Con le sue Inattuali, Gilda Policastro ha scritto un libro duro, algido, sgradevole, per molti versi irritante. È esattamente ciò che il libro vuol essere: il suo obiettivo artistico, quindi, si può dire felicemente raggiunto. Resta il dubbio, però, che parte del disagio che si prova alla lettura non sia strettamente funzionale agli scopi dell’arte, e sia dovuta piuttosto a una serie di pose e tic autoriali che rischiano di distrarre dagli autentici e sostanziali meriti di queste poesie.

Riprendendo il titolo nietzscheano, Policastro vuole presentare dei testi in «relazione mobile, conflittuale, tormentosa coi tempi» che rechino «del poetico un’idea molto classica e una tonalità il più possibile contemporanea»: procedure formali di stampo avanguardistico, dunque, ma non fini a sé stesse. Cito i virgolettati da una nota critica della stessa Policastro, rimbaldianamente intitolata Il faut être absolutament [sic] inactuelles e ripubblicata in calce al libro. Oggi è diventato un topos delle pre‑ o postfazioni ai libri di poesia lamentare la propria superfluità, rinnegare il proprio stesso diritto a esistere; si pensi quel che si vuole del gesto di farsela da soli, la postfazione, ma va dato merito all’autrice d’aver offerto così un buon chiarimento dei presupposti teorici del suo lavoro.

In particolare, l’occasione scatenante di buona parte dei tredici testi qui raccolti è un frammento di parlato còlto, origliato in giro (eavesdropping), che fa da reagente per le lunghe e tormentate rimuginazioni della voce autoriale. Spesso altre voci si mischiano ad essa, ma sempre come filtrate e ripetute da colei che parla in prima persona (e distorte, si direbbe, da lieve ma inconfondibile sfumatura di disincantato sarcasmo). Insomma, una polifonia di secondo grado. Quando anche il discorso si protende verso un “tu” o un “voi”, non pare vero dialogo, quanto le prove generali di un possibile dialogo futuro, o meglio le faconde risposte che con esprit d’escalier – e con quella scandalosa franchezza di cui non siamo stati capaci a viva voce – mentalmente rivolgiamo a quell’interlocutore dal quale abbiamo ormai preso congedo.

C’è evidentemente un certo snobismo culturale sotteso a tutta l’operazione, non particolarmente velato – aggirarsi origliando il «chiacchiericcio quotidiano e volgare” (sic) della ggènte per poi usarlo come spunto e stimolo per le amare riflessioni dei testi. Così, il greve parlato romanesco di studenti e cassiere contrasta coi continui, chissà quanto ironici riferimenti ai numi culturali, massime a Sanguineti (vezzosamente alluso colle iniziali ES, o iperfamiliarmente additato “l’Edoardo”) ma anche a Leopardi, Fortini, Gómez Dávila, e altri, disseminati tanto nelle poesie quanto nelle osservazioni critiche finali.

Efficace mimesi dell’acufene mentale di chi vive e lavora nel mondo delle lettere, certo; ma il fatto che il medesimo puntellarsi alle auctoritates caratterizzi anche il meta-discorso critico dell’autopostfazione impedisce di considerarlo solo un tratto del personaggio-“io” dei testi. Se pure l’intento è d’ironizzare (fra l’altre cose) sul lavoro culturale, di fatto così si esibisce nervosamente il possesso di quella cultura (si vedano anche i molti inserti in greco, dove addirittura l’autrice si sente in dovere di dare la flessione quasi completa di γυνή). Beninteso, il probabile effetto cercato – un’autoironia spietata sul fatto che la più sofisticata erudizione sia ben poco utile davanti al male biologico e sociale – arriva; ma arriva accompagnato da uno spiacevole retrogusto di spocchia e petulanza.

Ma agli artisti siamo disposti a perdonare ogni antipatia, quando questa diventa combustibile sulla fiamma del talento creativo. Policastro possiede alte doti letterarie che da queste pagine disperate e sprezzanti emergono nette; ma non sempre riesce a fare dell’indisponenza un plus, come accade a quei rari autori che senza remore sospingono il loro istinto di bastian contrario a vette iperboliche e parossistiche dove diventa un puro spettacolo di natura.

