Il sottotitolo Quando la fotografia parla alle coscienze segna il territorio di interesse della settima edizione del Festival della Fotografia Etica, in corso a Lodi nei sabati e nelle domeniche fino al 30 ottobre prossimo. Territorio dunque ampio, aperto a una molteplicità di esperienze rappresentative, sia a livello tematico sia a livello dei linguaggi adottati da ognuno degli autori. Sono sette i luoghi della città, alcuni architettonicamente notevoli, destinati a sedi espositive, in cui si articolano le sei sezioni del festival per un totale di diciotto progetti fotografici di altrettanti autori; a questo percorso si affiancano, per il visitatore davvero infaticabile, le trentasette esposizioni del Circuito Fuori Festival: il pieghevole riassuntivo e la mappa dei punti espositivi, a disposizione dei visitatori, sono al cospetto di tanta abbondanza un bene di prima necessità. Esplorando le proposte del festival si colgono dunque molti e diversi stimoli e motivi di riflessione. Il che non necessariamente corrisponde alla sensazione di un intreccio quasi babelico di discorsi.

C’è infatti, in primo luogo, lo spazio in cui fare esperienza di un prodotto documentario e artistico di grande portata emotiva, come A Life In Death, la narrazione che la fotografa Nancy Borowick fa della vicenda dei suoi genitori, Howie e Laurel, entrambi e contemporaneamente ammalati di cancro. Opportunamente esposto in una sede autonoma, il progetto dispone in ordine cronologico immagini della vita dell’uomo e della donna, protagonisti delle fotografie, sempre più frequentemente impegnati nelle pratiche della cura e sempre più profondamente segnati dalla malattia. Ne deriva un vero e proprio romanzo fotografico in bianco e nero, intimo e calorosamente intenso, per quanto inevitabilmente doloroso.

Le singole fotografie sono i suoi capitoli: i due seduti affiancati a ricevere i farmaci dalle flebo disposte simmetricamente, l’abbraccio ritratto di spalle in una piscina dopo un ciclo di cure, i particolari dei due corpi con i segni delle asportazioni dei tumori; ma anche la felicità intima della coppia che riceve, nella sua casa, buone notizie intorno ai benefici (temporanei) delle rispettive terapie, e la sua presenza al matrimonio della figlia. A questo momento pubblico festoso seguono, nella prosecuzione della narrazione, quelli malinconici dei due funerali, rappresentati in due scatti in cui l’autrice replica la stessa inquadratura degli intervenuti alla cerimonia, che sono ritratti dalla prospettiva dell’officiante il rito e dunque in secondo piano rispetto alla bara che compare nella fotografia, ravvicinata, segnandone la base: due fotografie che si richiamano a distanza, quasi uguali, fatta naturalmente salva l’assenza di Laureal nella seconda, che invece era in prima fila al congedo dal marito. Il ritratto della casa ormai svuotata degli oggetti delle due vite porta l’osservatore alla conclusione del percorso, all’epilogo del racconto.

E ancora attraverso elementi della lettura di narrativa sembra possibile interpretare alcuni passaggi che interrompono il regolare filo della documentazione, che l’autrice produce di norma attenendosi rigidamente al discreto posizionamento dietro la macchina fotografica: accade ad esempio con l’immagine di lei, distesa su un lettino ospedaliero dopo essere svenuta per la vista del sangue dei suoi genitori sottoposti alle cure che dovevano essere l’oggetto di un nuovo scatto. La fotografia produce sull’osservatore un effetto paragonabile a quello della classica caduta della quinta tra la dimensione interna alla narrazione e lo spazio di lavoro dell’autore reale; si riporta così la figura di Borowick all’attenzione dell’osservatore e lo si induce a una riflessione sulla scelta di lei di assistere e narrare pubblicamente per immagini un frangente delle esistenze dei genitori e sua tanto impegnativo e doloroso, con una profondità tale da farne – anche per effetto dell’assolutezza coloristica dei bianchi e dei neri – una sorta di meditazione sulle idee stesse della vita, della morte e degli affetti.

