Questo mese la consueta playslist della rubrica Alta Fedeltà cede il posto a un lungo articolo che tira le somme sulla musica dell’anno che sta per concludersi. Si tratta in un certo senso di un’anticipazione di quello che vi aspetta nel 2017. Tremate e alzate il volume.

Il duemilasedici non è ancora finito ma l’infausto titolo di annus horribilis se l’è già meritato da tempo. Subbugli politici, crisi internazionali, emergenze climatiche… stanno succedendo cose che potrebbero ben meritare un capitolo nei futuri libri di storia. In tutto questo, a mio parere, il protagonista indiscusso dell’anno è la Morte.
Dopo l’oscuro presagio della dipartita di Lemmy negli ultimi giorni dell’anno passato, il Triste Mietitore ha reclamato una serie di nomi così importanti da sembrare uno scherzo di pessimo gusto. Grandi personaggi che hanno dato un contributo inestimabile al mondo dell’arte, di cui la musica è il settore che ha subito le perdite più gravi.
Il momento definitivo dell’anno è avvenuto in un insospettabile weekend di Gennaio: venerdì 8 esce Blackstar, domenica 10 muore David Bowie.
Il geniale trasformista, da sempre innovativo e provocatore, sembra quasi aver calcolato il perfetto tempismo per concludere impeccabilmente la carriera. Ci lascia con un album pazzesco, il primo di qualsiasi lista “album migliori del 2016”.
Il secondo potrebbe essere quello di Nick Cave che, con i suoi fedeli Bad Seeds, ci regala un album intenso e tenebroso, non espressamente dedicato alla memoria del figlio adolescente – prematuramente scomparso – ma sicuramente influenzato da quell’evento. Suoni cupi, note sparse su lisce superfici nere, e le parole di Cave – tra il cantato e il recitato – che danzano e impongono il ritmo, sollevando la batteria da ogni sua responsabilità.
A poco più di un mese dalla fine dell’anno il ciclo storico ha già completato un giro: Leonard Cohen pubblica I Want it Darker e muore poco dopo.
Se penso ai miei album preferiti e a quelli più acclamati dell’anno trovo un filo conduttore che non è solo il tono scuro e il retrogusto amaro, ma anche l’età degli artisti: tutti dai cinquanta circa in su.
Non mancano certo le novità, come gli eccellenti James Blake e i Fat White Family, ma il meglio della musica di questo anno affonda le radici molto profondamente.

Le loro storie portano in un’epoca sfocata in cui la musica si ascoltava sui dischi in vinile – supporti costosi sia da comprare che da produrre -, in cui ci si facevano le ossa suonando tutte le sere in locali dove c’era più fumo che ossigeno e il sudore colava dalle pareti. Si rischiava tutto per arrivare alle orecchie giuste, quelle che tenevano le chiavi di uno studio di registrazione, e spesso si perdeva tutto senza nemmeno arrivarci vicino.
Ora la musica è auto-prodotta e auto-distribuita, disponibile quasi gratis, come merce usa e getta. Ai primi tempi ci sembrava troppo bello per essere vero: un bel dito medio a tutti i middlemen perché la nostra musica la registriamo in garage con il computer e raggiungiamo milioni di ascoltatori su Myspace. Da avidi ascoltatori si aveva a portata di mano un tesoro inestimabile e grazie a servizi come il controverso Napster si potevano finalmente raggiungere indie band di Vancouver e impensabili gruppi neozelandesi.
Adesso iniziamo a capire che forse non è un sistema così grandioso perché la piazza di internet è affollatissima e tutti gridano così forte che si fa fatica a distinguere le voci.
Alla fine non è cambiato nulla.
Anzi peggio, prima almeno c’erano le sottoculture.

Anticamente era difficile promuoversi e, in mancanza di bandcamp o eventi facebook, bisognava coinvolgere le persone una ad una. Ci si creava attorno un gruppo di gente che frequentava i concerti e creava nuovi proseliti. Come ogni esercito che si rispetti anche loro avevano una divisa e seguivano una bandiera ideologica: erano le sottoculture musicali. Chiunque sia stato adolescente nel secolo scorso si è trovato di fronte ad un’ampia scelta di gruppi di affiliazione, ognuno con una diversa componente politica e musicale, e ognuno con uno stile ben riconoscibile.
Se volevi ottenere la cassetta copiata di Rust in Peace dovevi avvicinarti con riverenza a quei metallari con chiodo e maglietta nera o, allo stesso modo, se sfoggiavi Doc Martens, jeans con risvolti e basette, lanciavi un chiaro segnale in termini di gusti musicali.
Con i social network è tanto facile crearsi un’entità pubblica e modellare le proprie preferenze quanto lo è cambiarle da un giorno all’altro. Lo stesso non vale In Real Life, ci vuole preparazione e dedizione, tempo e soldi. Bisogna anche essere ben preparati sulla materia perché, pur esibendo il look più convincente, quando le persone che ti vuoi accattivare ti fronteggiano chiedendo qual è la tua canzone preferita di Sandinista non hai tempo di cercare su Google.
Detto così può sembrare puerile, ma queste regole associative non scritte servivano a favorire l’incontro di gente simile fra loro, e di conseguenza l’incontro di musicisti. Ne nascevano gruppi fortemente legati ad una comunità, e che potevano affidarsi sia ad un genere musicale di riferimento che ad una cerchia di fan. Le sottoculture offrivano ospitalità ad alcune persone, e spesso ostilità ad altre, perché partivano da un reale bisogno che nasceva dal tessuto sociale, un tessuto che si esprimeva e si lacerava in questo modo.
C’è chi può definire limitanti queste associazioni, io le chiamo definenti. Si prendeva una posizione e si aiutava chi usciva dal mondo pre-pubescente a seguire una via formativa. Certo non finiva sempre nel migliore dei modi ma creava un forte senso di appartenenza.