Il meglio delle Inattuali sta altrove. L’autrice è riuscita a comporre testi lunghi e articolati, ma fluidi, la cui complessità strutturale rispecchia quella tematica. Evita così gli opposti pericoli in cui era facile cadere: da un lato la chiusura ostile delle scritture avanguardistiche, il compiacimento dell’illeggibilità o della bizzarria gratuita; dall’altro la sciatteria dello sfogo personale incontrollato. È come se l’espansività colloquiale del secondo Sanguineti fosse temperata dalla densità sperimentale di Laborintus.

Lo stile di Policastro non abdica alla decifrabilità sintattica, ma esibisce, con juicio, diverse marche della scrittura ‘di ricerca’. Per fare solo qualche esempio: gli avverbi o le locuzioni avverbiali in posizione attributiva:  («del suddetto propriamente lavoro», «le effettivamente fiamme», «le ossa spolpate dall’a tutti i costi dieta»), le parole spezzate dagli a capo («rin‑ | tanati dall’evento»), la sprezzatura nel forgiare sintagmi sfregiati da un colloquialismo sfacciato («ti miete secco la morte autostradale»), l’uso ironico di forme burocratiche come gli elenchi numerati («La gente si attacca, | necessita di 1. parlare | 2. liberarsi | 3. ripetere da capo»). Si aggiungano i discorsi analiticamente interrotti dalle frequenti parentesi, i “ferri chirurgici” sanguinetiani per eccellenza.

In comune con tanta avanguardia d’oggi c’è anche l’irrompere della lingua informatico-tecnologica, terzo polo lessicale del libro accanto al gergo della cultura ‘alta’ e alle parole della quotidianità. In molti di questi testi lo stridente mélange fra le grandi preoccupazioni di fondo (il dolore, la morte, il lavoro) e il vocabolario gelido o frivolo di videogiochi e social network è qualcosa di più d’un vezzo formale. Siamo piuttosto di fronte a una riflessione, non rara in autori delle ultime generazioni, su come la penetrazione delle tecnologie muti a ritmi e profondità inquietanti la forma mentis, la struttura cognitiva in cui inquadriamo l’esistente. E la riflessione è pregnante proprio perché non viene esposta in teoria, ma è messa in atto nella lingua dei testi stessi:

Chiudere con la morte:
crollare o scrollare,
abitate da capo, a un di presso
i pixel del volo, cromakey del decesso (schianto)
e in aggiunta ai tradizionali referti (dna: per sempre
del volto) sotto ai cipressi,
ggggggggggggun selfie.

Eppure, nonostante questa eloquente chiusa, non c’è solo denuncia della superficialità grottesca indotta dalla logica dei nuovi media. Qua e là sembra di cogliere un atteggiamento misto di disagio e invidia nei confronti dei nativi digitali, che «hanno […] le sinapsi formate sui byte», e di conseguenza «hanno la vita portatile, quella che la morte è un passaggio di livello». Quasi fossero, loro in fondo appena più giovani, al riparo da ogni tentazione di speranza, non avendo conosciuto le ultime ombre del mondo di prima; ed essendo ormai abituati dall’intima familiarità con il non-umano e il virtuale a prendere l’esperienza umana e terrena con cinico distacco.

Tuttavia all’autrice è ben chiaro che la vita «non è la wii: quando muori sei morto». Sconsolante tautologia che nel libro, come già si sarà capito, non è isolata. La nota predominante della silloge è data proprio dal martellare ossessivo, per nulla liricamente trasfigurato, della malattia e della morte fotografate in tutte le loro declinazioni. Se ne parla ovunque: ma gli ultimi due testi della raccolta sono molto chiari in proposito. Nell’Inattuale n. 12 si passano in rassegna i più svariati “modi di morire”, dal cancro al femminicidio ai sinistri stradali e via dicendo – enumerazione che per la vertigine elencatoria e l’estrosità espressiva riesce persino sinistramente umoristica. Più mesto ma non meno eloquente, l’ultimo componimento ribadisce a suon di minacciose anafore la nostra destinazione al «dolorificio» universale.