Howie calls these “his and hers” chairs. He sits beside Laurel, his wife of thirty-four years, as they get their weekly chemotherapy treatments, side by side at Oncologist Dr. Barry Boyd’s office. Greenwich, Connecticut. January, 2013. © Nancy Borowick

Howie calls these “his and hers” chairs. He sits beside Laurel, his wife of thirty-four years, as they get their weekly chemotherapy treatments, side by side at Oncologist Dr. Barry Boyd’s office. Greenwich, Connecticut. January, 2013. © Nancy Borowick

Howie and Laurel Borowick embrace in the bedroom of their home. In their thirty-four year marriage, they never could have imagined being diagnosed with stage-4 cancer at the same time. Chappaqua, New York. March 2013. © Nancy Borowick

Howie and Laurel Borowick embrace in the bedroom of their home. In their thirty-four year marriage, they never could have imagined being diagnosed with stage-4 cancer at the same time. Chappaqua, New York. March 2013. © Nancy Borowick

Rispetto alla modalità di fruizione, lenta e riflessiva, richiesta da A Life In Death, una grande parte delle altre esposizioni proposte dal festival fa appello, nell’osservatore, a una certa idea di rapidità. Ampiamente rappresentato il genere del fotoreportage, che per immagini significative e spesso drammatiche, esplora situazioni marginali e realtà violente: Suburbia di Arnau Bach, ad esempio, è un viaggio nei ghetti periferici di Parigi condotto appunto attraverso scatti rapidi, rubati allo svolgersi frenetico e sfrangiato della vita di quelle strade; anche il brasiliano André Liohn, nel suo lavoro Revogo, illumina con il flash delle propria macchina fotografica schegge, alcune di una crudezza che ferisce, della violenza che dilaga tra gruppi di giovani brasiliani.

E ancora la luce, come scelta tecnica compiuta dagli autori nel proprio fotografare, può essere assunta come strumento interpretativo e prestarsi a un discorso unitario su alcuni dei progetti presentati nel festival. L’uso del flash di Peter Van Agtmael, che racconta per immagini riti e vite di alcuni membri del Ku Klux Klan, determina nelle fotografie un effetto che richiama l’esito di certi scatti amatoriali: con il soggetto eccessivamente illuminato e la perdita della luce d’ambiente. In questo modo l’autore fa balzare impietosamente all’occhio i tratti, piuttosto squallidi, di queste situazioni, a cominciare dalla stoffa sintetica, e riflettente, di pessima qualità con cui gli iniziati confezionano le proprie vesti; e smaschera come artefatte le messe in scena rituali del rogo della croce, a cui solo la luce delle fiamme sullo fondo notturno conferirebbe un qualche effetto scenografico. Alla base di ciò che resta del movimento nazionalista bianco e dei suoi deliri razzisti – ci rivela questo lavoro – rimangono oggi soprattutto pochezza umana e culturale; così come è frutto di una manualità molto poco educata la scritta a sostegno di Donald Trump, realizzata con asticelle di legno nel giardino di un aderente al clan. Che poi Trump sia realmente candidato alle prossime elezioni presidenziali USA è un fatto preoccupante per altri versi (si veda il lavoro Political Theatre di Mark Peterson).

2015. Tennessee. USA. The wedding of two members of the KKK in a barn in rural Tennessee. © Peter Van Agtmael/Magnum Photos

2015. Tennessee. USA. The wedding of two members of the KKK in a barn in rural Tennessee.
© Peter Van Agtmael/Magnum Photos

Tornando al discorso sulla luce, è dominante il bianco in Days of nights – Nights of days della fotografa russa Elena Chernyshova, dedicato alla vita quotidiana degli abitanti di Norilsk, città nell’estremo nord della Russia, fondata come un gulag sovietico e poi convertita, nelle intenzioni, a modello ideale di centro minerario e industriale. È una luce algida quella dell’esterno, filtrata dalle nebbie gelate e dai fumi inquinanti delle industrie, e lo è altrettanto quella artificiale degli interni, squallidi quelli privati e aderenti alla magniloquente sintassi architettonica sovietica quelli pubblici. Domina la freddezza in questi scatti, e nulla del calore, fisico e astratto, necessario alla vita hanno tenuto in conto gli estensori del progetto della città prigione e fabbrica Norilsk.