Nella seconda metà degli anni Sessanta arrivano i Mods, forse la sottocultura più frivola del tempo. Il loro stile caratteristico – scooter, abito a giacca e parka – aveva il cuore a Carnaby Street e lo sguardo puntato sull’Italia, più come topos mitologico che come luogo reale. Un loro motto era “clean living under difficult circumstances”, una frase aperta alle interpretazioni ma che è generalmente letta come un invito a mostrarsi impeccabili per nascondere le difficoltà, economiche o di altra natura, che molti in quegli anni vivevano a casa. Volevano evadere la loro blanda e tormentata esistenza ballando il soul della Motown con eleganza. Dieci anni dopo il movimento si evolve e si dirama, sotto gli implacabili colpi della Thatcher: da un lato il più tradizionale mod revival, rappresentato da Paul Weller e i suoi Jam, dall’altra i rude boys, un movimento che nasce dalla diaspora Giamaicana e che è molto legato alle rivolte di Brixton unendo per la prima volta la working class bianca e nera. Tutto nasce da un humus sociale ricco di questioni politiche e tensioni economiche, vita vissuta e sofferta che rendono necessaria l’associazione e l’evasione.

Dopo l’overdose degli anni Novanta le sottoculture musicali si sono spente con il grido smorzato degli Emo, lasciando un vuoto che ha creato isolamento: tutti vanno agli stessi festival ma poi tornano a casa da soli.
I nuovi artisti sono più eclettici, sfuggono le facili definizioni e piacciono a tutti ma mancano dei punti di riferimento identificativi. I Tame Impala sono pazzeschi sia su disco che dal vivo e il loro genio musical e Kevin Parker sta dimostrando una creatività non comune, ma con chi sta comunicando, e da dove parte? Nell’era di Spotify le band, così come gli ascoltatori, sembrano attingere all’intero patrimonio musicale senza però rappresentare nessuno in particolare. Alcuni di loro sopravviveranno alla prova del tempo ma non ci sarà un caratteristico suono del decennio.
Un amalgama di globalizzazione musicale.

Non può essere quindi una coincidenza che le ultime sottoculture siano sparite in concomitanza con la diffusione di internet (quello a banda larga, perché cercare informazioni su Altavista con un 56k non fa testo). Ora i movimenti sociali e stilistici continuano a nascere ed esistere ma vengono subito proiettati in scala mondiale. Se prima ci volevano anni per un processo di normalizzazione, ora bastano poche settimane perché una proto-sottocultura passi dall’underground ad un video di Rihanna. E come i punk ci hanno insegnato, non c’è morte più certa per un genere del suo passaggio a mainstream.
Avete mai sentito parlare dei seapunk? Si tratta di un movimento che, come si deduce dal nome, si focalizza sul tema marino. Grafiche che sembrano gli screensaver di Windows 95, estetica subacquea e capelli in tinta acquamarina. I seapunk sono partiti da uno scherzo sui social e presto sono diventati un numeroso gruppo che popolava i rave party nei paraggi di Chicago. Con altrettanta velocità sono stati captati dal radar dei grossi produttori che hanno pescato a piene mani da questo stile, utilizzandolo per i loro artisti d’alta classifica tra cui il più clamorosamente ovvio è Azaelia Banks. Dopo questo affronto Zombelle, che si dichiara una dei fondatori del genere, ne dichiara immediatamente la morte su twitter.
In tempi così brevi non c’è la possibilità di svilupparsi, coinvolgere gradualmente nuovi adepti ed elaborare il proprio manifesto. Ciononostante i seapunk sono riemersi proprio quest’anno, in gran splendore di abiti da sirene e pirati, per protestare contro la BP a Londra.

Con internet sempre in tasca, accessibile grazie a strumenti più fighi di quelli che vedevamo in Star Trek da piccoli, ci siamo fatto prendere dall’entusiasmo. Ma cosa succederà con i nativi digitali? Quelli nati con il tablet in mano, per cui la tecnologia è scontata. Forse andranno a popolare un mondo distopico in stile Black Mirror, e alcuni di loro creeranno delle sottoculture di ribellione tornando alle relazioni offline.