Sono dunque testi che inscenano bene il nostro rapporto quanto mai nevrotico con «L’INCUBO DELLA M***E», dove anche graficamente la reticenza degli asterischi contraddice l’urlo del maiuscolo. Inattuale è certo la poesia in una società che si accalora attorno all’introduzione della doppia spunta su Whatsapp (richiamata nel testo n. 10), ma scandalosamente inattuali sono anche – nell’era dell’incorporeo e dell’effimero – le invarianti biologiche che ancora e sempre ci precipitano al nostro destino.

S’intuisce infatti fra le righe una sorta d’ideologia neo-catara, un antinatalismo che vede nella perpetuazione della vita stessa la radice ultima della sofferenza («il crimine della ovulazione incurabile | ne rinfocolerà ogni giorno altrettanti»). Ecco allora che proprio il gelido gergo informatico diventa efficace strumento per condannare la condizione umana con una crudezza paradossale che parole ‘umane’ non saprebbero più avere («genere treppiedi che avvicenda il bug del DONO DELLA VITA | e lo spamma»).

Altrove la cupa satira dell’autrice si rivolge a varie forme di male sociale, geo-storicamente più localizzato. Per la varietà di temi e soluzioni formali non si può parlare semplicemente di letteratura del precariato, eppure l’impasse in cui si dibattono le generazioni più giovani è oggetto di numerose frecciate sardoniche («quando 7 italiani su 10 non capiscono un testo elementare […] fai bene, fai bene a vendere il pane dopo il 110 e lode in archeologia»). Poco importa se questa generazione non si è «fatta mezza Russia a piedi | col pane e formaggio in tasca», come se solo ciò desse diritto a lamentarsi, e il male non trovasse modo di reincarnarsi in forme altrettanto dolorose anche per quelle generazioni a cui non capita di finire nel tritacarne di una tragedia macroscopica.

Le guerre d’oggi, d’altronde, sono delocalizzate ma non perciò meno cruente (il testo n. 12 snocciola al riguardo qualche cifra), mentre la letteratura, salvo rare eccezioni, incontra difficoltà crescente a non annegare nel brusio di fondo quando cerca d’affrontare temi tragici («la poesia va ascoltata in silenzio, | questa vostra distrazione ci sta uccidendo, e ci scordiamo dell’Ilva | e di tutto il resto»).

Prescindibili appaiono invece le frecciate contro bersagli più triviali, come le vacanze a Ibiza (o più modestamente a Vieste). Le idiosincrasie sono d’altronde essenziali a questa poetica che rinnova con spunti originali la nobile tradizione dell’invettiva, e dal personale più intimo sa quasi sempre risalire all’universale o comunque al collettivo.

So much for non-assertivity. E meno male – perché la personalità autoriale forte e spigolosa, persino sgradevole, lungi dal tenersi alla larga dai testi come vorrebbero certe premesse teoriche delle avanguardie è proprio ciò che dà loro compiutezza e necessità. E vi conferisce, con tipico paradosso, una rilevanza molto più che personale. Tant’è che di Sanguineti l’autrice fa giustamente propria anche la celebre replica a Zanzotto sulla portata storico-generazionale delle proprie nevrosi; e la generazione di Policastro, costituzionalmente precaria, ha semmai maggior diritto ai mal di testa rispetto ai Novissimi, abbuffatisi al banchetto del boom economico.

Policastro termina la sua nota critica auspicando che la poesia del filone «più propriamente lirico» e «la nuova area della ricerca», oggi «esperienze parallele, quasi non comunicanti […], negli esiti migliori arrivassero a toccarsi, e perché no a confliggere, e non per giungere a una sintesi impraticabile, ma per potersi reciprocamente sabotare e rinnovare». Auspicio che si può senz’altro sottoscrivere, e che sorprende positivamente da parte di un’autrice che nei suoi interventi critici suole schierarsi assai nettamente a favore della seconda di quelle due aree. Con le Inattuali ha dato lei stessa un ottimo esempio pratico di come la contaminazione fra tradizionale e sperimentale possa oggi realizzarsi coniugando i pregi d’entrambi – anziché, come troppo spesso accade, i difetti.

243_Policastro_front_coverGilda Policastro, Inattuali, Massa, Transeuropa, 2016, pp. 50, € 7,90.

 

 

 

 

 

Immagin: Miltos Manetas, Nike Space.