È interessante infine osservare come ancora gli effetti della luce siano impiegati in un altro progetto dedicato alla Russia, Pobeda del fotografo italo-marocchino Karim El Maktaf, che indaga il dietro le quinte e il contesto delle celebrazioni annuali della vittoria sovietica sui nazisti (fatto oggetto del lavoro è in particolare il recente settantesimo anniversario). La scenografia allestita vede l’ostensione di bandiere e simboli sovietici e l’esibizione delle storiche divise verde militare con appuntate numerose stelle rosse. L’illuminazione delle immagini è condotta a ricercare un effetto di luce soffusa, tenue, come quella delle vecchie fotografie istantanee: un linguaggio che cita dunque il passato, per rappresentare una parata che nel 2015 appariva ampiamente esangue e superata dalla storia.

È questo, del livello formale delle immagini, solo uno dei possibili fili che il visitatore può individuare e seguire nel suo personale percorso per il festival e per il centro della città di Lodi: ci si potrebbe ad esempio lasciare condurre da un criterio geografico tra i temi e gli autori presentati.

Una delle mete senz’altro suggerite, in ogni caso, sono i ritratti di Waiting Girls di Sadegh Souri, uno dei quali è assunto a immagine di copertina di tutto il festival. Il lavoro del giovane fotografo iraniano indaga il tema della carcerazione femminile nel proprio paese di origine, tra casi di detenzione minorile e storie destinate a concludersi con la pena di morte. La scelta autoriale è quella di personalizzare le singole storie esemplari, associando alle immagini in bianco e nero (che bene sottolineano il monocromatismo degli abiti neri imposti alle donne) didascalie che presentano le donne ritratte. Di alcune vediamo le figure intere sullo sfondo del carcere, di altre osserviamo alcuni particolari minimi: le mani che stringono i vassoi del pasto, i piedi infilati in esili calzature. Il lavoro di Sadegh Souri ha meritato il primato nella sezione Short Story Award, e un posto di rilievo in questa edizione del Festival della fotografia etica che si propone, in molti casi con successo, di inquietare le coscienze del pubblico.

Already 6000 years ago, the rich deposits of the region attracted people, whose traces of passage were indemni ed by archeologists. But the real story of Norilsk starts at the beginning of the 20th century, when the expedition of geologist Urvantsev found out rich deposits of nickel, copper and cobalt. In 1936, USSR started the construction of a metallurgical complex and the city. This heavy work in the extreme conditions of the North was made by the priso- ners of Gulag, working in inhuman conditions. The mines, factories and the big- gest part of the contemporary city were constructed by forced labor workers. During 20 years about 600 000 prisoners, from which thousands have lost their lives, labored in Norilsk for its construction and operation. On the photo are the ruins of the house of Culture in the settlement Medvejii rucjei. This settlement was one of the rst habitations of Norilsk and was constructed on the part of Gulag in 1956 just near the open mine Medvejii ruchei. In the nineties, this settlement was closed due to maintenance dif culties and the complexity of its infrastructure. Its inhabitants were moved in the new quarters of Norilsk. © Elena Chernyshova

Already 6000 years ago, the rich deposits of the region attracted people, whose traces of passage were indemni ed by archeologists. But the real story of Norilsk starts at the beginning of the 20th century, when the expedition of geologist Urvantsev found out rich deposits of nickel, copper and cobalt.
In 1936, USSR started the construction of a metallurgical complex and the city. This heavy work in the extreme conditions of the North was made by the priso- ners of Gulag, working in inhuman conditions. The mines, factories and the big- gest part of the contemporary city were constructed by forced labor workers. During 20 years about 600 000 prisoners, from which thousands have lost their lives, labored in Norilsk for its construction and operation. On the photo are the ruins of the house of Culture in the settlement Medvejii rucjei. This settlement was one of the rst habitations of Norilsk and was constructed on the part of Gulag in 1956 just near the open mine Medvejii ruchei. In the nineties, this settlement was closed due to maintenance dif culties and the complexity of its infrastructure. Its inhabitants were moved in the new quarters of Norilsk.
© Elena Chernyshova

The girls wait for long hours in the queue for food. © Sadegh Souri

The girls wait for long hours in the queue for food. © Sadegh Souri

 

Settima edizione del Festival della Fotografia Etica – Lodi, 8-30 ottobre 2016.

Immagine di copertina: Mahsa is 17. She falls in love with a boy and intends to marry him, but her father is against the marriage. One day she has an argument with her father, and she and her mother decide to kill the father. Mahsa kills her father with a kitchen knife, and now her brothers are requesting death penalty or lex talionis for her and her mother. © Sadegh Souri