C’è differenza tra scrittrici e scrittori, oggi, in Italia? Negli interventi precedenti, ho tracciato una mappa, storica, teorica e fattuale, della presenza rispettiva di scrittori e scrittrici nella letteratura italiana contemporanea, documentando una strutturale disparità. Ora vorrei rispondere alla questione della «differenza» riflettendo sulla retorica che attraversa la rappresentazione di scrittori e scrittrici nel nostro panorama letterario, dall’editoria alla didattica alle riviste, e che in larga parte va nella direzione della conservazione di un primato maschile.

Il meccanismo retorico principale è quello dell’universalità del maschile, contrapposto alla parzialità femminile. Da un punto di vista di lettura, e in parole povere, il femminile riguarda le donne, mentre il maschile riguarda tutti. I vissuti delle donne sono percepiti come una storia minore e parziale dagli uomini, in cui non si rispecchiano. Si pensi paradigmaticamente al tema del rapporto fra padri e figli, considerato come antropologicamente fondante e rappresentativo di epoche, di contro al tema del rapporto fra madri e figlie, considerato come di interesse del tutto marginale, privato e appunto esclusivamente femminile.

A questo meccanismo fanno capo una serie di retoriche diffuse. Una di queste consiste, per quanto riguarda i libri scritti da donne, nell’enfasi posta da parte di manuali, recensioni e vesti editoriali su quei temi considerati tradizionalmente femminili (e quindi parziali e limitati), indipendentemente dal reale contenuto. Un’analisi di oltre 10,000 recensioni sulla New York Times Review of Books negli ultimi 15 anni, ha evidenziato non solo che gli autori sono significativamente più recensiti delle autrici, ma anche che «i recensori, quando il soggetto del loro articolo era un libro scritto da una donna, tendevano a utilizzare parole come marito, madre e matrimonio con una frequenza di tre volte superiore a quella utilizzata quando invece si parla di libri scritti da uomini. Termini come amore, sesso e bellezza sono due volti più comini nelle recensioni di libri scritti da donne. Al contrario le parole presidente, leader, argomentazione e teoria sono due volte più comuni nelle recensioni di libri scritti da uomini».

Possiamo prendere per esempio a questo proposito l’uso delle copertine, che spesso tendono a enfatizzare elementi stereotipicamente femminili. L’uso di copertine stereotipate secondo il genere serve in primo luogo a riportare il campo d’espressione femminile all’interno di un immaginario tradizionale, e in secondo luogo, poiché la specificità femminile è considerata, appunto, specifica delle donne, mentre quella maschile si identifica con un universale assiologicamente superiore, servono a limitarne il pubblico alle donne. Si vedano per esempio le copertine dell’epopea napoletana di Elena Ferrante, giocate su immagini di matrimonio con bimbe vestite di rosa e viola, romanticismo, maternità da pubblicità della crema solare, e infine due bambine vestite da fatine, rigorosamente in rosa e viola, simboli di uno stereotipo femminile che niente ha a che fare con la crudezza dei libri di Ferrante. Di rado il consiglio «non giudicare il libro dalla copertina» è stato più appropriato.

ferrante

Non solo alcuni aspetti vengono portati in primo piano e ridotti a creare un’immagine stereotipicamente femminile. Diversi elementi del testo cambiano di segno, quando appartengono a un’opera di un autore o di un’autrice. La pazzia, per esempio, è genio e visionarietà, se a scrivere è un uomo, ma tende al degrado e all’inaffidabilità, se a scrivere è una donna. Così, la memoria e l’esplorazione del sé tendono ad essere lette come un nobile esercizio spirituale che arricchisce la conoscenza dell’animo umano, in un autore, mentre vengono etichettate come «temi intimistici» nelle autrici, espressione che ricorre trasversalmente nei manuali di letteratura e nella critica. La famiglia, i figli, la sfera dei rapporti umani, al centro di larga parte della letteratura maschile, da Shakespeare a Moravia, da Pirandello a Cechov, diventano invece il segno di un orizzonte limitato, intimistico appunto, nella letteratura scritta da donne. L’esempio più eclatante a questo proposito è ovviamente quello dell’amore: eroico, tragico, spirituale o passionale, l’amore è uno degli argomenti più frequentati dalla letteratura di tutti i tempi e luoghi. Eppure, l’amore, se affrontato da una donna, è subito percepito riduttivamente come sentimentale, «fa subito romanzo rosa», come spiega Giusi Marchetta. Lo stesso vale per il tono emotivo della scrittura: come osserva giustamente Raffaella Silvestri, «la libertà di scrivere di sentimenti senza sembrare sentimentali, toccare le emozioni senza essere chiamati emotivi: una prerogativa ancora maschile, con cui la scrittura femminile deve fare i conti».

