Ho conosciuto Mia Lecomte un paio di anni fa a Parigi. Ricordo nitidamente una merenda che abbiamo fatto al Salon de Thé La Mosquée. Da allora le occasioni di incontro sono state pochissime. Ma mi è capitato per le mani ultimamente il suo ultimo libro. L’ho letto e ho ritrovato la sua affabilità da conversazione, quel modo diretto di dire le cose. A volte togliendo alla lingua musicalità e cadenza per dire ostinatamente la cosa; altre arrivando a composizioni in cui il respiro non si frange e come un’onda si innalza, cresce e si conclude. Il libro è Al museo delle relazioni interrotte, edito da Lietocolle nel 2016 e impreziosito da una nota di Carlo Bordini. Ho rivolto all’autrice alcune domande, che qui di seguito presento.

 

In Al museo delle relazioni interrotte raccogli quarantaquattro poesie in ciascuna delle quali fornisci, sotto il titolo, precise indicazioni geografiche che funzionano come delle didascalie museali. Ogni poesia è una stazione in cui avviene uno strappo? Il lettore percorre un itinerario dentro un museo dove le opere esposte sono degli addii?

Questo libro, a parte qualche testo, è stato quasi interamente scritto a Parigi. Anche dove le indicazioni sotto il titolo, riferite semplicemente alla circostanza che ha acceso lo spunto, riportano altre coordinate geografiche. Le didascalie “museali”, quindi, in qualche modo sono quasi interamente riconducibili a Parigi: Parigi è il museo in cui in questi ultimi anni sono venuti disponendosi gli addii che dici, l’ambito dell’esposizione dolente di tutte queste relazioni interrotte. Si tratta, come sempre accade, di un insieme complesso di relazioni: ci sono anzitutto quelle più banalmente personali, certo, con le persone amate portate via dalla morte, dalla follia, o dal semplice corso delle cose; ma anche quelle che legano tra loro, al di là di me, gli abitanti di questa città colpita, disgregata al suo interno in una moltitudine di impossibilità; o quelle che giorno dopo giorno riportano alla contemporaneità a cui sentiamo di appartenere: Storia di lacerazioni e di addii, appunto, incamminata verso cupe ipotesi di futuro. E c’è, infine, una più intima relazione anagrafica con il tempo e lo spazio che, con l’aggravante del trascorrere dell’età, non è lineare ma viene interrompendosi e riconfigurandosi incessantemente. I testi di questo libro, per una serie di concomitanze, nascono dalla sovrapposizione di tutte queste relazioni esauste, del loro esito.

Molti titoli hanno a che fare con il tempo (L’ultima, Prioritaire, Falsa estate, Save-the-date, Rituali, Time capsules, Intermezzo, Settembre, Il compleanno, Tre tempi per l’addio, p.s., Finale d’epopea, Controtempo, C V) o con lo spazio (Diorama, Neverland, Intimità, Chez Edony, Terracqueo) o con entrambi (non a caso, la prima: Rendez-vous). In questi titoli si intravede una relazione elastica con le coordinate spazio-temporali (in alcuni casi di avvicinamento, in altri di allontanamento; ora di accelerazione, ora di rallentamento; ora un ritorno ciclico, ora un sommario), fino a un ribaltamento speculare in una poesia: in Rituali sono i morti che nel giorno dei morti festeggiano i vivi. Alla fine, viene da chiedersi, le relazioni non si interrompono mai definitivamente?

Il tempo, sì. La mia raccolta precedente si intitolava infatti Intanto il tempo… È quello che stavo dicendo: con gli anni le relazioni spazio-temporali sono sempre più sottoposte alla pressione anagrafica, la nostra mortalità ci strattona in qua e in là, senza regole. E uno alla volta cedono i punti di riferimento, le relazioni si interrompono, diventano altro. È come se qualcuno alle nostre spalle stesse tirando ai bersagli che ci stanno davanti, e noi restassimo sperduti nel mezzo. Non siamo noi a sparare, e i bersagli barcollano uno dopo l’altro. Non siamo stati noi a sparare – dove e quando? – e ci ritroviamo con il pupazzo-premio tra le braccia. Tutto quello che sembrava riguardarci pare finito, l’enorme pelouche a cui ci aggrappiamo è lì per ricordarcelo. È quello che resta, e non ci spetta neppure.

La poesia abc, nella quale si svolge un breve dialogo surreale, termina con i versi: “Non significa niente, mi rispondi, | non esiste in nessun dizionario | Infatti, sto dicendo, io salpo | esattamente per questo”. Cos’è che manca nel dizionario?

Da bambini si faceva il famoso gioco: “Arriva un bastimento carico di…”, e poi la lettera iniziale della parola da indovinare. Una mia cuginetta, in evidente deficit alfabetico, anticipava sempre lettere che non corrispondevano affatto alla parola che finiva per svelare: “Arriva un bastimento carico di “c”… Elefante!”. Grandi risate, mentre la poverina ogni volta scoppiava a piangere… Il ricordo di quegli scambi surreali ha scatenato il dialogo di coppia di abc: lei sale sul bastimento carico di parole inesistenti – un’accozzaglia impronunciabile di consonanti – e se ne va. Lui viene lasciato “esattamente” per questo, per tutte le loro parole mancate, quelle che apparentemente non esistono.

