approfondire certi discorsi sulla lingua e, da un altro punto di vista, di proseguire con l’esperienza della scrittura cosiddetta ‘per bambini’.

Cito da una poesia (Vigilia): «Fa male | certe volte sapersi vivi, così esposti al lato d’ombra»; e in chiusura: «E’ questo quello che siamo? | Perdersi, stupire, essere come possiamo». Nella tua poesia trovo sempre una dimensione di sorpresa e una di limite, in mezzo alle quali passa il brivido della tua scrittura. Riprendendo il titolo Poiesis significa fare, la poesia per te che cosa fa?

La poesia è per me un modo di comprendere il mondo, un modo di entrarci tramite certamente dei limiti, che sono quelli della nostra esperienza, percezione, sensibilità. Quello che riponiamo nel più profondo del cuore e della mente è avvolto nella nebbia, e questa nebbia è non solo la memoria ma la logica con cui afferriamo il mondo, che è la ‘logica della poesia’ come diceva Tarkovskij. Dunque, quello che ci è più caro è in qualche modo l’indicibile. La poesia si arrischia nel tentare di sfiorarlo con le parole, di rompere il silenzio del mondo che più ci riguarda.

Una poesia si intitola Borgo di Chiapporato, che, come scrivi in nota, è un borgo raggiungibile solo a piedi e popolato da due persone. Posso intuire i motivi per cui questo borgo ti attrae: come fedeltà a un’esistenza minacciata, come archivio di passioni sull’orlo della scomparsa, e come metafora della poesia. La poesia per te è questo borgo minacciato? (E se sì: può essere solo questo borgo minacciato?)

Dal momento in cui ho scritto la poesia, il borgo ha perso i suoi due abitanti, ed è deserto. Si prospetta per lui, dopo questo abbandono, una nuova vita senza gli umani. Resta borgo in questo modo? Resta traccia? Non lo so. Siamo davanti a una fine di ciò che conosciamo fin qui, che prende forma in un nuovo ignoto: potrà essere bosco che si mangia i ruderi, potrà essere nuovi abitanti che scelgono quella difficile via per altri nuovi motivi, potrà essere una ristrutturazione voluta dalle istituzioni, che lo potrebbe trasformare in santuario (c’è lì una piccola bellissima Pieve)? Al momento è in una fase di transizione sorprendente, è all’apice del possibile, e questo secondo me può sì essere una metafora, oltre che della poesia, del destino umano, del suo improvvisare.

Molte tue poesie finiscono con la rima, che chiude il testo come un bel fiocco: sembra che lì hai stretto il nodo e non puoi farci entrare altre parole. La rima funziona per te un po’ come una bussola che ti fa capire dove e quando finisce il testo?

La rima negli ultimi anni ha preso un po’ il sopravvento mentre scrivevo: spesso è stata la bussola proprio dell’intero comporre, della concatenazione delle parole e dei concetti in un modo che mi ha sempre stupita un po’. La rima per me è un modo quasi oracolare di stare nel linguaggio, perché è come se le parole si ‘chiamassero da sole’ in un modo un po’ inusuale. Quando è a fine poesia, può diventare un nuovo baricentro, che sposta la poesia verso il finale. Questo è un mio gusto, mi pare di intuire, anche quando leggo.

Sto maturando l’idea che anche la poesia più comprensibile trattenga in sé una difficoltà: quella di far vedere con le proprie parole. Prendiamo i versi: «Dall’altra valle un cane abbaia | la nebbia scopre i sassi, un grumo di case | un campanile, una curva, un’erba rampicante | una goccia sulle foglie che scivola e poi cade». A leggerli lentamente, ci si sente presenti sulla scena e si vede uno a uno ciascun elemento, fino alla miniatura della goccia che cade. Potrei affermare che la tua è una poesia dello sguardo. Ci può essere una relazione tra questo lento depositarsi delle immagini e la tua scelta di vivere in campagna?

La montagna dove vivo è un posto con cui faccio i conti tutti i giorni da molti anni. Il mio rapporto con questo luogo non è pacificato, non sono una appassionata – anzi spesso dico che la montagna ‘non mi piace’. Ma del resto, è il mio posto, e proprio perché ci discuto credo che mi chieda qualche cosa. Forse anche questo debito nei confronti dei dettagli. Lo sguardo è per me fondamentale, io penso in modo visivo, mi sembra, e ovviamente lo sguardo fa i conti con ciò che può vedere, al di là di quello che vede.

Nella tua scrittura solitamente la storia è assente. Però c’è una poesia che mi pare riconducibile a una visita al campo di Auschwitz: in calce si legge “Polonia” e a metà del testo i versi: “è in questi | secchi occhi di postumi che si specchia ora il mondo” (Si apre un cielo di stelle incantabili). Confermi che questa poesia è legata alla tragedia dei campi? Se sì, in che modo i drammi della storia possono entrare in poesia? E con quale legittimità e con quale finalità secondo te il poeta può affrontarli?

Questa poesia l’ho scritta in Polonia, proprio il giorno in cui ho visitato Auschwitz con il mio amico attore e danzatore Antonio Tagliarini, a cui il testo è dedicato. Credo fossimo arrivati lì un po’ a cuor leggero, pieni di preconcetti. Quella visita ci ha fatto grandissima impressione e credo che il fatto di essere fisicamente lì, il fare un’esperienza fisica insomma, in un luogo della storia che abbiamo letto sui libri (o parlato, nel mio caso, con i nonni), abbia cambiato la nostra idea per sempre. La storia entra sempre nella poesia, perché la poesia abbraccia tutto; non occorre parlare esplicitamente di guerra o soprusi per fare ‘poesia civile’ come si dice. Spesso ho difficoltà infatti con questo sotto-genere, perché mi pare voglia prendere delle scorciatoie che non sono necessarie. Per parlare del mondo apprezzo la delicatezza dell’allusione che rimane comunque in qualche modo intima, penso per esempio a Notti di pace occidentale della Anedda, che è per me più potente di altre poesie magari più ‘manifesto’. La poesia è uno stato, non un’ideologia.

