Vitaliano Trevisan nella sua ultima fatica letteraria, Works, un memoriale piuttosto accidentato della sua vita professionale, alla domanda del futuro capo “hai voglia di lavorare?” risponde di sì e aggiunge, rivolto al lettore: «avrei sempre detto di sì, non perché abbia mai avuto davvero voglia di lavorare, ma semplicemente perché ho sempre avuto necessità di lavorare per nessun’altra ragione che per guadagnarmi da vivere punto». Chissà quanti tacciono il suo stesso pensiero e, pur controllando nervosamente l’orologio prima della pausa pranzo, si dicono nobilitati da quell’impiego che, a detta loro, racchiude ogni sogno e realizzazione personale. È proprio di tempo e pause pranzo che le undici donne di 7 minuti dibattono: scelte per rappresentare la classe operaia della fabbrica in cui lavorano, e che temono possa chiudere o essere ridimensionata nell’organico in vista dell’ingresso di un socio maggioritario straniero, si trovano a dover decidere se accettare, oppure no, di rinunciare a sette minuti della loro pausa pranzo. Inizialmente sorridono e festeggiano per una così piccola rinuncia – cosa sono in fondo sette minuti in confronto alla riconferma dei turni e del salario – ma Bianca (Ottavia Piccolo), la più anziana e saggia del gruppo, induce le compagne a riflettere sul vero valore di quei sette minuti, ben più importanti di quanto sembra. La protagonista si scontrerà proprio con quella necessità di lavorare che Trevisan esprime: faticare per portare a casa il salario di cui vivere, o meglio, sopravvivere.
Tratto da una storia vera, il film di Michele Placido, già spettacolo teatrale diretto da Alessandro Gassman e scritto, come anche l’adattamento cinematografico, da Stefano Massini, racconta il dubbio di undici lavoratrici: accettare oppure no le condizioni, seppur apparentemente favorevoli, del nuovo padrone. Chinare il capo significherà in qualche modo abbassare la guardia e creerà un precedente cui il padrone potrebbe appigliarsi per avanzare ulteriori richieste, sfruttando sempre di più la forza lavoro. Lotta di classe quindi o quantomeno un tentativo di ragionare sul proprio ruolo e di valorizzare il proprio operato: rappresentare il più umile elemento di un sistema industriale capitalistico non deve coincidere con una più facile sostituibilità. Le operaie della fabbrica lavorano bene e se la compagnia francese ha deciso di acquistare è anche grazie alla loro dedizione e alle capacità che esse hanno acquisito in anni di duro lavoro: non vengono infatti comprati i macchinari, ma l’intero sistema. Vite comprese.
Tratto da una storia vera, questo doppio lavoro teatrale e cinematografico, la cui unica interprete confermata è proprio la veterana Ottavia Piccolo, presenta una costruzione drammaturgica molto vicina, come dichiarato anche dallo stesso autore, al film La parola ai giurati di Sidney Lumet, di cui nel 2007 Nikita Mikhalkov realizza un remake. Quello che manca rispetto ai classici cui si ispira è la credibilità del meccanismo di convincimento attuato da quell’uno contro tutti: il cambio di opinione delle operaie appare infatti troppo repentino, costruito, poco reale. Ed è proprio la mancanza di realismo il vero limite di 7 Minuti che, pur inserendosi, nella corrente cinematografica dei film di denuncia sociale dei Dardenne o di Ken Loach, non riesce a nascondere allo spettatore l’esistenza, a monte, di un copione e di parole che vanno dette, o peggio, recitate. Il problema non sembra essere attoriale – le interpreti sono talentuose – bensì di scelte registiche poco coraggiose, convenzionali. Il film è ben confezionato, il montaggio serrato evita l’effetto noia che un impianto teatrale avrebbe potuto alimentare, manca però quel quid che il cinema-verità dovrebbe restituire. Placido è troppo preoccupato della bella forma, del primo piano pulito; ci presenta stacchi continui, a schiaffo, al limite del televisivo, e non osa invece adottare il punto di vista dell’occhio che spia, che il cinema dei Dardenne o di Loach predilige. La camera intesa insomma come uno spettatore interno alla vicenda, cui lo spettatore stesso si va a sostituire durante la visione; il completo dimenticarsi della macchina da presa mentre si assiste alla proiezione, uno sguardo registico morboso sul dolore che deve mostrarsi e non dimostrarsi come in una persecuzione universale dei protagonisti, prima da parte del sistema e poi da parte del regista stesso. In 7 minuti invece la macchina a mano viene utilizzata poco, così come i piani sequenza; troppi stacchi focalizzano la nostra attenzione sulle azioni e non sulle reazioni, sulle parole invece che sui silenzi. Infine la colonna sonora di Paolo Buonvino risulta troppo presente per il genere di riferimento e per la storia che si vuole raccontare.
Placido dirigere comunque un film dai risvolti sociali che grazie alla bravura delle interpreti – un plauso particolare va alla francese Sabine Timoteo – riesce ad avere una forte presa sullo spettatore, emozionandolo. Il prodotto appare anche molto più fruibile rispetto allo spettacolo in scena la scorsa stagione che, eccessivamente statico e con una regia fatta soprattutto di cambi di luce evocativi e di monologhi melodrammatici, toglieva la possibilità al pubblico di empatizzare con le protagoniste che da operaie parevano innalzarsi invece a personaggi da epopea.
Il film, proiettato al festival del Cinema di Roma, è uscito in sala il 3 Novembre e, nonostante alcune debolezze tutte italiane, merita di essere visto.