C’è un cinema italiano che è stato dimenticato o ridotto alla condizione di reliquia. All’opera di Elio Petri sono toccate entrambe le sorti, una dopo l’altra. Quasi fossero oggetti difficili da maneggiare, i suoi lavori suscitano ancora adesso un sentimento di fascinazione/repulsione, così compressi in un linguaggio visivo fatto di vertigini compositive e poco spazio per far respirare lo spettatore. Petri rappresentava nel cosiddetto cinema politico degli anni 70 quello che Bertolucci fu con Ultimo Tango a Parigi: uno scandalo.

I suoi film irritavano profondamente sia la destra che la sinistra, per il loro modo spiazzante di affrontare temi come il lavoro, il potere o il denaro. Nessuna linea di partito, Petri giocava un ruolo di outsider intellettuale muovendosi per certi versi su quel confine su cui lavorava lo stesso Pasolini in quegli anni. Non a caso le loro due opere terribili – Todo Modo per Petri e Salò o le 120 giornate di Sodoma per Pasolini – escono nello stesso anno (1976) e contengono la medesima carica apocalittica. Le due pellicole si richiamano per una serie innumerevole di aspetti. Entrambe liberamente ispirate a opere letterarie, ne prendono presto le distanze, sfruttandone la struttura e l’ambientazione per poi riempirle di un contenuto personale. Sia Todo Modo che Salò sono allegorie sulle perversioni del potere e sviluppano il tema attraverso un rigore estetico che confligge con la ferocia delle azioni descritte. Entrambi i registi optano per un’atmosfera luciferina e disturbante, fatta di segregazione, ordini, cerimonie e un sistema di punizioni.

L’azione si svolge in spazi chiusi, spesso claustrofobici, come le celle monacali: un universo concentrazionario e penitenziale isolato da un mondo esterno in rovina (in Salò c’è la seconda guerra mondiale, in Todo Modo una misteriosa epidemia). La comunanza poetica tra i due registi è più che una supposizione, tanto che Petri, in un’intervista con Aldo Tassone, in “Parla il cinema italiano” difende apertamente l’opera del collega Pasolini:
Tra gli ultimi film italiani mi è piaciuto il Salò di Pasolini, massacrato dalla critica che ha confuso il film con la vita di Pasolini, la cronaca e Von Krafft-Ebing, un fatto proprio da psicoanalisi. Il Salò secondo me è un film puro, in cui sono contenute le confessioni strazianti sui rapporti corruttori del vecchio con il giovane innocente, cioè tra il potere e le sue vittime. Torcere il naso, come molti hanno fatto, davanti alla merda di cioccolata di Pasolini senza pensare a quanta merda-merda s’è mangiata nella propria vita, facendo i film , i giornali, eccetera, mi sembra da schizofrenici.

Petri stesso era stato al centro di violenti dibattiti, come quello esploso nel 1971 durante il festival di Porretta Terme, alla presentazione del suo film La classe operaia va in paradiso, quando rappresentanze sindacali estremiste e una certa avanguardia del cinema militante chiesero che la pellicola venisse data alle fiamme. Eppure Petri era uno di loro, la sua scuola fu per le strade, nelle cellule del partito comunista, nei cantieri del genio civile, al cinema, al varietà, nelle biblioteche comunali, leggendo i giornali e le riviste di partito, nelle lotte dei disoccupati, anche a Regina Coeli o negli studi dei pittori coetanei, tra coloro insomma che venivano chiamati a quel tempo rivoluzionari di professione. La differenza è che Petri non accettava che il suo pensiero fosse soggetto a una disciplina di partito, finendo così automaticamente tra quegli artisti eretici come Carmelo Bene, artisticamente apolide e senza una scuola: i sintomi della migliore avanguardia. Ed è quella diversità ad attirare Gian Maria Volonté e Marcello Mastronianni, attori già affermati che nelle mani di Petri hanno sperimentato nuove forme interpretative, uscendo definitivamente dalla loro comfort-zone di attore di commedie borghesi per diventare modelli universali, maschere carnascialesche della dimensione politica o privata dell’uomo.
Nasce così il metalmeccanico Lulù tra alienazione e riscatto, il cittadino al di sopra di ogni sospetto o il potente democristiano alle prese con delitti e tentativi di conciliazione. Figure allo stesso tempo concrete ed emblematiche, mai limitate alla funzione di simulacri, ma incarnazioni ciascuno di un’idea o una visione del mondo.

C’è chi ha visto in Paolo Sorrentino e in particolare ne Il Divo tracce del cinema di Elio Petri, in particolare in quel suo modo di trascendere la rappresentazione del fatto storico/politico per parlare dell’uomo e del suo rapporto con il potere. A suo modo anche The Young Pope, la serie televisiva sempre diretta dal regista napoletano per HBO e Sky, contiene elementi petrini. Il papa interpretato da Jude Law è una forza oscurantista che arriva dal passato, è l’incarnazione di una forma di potere che esercita la sua tirannia su una corte costretta in un luogo chiuso, il Vaticano. Sorrentino condivide con Petri il gusto per l’eccesso, l’inquadratura espressionista e una carsica vena comica, che attraversa anche  le scene più drammatiche. Lo spaesamento è la chiave che contraddistingue il lavoro di entrambi i registi, interessati a indagare l’umano attraverso la lente del grottesco e il gioco delle maschere. Siamo forse giunti alla stagione adatta per una matura riscoperta del cinema di Petri: la sue narrazioni tra l’assurdo e il distopico non hanno nulla da invidiare alle più recenti serie televisive, come Black Mirror, intente a indagare il reale attraverso uno specchio deformante.