RAR_Le storie che i libri creano con altri libri: è un progetto letterario e artistico che lavora sul concetto di analogia portando alla luce legami tra opere di autori differenti, anche al di là delle storie che le opere stesse raccontano.
Le recensioni di RAR usano un metodo basato sul confronto di testi, che vengono intrecciati tra loro, come se fossero capitoli di una stessa Storia, che travalica le trame e gli autori. Come se si volesse creare un unico grande libro.


Il testo a seguire azzarda che nella stesura dell’Amante di Wittgenstein, da qualche mese uscito in Italia per Edizioni Clichy, il suo autore, David Markson, abbia messo in atto un esercizio analogo a quello di RAR: adottare, cioè, la chiave di un libro per leggerne un altro e che, nello specifico, per imbastire la storia, o meglio, forse, il mémoir di Kate, l’amante citata nel titolo e protagonista indiscussa, Marskon si sia mosso tra le proposizioni del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein – menzionato anch’egli nel titolo – con lanci qua e là verso le Ricerche filosofiche.

Inoltre, visto che i libri li ha scelti Markson, l’azzardo prosegue cercando di individuare quale sia una possibile relazione. Perché una relazione è necessaria, e una relazione è un nesso[1] tra oggetti (entità o cose), o uno stato di cose, quindi: un fatto, per parafrasare le primissime proposizioni del Tractatus.

 

Più nel dettaglio si prenderà in esame un possibile percorso di lettura all’interno dell’Amante di Wittgenstein e per farlo si evidenzieranno alcune pagine, oscurandone altre; ci si muoverà sotto la guida dei continui, e ridondanti, riferimenti a nomi soprattutto di altri autori o artisti o compositori, per citare i più abbondanti e riconoscibili, che costellano il volume nella sua interezza. Anche questa volta la scelta non sarà arbitraria ma dettata da Markson stesso, e da Kate.

Probabilmente, prendendo a prestito le parole di Bertrand Russell dell’Introduzione al Tractatus, i nomi degli autori sono innumerevoli e vengono preferiti perché «il primo requisito d’un linguaggio ideale – e Wittgenstein si occupa delle condizioni di un linguaggio logicamente perfetto – è che vi sia un unico nome per ogni entità semplice, e che non vi sia mai lo stesso nome per due differenti entità semplici» (p. 5), e questa univocità sembra sodisfatta da nomi siffatti e cose siffatte. Soprattutto quando si tratta di nomi propri e famosi. Quest’ultimo aggettivo ha infatti non poche occorrenze nell’Amante di Wittgenstein e rende ancora più specifici, se possibile, dei segni che prendiamo per segni semantici primitivi, la cui primitività consiste proprio nel fatto che il loro significato coincida con il loro referente e che siano, dunque, «elementi non ulteriormente analizzabili in altri termini»[2]. Correntemente potremmo dire che questo essere famosi rende ancora più precisa la comune formula identificativa, o definitoria, nome e cognome; più inequivocabile l’abbinamento del nome e della persona cui si riferisce. Oltretutto, l’alta frequenza con cui i nomi propri e famosi sono presenti e accostati, paragrafo dopo paragrafo – andamento della scrittura che ricalca quello del Tractatus – rafforza la centralità di tale accoppiamento; evidenzia che si sta parlando di uno specifico insieme di persone.

Perché questa condizione rimanga stabile il più possibile, almeno teoricamente, Markson sceglie il passato come epoca storica, dove ciò che è stato non può subire mutamenti. Un’epoca idealmente perfetta che deve però, inequivocabilmente, confrontarsi con la memoria; è così che si chiama il passato nella mente di Kate, di cui il L’amante di Wittegenstein è un’incessante soggettiva. Ed è qui che si installa paradossalmente la prima crepa nel tentativo di rendere, fuori di interpretazione, ciò che accade, o meglio: accadeva.

“Paradossalmente” perché il meccanismo selettivo della memoria – che assomiglia per frammentarietà alla scrittura, e al linguaggio – porta a distorcere e cucire insieme avvenimenti e/o dettagli, dando una visione del mondo spezzettata, e selezionando ciò che va riferito, distinguendo ciò che viene alla mente da ciò che rimane in sottofondo, o dimenticato.