Hai dedicato un testo, Celle, ai detenuti di un carcere. In quale occasione è nato? Avete lavorato insieme sulla poesia? Questa esperienza ha modificato la tua relazione con la poesia?

Celle è nata da un gruppo di lettura in carcere da cui, con Giulia Gadaleta e Faustin Akafak, abbiamo tratto un radiodocumentario. Volevamo capire se la lettura è evasione o altrimenti che cosa. Abbiamo scelto solo testi di narrativa: uno tra questi era Il bosco delle volpi di Arto Paasilinna. Un libro che è piaciuto molto ai partecipanti, e uno di questi ci ha raccontato che dalla sua cella, di notte, indicando in che ala del carcere si trovava, poteva sentire anche lui le volpi. Mi ha molto impressionato questo fuori libero che premeva, la poesia è nata così. La mia relazione con la poesia non è cambiata dopo, però mi è venuta voglia di continuare l’esperienza, e se la potessi ripetere questa volta proporrei poesia.

Tornando alle sezioni dell’antologia, tra le parole che hai scelto mi pare che, mentre alcune sono fondamentali per la riflessione poetica, ce n’è una piuttosto originale (almeno per chi – come me, ma anche gran parte dei poeti contemporanei – è cresciuto in un contesto urbano): Animali. Per quale motivo hai voluto iniziare il libro con una sezione intitolata agli animali?

Gli animali accompagnano la mia vita. Sono delle presenze ai margini della mia giornata fin da quando ero bambina. Da sempre la sera trovo in giardino cervi, caprioli, cinghiali; da sempre insetti, farfalle, uccelli sono nel mio quotidiano. E anche animali domestici, cani, gatti, galline. Il mio primo animale domestico, da me fortemente desiderato, fu una capretta nana. Tutto questo può sembrare molto ‘bucolico’ – qualcosa che vorrei evitare. Perché l’esperienza con l’animale è soprattutto esperienza dell’altro, conoscenza del proprio limite, scoperta di mondi, grande occasione. Non vado alla loro ricerca: sono gli animali che si avvicinano come creature che hanno fatto un viaggio lunghissimo e portano doni che non ho chiesto. In poesia questo è secondo me una bella occasione e siccome amo parlare di cose che conosco e che mi restano inconoscibili, ecco qua cigni, volpi, falchetti.

Se dovessi dire dei poeti a cui ti ritengo vicina, farei tre nomi: Bertolucci, Loi, Pusterla. Ci sono andato vicino?

Bertolucci lettura cara, anche se ci sono altri romagnoli che amo di più. Il mio poeta preferito è Nino Pedretti. In quanto a Loi e Pusterla ho avuto la fortuna di potermi lungamente confrontare con loro e sono per me dei maestri, a cui voglio bene. Il massimo della gioia!

Per chiudere, scegli una poesia da farci leggere (se vuoi anche con qualche parola d’introduzione)?

Proporrei, visto che l’ho nominato, Nino Pedretti. Scelgo in particolare un testo dalla raccolta che amo di più, l’ultima che scrisse: La chèsa de’ témp (La casa del tempo). La poesia si intitola La paura e ogni volta che la rileggo o me la recito, perché a furia di leggerla l’ho imparata a memoria, mi sorprende e commuove. C’è questo senso così inattuale, così fuori moda, della paura come «pensieri di cose grandi», che penso apra tutto un mondo. Il mondo fatto delle cose che non si vedono e che pure dettano la legge più profonda, e inoltre c’è uno slancio, un sentimento del mondo, dell’abbracciarlo tutto anche nei suoi lati dolorosi, nella consapevolezza che anche questi possano dare qualcosa di grandioso. E poi questo prendere su di sé la voce dei morti, quell’ambiguo «là dove i morti si ricordano» – che non si capisce se si intende che essi stessi ricordano, o se è un luogo dove vengono ricordati. E l’immagine finale, questo senso di un’ombra vaga, il tenere qualcosa che non si può tenere, trattenerlo come un fugace passaggio della luna negli occhi. Tutto questo è grandioso e commovente. Ovviamente, questa poesia è anche molto altro e molto più di questo: è la grandezza di una grande poesia, che è in ogni caso fuori misura.

 

LA PAURA

Gente, non prendete i tranquillanti
Lasciate che il cuore abbia paura,
paura che vuol dire pensieri di cose grandi,
il cielo che non ha mai fine,
le stelle che viaggiano nei loro lumi
e una parola che cade
là dove i morti si ricordano.
La paura, la paura che viene
ma il cuore la tiene
come gli occhi dove passa la luna.

 

LA PAEURA

Zénti, nu tuléi i tranquilènt
Lasé che e’ còr l’apa paéura,
paéura che vo déi pansir ad ròbi grandi,
e’ zil ch’u n finis mai,
al stèli ch’al viaza ti su lomm
e una parola ch’la casca
a là dòu che i mort i s’arcorda.
La paéura, la paéura ch’la vén
mò e’ còr la tén
cumè i occ dòu che pasa la léuna.

Da “La Chèsa de Témp”