L’esistenza di una letteratura definita espressamente «al femminile», con apposite sezioni nelle librerie, fatta di testi seriali, di solito di taglio molto tradizionalista nella rappresentazione dei ruoli di genere, tutti invariabilmente a tema romantico, rinforza l’associazione fra femminile e sentimentalismo rosa. Benché esistano libri analoghi al maschile, cioè giocati su temi e immaginari stereotipicamente maschili, non esiste però una categoria di «letteratura maschile» con questa connotazione, perché è ovvio, nel discorso culturale condiviso, che la letteratura maschile è ben altro. La stessa definizione di «letteratura al femminile» ha come presupposto retorico che la letteratura sia, laddove non specificato, maschile.

narrativa femminile

Infine, e il punto è fondamentale per la costituzione di canoni ed esclusioni, un autore che si presenta come inclassificabile ed estremamente originale tende ad essere recepito come un innovatore; di contro, un’autrice il cui lavoro presenti le stesse caratteristiche tende ad essere letta come un’autrice che non ha fino in fondo assimilato la tradizione. Come lamenta il critico Capati a proposito di Elsa Morante, «Anche quando si rintraccia la sua vicinanza con temi e problemi d’altri scrittori, lei è in anticipo o in ritardo, non sta mai ferma nel posto assegnatole[1] Perché mai il valore di Morante dovrebbe risiedere nella sua vicinanza ad altri scrittori, piuttosto che nella sua straordinaria forza innovatrice, e perché dovrebbe stare nel posto assegnatole (da chi, poi?), si spiega solo con il presupposto di una intrinseca minorità della scrittura femminile. Questa difficoltà, o snobistica resistenza, a confrontarsi con la voce, l’autorevolezza e l’originalità delle scrittrici, va di pari passo con la mancata creazione di genealogie che facciano capo a scrittrici, se non da parte di altre scrittrici. È estremamente raro infatti che uno scrittore citi una donna fra le figure che l’hanno influenzato o con cui sente affinità (mentre ovviamente il contrario avviene di continuo).[2]

Che posto occupa una grande scrittrice in questo sistema?, possiamo dunque chiederci. Quando il talento di una scrittrice riesce a imporsi oltre a tutte le barriere e le resistenze, come è stato per Deledda, Morante, Ortese e Rosselli, e come forse sta avvenendo oggi con Sapienza e Ferrante, la retorica che accompagna il loro successo è quella della luminosa eccezione, dell’unicità inclassificabile. Il carattere di «eccezionalità» permette di riassorbire il talento femminile senza sostanzialmente intaccare la norma della dominanza maschile, confinando infine il lavoro delle scrittrici alla marginalità.

Ma una serie di eccezioni fanno la norma: la norma delle donne che scrivono, e che scrivono bene. Se riusciamo ad accettare questo fatto, attraversando le retoriche che continuano a ricondurre la letteratura scritta da donne entro confini di minorità e stereotipi, riusciamo a cogliere la dimensione di fondamentale novità introdotta dall’accesso alla parola e all’arena pubblica da parte delle donne, il fatto che con le loro voci colmano finalmente un vuoto di rappresentazione e compensano il secolare monologismo maschile. Il fatto che non sono più nel mondo solo come oggetto di sguardo, di desiderio e di rappresentazione maschili, ma anche come soggetti di quello sguardo, su di sé, sugli uomini, sul mondo. Cosa emerge da questa presa di parola? E chi sono le donne che scrivono? Nel prossimo intervento, che conclude la serie, parlerò del contributo di alcune grandi scrittrici del nostro Novecento e Duemila.


 

[1] Massimiliano Capati, Storia letteraria del ‘900 italiano, Venezia, Marsilio, 2002, p. 189.

[2] Una recente e benvenuta eccezione è il tributo di Marcello Fois a Grazia Deledda in Quasi Grazia, Torino, Einaudi, 2016.