I fatti evocati da Kate recuperano sia conoscenze acquisite – come quando racconta di Omero, di Rembrandt o di Maupassant – sia ricordi personali – dalla casa sulla spiaggia alla libreria contenente un libro sulla vita di Brahms, alle visite ricevute nel suo loft a SoHo – ed entrambi pescano in un bacino che Kate stessa conserva in sé disponibile. In questa custodia e nella ricerca di un accordo con le proposizioni di W. posizioniamo il motivo della sua dichiarazione «ovviamente per un certo periodo non sono stata in me, all’epoca», che troviamo sùbito dalla prima pagina dell’Amante di Wittgenstein. Per il Tractatus il mondo non può essere concepito come un tutt’uno ma soltanto come un insieme di cose di cui altrimenti non sarebbe possibile parlare, se non standone fuori; Kate, in veste di portavoce, pone la questione da un punto di vista personale: come è possibile parlare di me e di ciò che è in me, se me – cioè una cosa, un’entità – è un tutt’uno logicamente? Me, rifacendosi a sopra, è un’entità primitiva, e quindi non analizzabile in parti più piccole, tanto quanto tutte quelle entità dai nomi propri e famosi che affollano le pagine di Markson. Me è una parte del mondo e, insieme, un microcosmo. “Il mondo e la vita sono tutt’uno” e “Io sono il mio mondo” sono due proposizioni concatenate del Tractatus, da cui deriva che la nostra amante non potrebbe parlare di ciò che ha in sé, se non allontanandosi da sé per un certo periodo. L’allontanamento dato, appunto, dal passato. Kate si è posizionata al limite del suo mondo, fino all’istante in cui può dire, e si è voltata indietro verso la sua vita passata. Probabilmente, come accennato nella prop.  5.631 del Tractatus, Wittgenstein intitolerebbe un libro sulla sua vita Il mondo, come io l’ho trovato, e forse il passato, e l’estraniarsi dalla propria persona, se poste come condizioni di esistenza del suo mondo, gli permetterebbero di riferire anche di sé.

 

Un meccanismo analogo e insieme contrario, quasi una prova del nove, si mette in opera quando Kate racconta, a più riprese, di Maupassant e della sua decisione di andare ogni giorno a pranzare all’interno della Tour Eiffel per riuscire a eliminarla dal panorama parigino: stare all’interno della torre simbolo di Parigi era l’unico modo per Maupassant di non averla davanti agli occhi, come invece gli accadeva in qualunque altro luogo della città si trovasse. In un certo qual modo, parafrasando Wittgenstein (prop. 5.633, 5.6331), l’occhio non entra nella visuale di chi guarda; così, posizionando la torre nello stesso posto dell’occhio, Maupassant aveva risolto il suo dramma. La coincidenza tra queste due cose – Maupassant e la Tour Eiffel – rendeva la reciproca percezione nulla. Maupassant aveva trovato il modo di essere un tutt’uno con essa, rendendo impossibile la sua presenza – quella della torre – di fronte a lui. In altre parole aveva annullato quella distanza che Kate reclama quando sostiene che per un certo periodo non è stata in sé.

Markson insiste sull’argomento, tanto quanto lo si dovrebbe fare con una condizione che non va dimenticata; tanto che Kate si domanda: «Ovunque li si posizioni, come fanno due oggetti a essere altrimenti che equidistanti?» (p. 107). I due oggetti per restare due devono mantenere una distanza[3].

Questo discorso dell’equidistanza, così chiaro nel caso del pranzo di Maupassant, diventa una catena[4] quando Kate parla di Socrate, di Platone, di Aristotele, ed è infittito quando le cose, o le entità in gioco si moltiplicano rispetto a un’unica relazione: essere allievo di.

«Solo fra quelli che sono stati menzionati in queste pagine, Platone l’allievo di Socrate, Aristotele l’allievo di Platone e Alessandro Magno l’allievo di Aristotele […] sono tre allievi che di certo sono diventati famosi» (157). Non a caso fanno compagnia agli illustri qui citati, anche, ad esempio, Ludwig Wittgenstein allievo di Bertrand Russell (73), o Carel Fabritius allievo di Rembrandt (161).

Di più, il meccanismo[5] si reitera ne L’amante di Wittgentsein almeno fino a quando qualche allievo non solo non diventa famoso, ma a un certo punto cambia totalmente strada, oppure quando qualcuno, come Claude Lorraine, che era fornaio, decide di abbandonare la bottega e diventare pittore. Kate sottolinea ancora una volta quanto essere famosi sia il requisito prescelto a supporto dell’unicità, della referenzialità diretta: della possibilità per il nome di toccare la realtà (prop. 2.1515).

Il fornaio certo che ritorna, ma nella vita di Vermeer che, a causa della sua totale indigenza, fu costretto a pagargli il pane con dei quadri, sebbene probabilmente entrambi fossero già morti, quando i quadri iniziarono a valere soldi, non pane. Destino condiviso, tra l’altro, con Vincent Van Gogh che «riuscì a vendere un solo dipinto mentre era in vita», e Botticcelli che verso la fine della sua esistenza «era indigente e viveva della carità altrui», e Paolo Uccello «che morì povero e dimenticato» (159).

Questo duplice discorso trova un’ulteriore sviluppo – e una seconda crepa – quando Kate afferma: «Lo trovo interessante, quando maestri e allievi fanno cose simili» (174). Simili, aggiungiamo, perché sono ancora equidistanti; perché l’allievo non ha ancora raggiunto il maestro tanto quanto Achille non ha raggiunto la tartaruga (173), per usare un esempio di Markson, sebbene Achille abbia però raggiunto Ettore di Troia, chioserebbe Kate in un immaginifico botta e risposta tra autore e personaggio; a meno che la tartaruga sia quella finita sulla testa di Eschilo scambiata erroneamente per una pietra, continuerebbe il primo. Errore che la stessa Kate ha commesso, di natura diversa, ma sempre errore, pagine addietro imputando i paradossi di Zenone ad Archimede, o confondendo Vincenzo Bellini con Giovanni Bellini per via del cognome (122), o Vincenzo Bellini con Gaetano Donizetti per via della vocazione (128).

