Christine Chubbuck è stata reporter e conduttrice televisiva della Sarasota TV, un’emittente locale della Florida. Il suo nome è legato a un fatto di cronaca che il 15 luglio del 1974 ha sconvolto non solo lo sparuto pubblico del network, ma l’intero stato americano. Durante il notiziario della mattina, Chubbuck si è suicidata in diretta, con un colpo di pistola alla testa.

L’ultima edizione del Torino Film Festival ha ospitato due film legati alla vicenda Chubbuck: il mockumentary Kate plays Christine di Robert Greene nella sezione Festa Mobile (presentato a Berlino e premiato al Sundance) e, tra i film in Concorso, Christine di Antonio Campos, biopic che vede Rebecca Hall (che a Torino ha vinto il premio come miglior attrice) nei panni di Chubbuck. Entrambi i film si propongono di raccontare una vicenda di cui il pubblico conosce già la fine e di rimettere in scena il suicidio della giornalista: nell’opera di Greene, Kate Lyn Sheil è chiamata a interpretare un ruolo per un film che non esiste e lo spettatore a riflettere sulla relazione che lega la donna Kate alla donna Christine; il  fatto di cronaca al senso di rimettere in scena – per osservarla ancora una volta – una morte già andata in onda.

Il biopic di Campos invece è un’opera di fiction che racconta gli ultimi mesi di lavoro di Christine a Sarasota. Campos non tenta di giustificare un suicidio, quanto di fornire più dati possibili allo spettatore affinché ne comprenda almeno in parte le motivazioni. È forse questo il punto di forza del film, che si presenta come un’indagine essenzialmente narrativa sul vortice di frustrazione che inghiotte la protagonista: il suicidio resta il punto di non ritorno verso cui la narrazione si dirige ma non ciò che lo spettatore è chiamato a ricordare. C’è un dopo-il-suicidio nel film di Campos che non ha a che fare con la macabra ossessione per il filmato “perduto”, ma con la necessità tutta narrativa di chiudere con quello che possiamo solo immaginare (le reazioni dei colleghi, della madre, della stampa) e che i registi alle prese con la fiction schiacciata sui fatti biografici possono scegliere di mostrare – infilandolo tra le maglie del racconto – un lumicino di speranza.

Se c’è una debolezza in questa Christine, essa sta forse nella scelta di costruire un personaggio (un’eroina?) estremamente forte all’inizio – Christine è brillante, anticonformista, poco incline alla resa ma in fondo collaborativa – che subisce una serie di contraccolpi (si scontra con il direttore, non riesce a realizzare i progetti che propone, non ottiene le promozioni che merita, benché benvoluta dai colleghi non riesce ad accettare i loro successi perché coincidono con i propri insuccessi), e che solo in corso d’opera rivela un disagio latente, relativo a un precedente crollo nervoso; veniamo così a sapere che Sarasota è il luogo che Christine ha scelto per “ricominciare” e il fatto che l’attuale incarico le procuri un nuovo disagio invita chi osserva alla deresponsabilizzazione del sistema attuale: in soldoni, Christine è frustrata e depressa, ma frustrata e depressa lo era già stata altrove, quindi forse il problema è più suo che dell’ambiente lavorativo mediocre che ne soffoca le ambizioni. Al di là di quanta verità ci sia nella rappresentazione della Christine di Campos è innegabile che questa lettura giochi a favore di una Christine “inadatta” e recidiva. E se è così, allora forse Christine non era così forte come ci appare all’inizio del film.

Per concludere: l’opera di Campos seppur nella sua semplicità (brillano l’interpretazione di Rebecca Hall e una fotografia che rimette in scena i primi anni Settanta con estrema dovizia) riesce pienamente nell’intento di raccontare la fenomenologia di una tragedia senza la sovrastruttura dell’opera di Green. Si riflette meno insomma, ma si capisce meglio e questo, soprattutto quando si ha a che fare con un fatto di cronaca già di per sé gonfio di voyeurismo, resta a mio avviso un dato importante.