In Red carpet invece si legge: “Quello che ci diciamo | non è quello che ci stiamo dicendo”. Le parole hanno un lato d’ombra o siamo noi che non affidiamo alle parole le cose che vogliamo comunicare?

Le parole che apparentemente non esistono, appunto. In Red carpet ci sono ancora un lui e una lei, è un altro duetto, come abc. Tra i due “sfilano”, prevedibili, le parole richieste dall’occasione. E intanto succede altro: le altre parole, quelle che avrebbero dovuto essere, che da qualche parte sanno essere, si fanno sentire più che mai. Significano altrove, ma risuonano dolorosamente in tutto l’eco del vuoto che lasciano. Questo doppio movimento – la ricerca delle parole necessarie e la delusione, il dolore per la loro “impossibilità” – accomuna anche altri testi di questa raccolta. È il leitmotiv di tutte le mie relazioni amorose, affettive. Quello che mi fa tentare caparbiamente, e inutilmente, la via di scampo della scrittura.

In Controtempo, penultima poesia del libro, una partita di scacchi lo spazio della geometria e delle regole per antonomasia si trasforma in una vicenda anarchica in cui i pezzi non rispondono più alla loro funzione e alla fine “cala il primo bianco di una nebbia”. Se la vita assomiglia a questa partita imprevedibile e deragliata, questa poesia racchiude per te una lezione provvisoria?

Si tratta, ancora una volta, del rapporto col tempo e con lo spazio, del fatto che, soprattutto da un certo momento in poi, collassa la percezione “lineare” che ne abbiamo. Ma Controtempo mette in scena in particolare l’ambito d’azione delle due regine. È al loro sguardo che le regole deragliano. È un testo sull’avanzare anarchico e imprevedibile dell’età, e nello specifico dell’età femminile.

Di molte poesie apprezzo la scioltezza con cui le immagini si sviluppano; in alcune altre invece trovo una certa gratuità, per esempio in Intimità (dal verso incipitario: “La figlia maggiore stamani ha parlato col diavolo”). Per te, per esempio, questa poesia cosa significa?

Come la maggioranza dei miei testi, Intimità nasce da un’occasione famigliare: una delle mie figlie che mi chiede spiegazioni per una voce che le sembra di aver sentito, durante la notte, nella casa di famiglia dove trascorriamo l’estate. Lo spunto si è trasformato in questo ironico spaccato domestico, una “casa di bambola” dove le tre donne della famiglia – la madre e le due figlie – nelle proprie stanze, vivono l’amore che l’età e l’educazione sentimentale a cui soggiaciono riservano loro. Come Controtempo, questa è ancora una poesia sul trascorrere degli anni al femminile. Con più leggerezza, mostra una sezione dell’abitare – nel tempo – al reagente dei sentimenti di tre donne.

Ti muovi tra diverse lingue per ragioni biografiche e anche di ricerca: ricordo per esempio il tuo impegno nel diffondere la poesia della migrazione in italiano (così si intitolava un’antologia che hai curato nel 2006 per Le Lettere: Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano). Quando scrivi senti le diverse lingue battere nella tua testa o la lingua materna resta una fortezza inespugnabile?

La mia scrittura è monolingue: l’italiano è per me l’unica lingua che mi sento davvero libera di abitare. Mi sono occupata, e mi occupo, infatti, degli scrittori stranieri che approdano all’italiano; e lungo gli anni ho cercato, e cerco, di predisporne l’accoglienza. Non credo di essere particolarmente esposta alle altre lingue; non sono questa gran poliglotta, tutt’altro, delle lingue conservo soprattutto un’impalpabile coda musicale. Sono anagraficamente straniera, ho vissuto, vivo la maggior parte del mio tempo all’estero, ma questo agisce più sul retroterra identitario che sull’esito linguistico. Anzi, mi sento se mai una straniera univocamente italofona, radicata in una lingua che non mi appartiene e che forse amo proprio per questo.

Per chiudere, puoi scegliere una tua poesia (se vuoi anche con qualche parola d’introduzione) ?

Scelgo Diorama come sintesi di quel che si è detto finora. La relazione interrotta in questo caso circola in maniera centrifuga tra coordinate impazzite: addirittura una casa che affaccia contemporaneamente su due città diverse, nello spazio e nel tempo, al sud e al nord di un desiderio senza pace.

Diorama
(Paris, quai d’Anjou)

Metà della casa affaccia su una città
metà su un’altra
La prima città si riconosce dai pesci
in penombra bocca a bocca
si identifica in un fiume giocattolo
lentamente trascina un solo colore
L’altra città si divide fra menta erbe matte
qualche spiga una volta anche un ramo
di glicine d’oleandro
Questa metà della casa dà sulla tua città
quest’altra metà sulla mia
sul confine tutto interno al guardare
ci affacciamo rivolgiamo le spalle ad entrambe
a fronte a retro dell’abitare che ci abita
la testa è coda attorno al desiderio
una città sta di qua di qua l’altra
incontro al tuo al mio

Immagine di copertina: @ Mia Lecomte (2012).