Cosa succede quando l’equidistanza non c’è più, quando c’è una sovrapposizione, e cioè ciò che si tramanda da maestro ad allievo è ciò che si tramanda di allievo in allievo: quando ci sono, cioè, solo allievi: «e avanti fino all’ultimo allievo di un allievo che aveva come allievo» (p. 168) si scelga liberamente chi tra i nomi propri e famosi di L’amante di Wittgenstein; o, al contrario, cosa succede quando la relazione si cristallizza in un maestro primigenio fino all’ultimo degli allievi, come ipotizza Kate: «William de Kooning è di fatto stato un allievo di Rembrandt» (p. 169)?

Probabilmente si finisce nella testa di Kate, o nella nostra, o a mangiare con Maupassant nella Tour Eiffel. O in un mondo ideale, dove una realtà da toccare non c’è più.

Wittgensteing scrive: «L’oggetto è il fisso, il sussistente; la configurazione è il vario, l’incostante», prop. 2.0271.

Ma se l’oggetto è fisso, e i nostri sono oggetti fissi, fanno parte degli oggetti semplici, inscindibili, come la mettiamo con la scomparsa di questi oggetti, come la mettiamo con la morte di tutti questi referenti scelti nel passato perché immutabile?

Con Kate (e Markson), sebbene lei abbia cercato di rendere il più possibile lo spazio fissato, ancorando i fatti al passato, ci si trova contro la lacunosità della memoria, la fallacia psicologica, che è altro dalla logica. A volte sembra di smarrirsi nel percorso, nella descrizione di ciò che è stato. In alcuni punti le condizioni tracciate dal Tractatus lasciano dubbi, che troveranno poi risposta nelle Ricerche. Dei dubbi, che ripensando a una battuta del Wittgenstein dell’omonimo film di Derek Jarman, scaturiscono da un credo iniziale; dei dubbi che hanno bisogno di un credo alle spalle. A p. 72 Kate dice «Non c’è dubbio che una volta anche Brahms sia stato allievo».

Qualche paragrafo sopra abbiamo detto che la scelta dei nomi propri e famosi, cui si aggiunge il chiarimento di tipo contestuale che l’aggettivo famosi fornisce al tipo di cose che questi nomi raffigurano, sono tutti elementi che da una parte corroborano la teoria raffigurativa del Tractatus, la quale dice sul referente, proprio in virtù della tipologia di nomi semanticamente primitivi, che questo è il caso in cui ci muoviamo nella realtà; dall’altra, però, proprio questi nomi fanno dubitare che la relazione nome-referente sia esaustiva.

 

Kate, e qui arriviamo verso la fine anche del nostro percorso, a un certo punto del libro, inizia a parlare di una lettera, spedita identica a più persone dai nomi propri e famosi e, nell’elencare i destinatari, a volte ha dei dubbi sull’effettivo invio della lettera, perché non si ricorda se fossero morti all’epoca, o se lei, al contrario, fosse al corrente della loro morte (234-5). E la morte nella griglia del Tractatus è logicamente interruzione del legame nome-referente, nel senso specifico per cui l’esistenza del referente dà significato al segno linguistico; mentre nella griglia delle Ricerche Wittgenstein smentisce questa interruzione. Letterariamente si potrebbe dire che si è passati da una mortalità a un’immortalità, ma delle parole. Non si esige più l’immortalità delle cose, ma delle parole e dei concetti, dei segni semantici tutti, di cui gli oggetti sono esempi.

Misticamente, infine, si potrebbe dire che si è passati dal problema della mortalità di un’entità all’ininfluenza della mortalità di un’entità, il che, per qualche via, riabilita anche la memoria di Kate.


wittgensteinDavid Markson, L’amante di Wittgenstein, Edizioni Clichy, Firenze 2016, 320 pp. 15€

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logicus-philosophicusQuaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 2009, 270 pp. 25€


 

[1] Ibidem, prop. 2.01: Lo stato di cose è un nesso d’oggetti (entità, cose).

[2] Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche, Alberto Voltolini, Editori Laterza, 2003, p. 25.

[3] “Nessuna proposizione può enunciare qualcosa sopra se stessa, poiché il segno proposizionale non può essere contenuto in se stesso (ecco tutta la «theory of typer»)”, prop. 3.332.

[4] “Nello stato di cose gli oggetti sono interconnessi, come le maglie di una catena”, prop. 2.03.

[5] “Nello stato di cose gli oggetti sono interconnessi come le maglie di una catena”, prop. n. 2.03; “Nello stato di cose gli oggetti sono in una determinata relazione l’uno con l’altro”, prop. 2.031.