Inizio a rispondere ad alcune domande fondamentali: Sì, Il paradiso degli animali è davvero un bel libro; sì, la traduzione in italiano di Gioia Guerzoni è ottima e sì il testo è decisamente ben curato da NN Editore. Sì. Se poi vi capitasse di incontrare David James Poissant capireste perché avete fatto male a non alzarvi dal divano gli scorsi giorni quando è passato in Italia: oltre a essere un ottimo autore è una persona squisita, gentile, disponibilissima e simpatica. Nonostante il tour de force di presentazioni cui si sta sottoponendo in questi giorni (Parigi, Venezia, Milano, Palermo, Ginevra) e nonostante il caldo opprimente di Milano lo scrittore non si è risparmiato né nel rispondere alle domande dei blogger invitati nel pomeriggio dall’editore né nella presentazione serale.

Ma partiamo dal libro. Il paradiso degli animali è una raccolta di racconti in cui gli animali c’entrano certo, ma in cui c’entrano soprattutto gli esseri umani, coi loro difetti, coi loro problemi, con le loro vite. I racconti sono ambientati negli U.S.A. naturalmente, in particolare Poissant sottolinea l’importanza dell’ambientazione nella sua scrittura: le storie sono tutte di invenzione ma i luoghi sono tutti veri. Non solo luoghi veri ma luoghi in cui l’autore è stato, compreso il Big Bone Lick State Park (non tradurrò il doppio senso sul leccare il grande osso) del racconto L’ultimo dei grandi mammiferi terresti. In questo modo l’ambientazione ricopre un ruolo importante mantenendo la narrazione saldamente nella realtà e allo stesso tempo sottolineando quanto di irreale ed evocativo ci sia nel nostro mondo: luoghi in cui si tiene un alligatore in gabbia in giardino, pesci gatto grandi tanto da mangiare bambini, sottotetti pieni di scoiattoli, alberghi che ospitano un gigantesco mostro di Gila chiamato Ted come mascotte. Racconti che arrivano dal sud degli Stati Uniti, dai luoghi cari all’autore (nato e cresciuto in Georgia) ma racconti che non hanno nient’altro a che fare con la biografia dell’autore a parte i luoghi. Lo scrittore, infatti, racconta come non parli mai della sua vita che definisce noiosa, divisa tra insegnamento scrittura e famiglia (ha moglie, due figlie e un cane), niente autofiction qui solo vera narrazione di finzione.

Per quel che riguarda i temi mi aveva colpito molto come in questi racconti i personaggi fanno sempre qualcosa di sbagliato oppure quantomeno credono di averlo fatto. Azioni inconsulte, azioni omesse, gesti fatti senza pensare o pensando per poi pentirsene subito. Colpa e senso di colpa. In questo modo uno dei principali motivi dell’azione è il tentativo dei personaggi di redimersi, di arrivare al perdono, di aggiustare le cose che si sono rotte. Vale per Dan che con un gesto violento di cui si pente subito distrugge la sua vita e inseguirà il perdono di suo figlio; per Cam che non ha perdonato suo padre in tempo; per Brig che si sente in colpa per aver perso il gatto affidatogli della vicina ma forse anche per aver perso molto di più; e avanti così passando per il protagonista di What the Wolf Wants che si porta la colpa di aver fatto lo stronzo con il fratello ormai morto. Quindi la colpa e il perdono, il perdono che però non arriva mai. Già, non arriva mai e questo aumenta il senso di ansia del lettore.

Del resto il titolo della raccolta è preso in prestito da una bellissima poesia di James L. Dickey, una poesia bellissima ma anche terribile perché nel paradiso degli animali chi è predatore continuerà a predare ma le prede continueranno a essere prede senza poter fare altro se non «fulfilling themselves without pain». Insomma un’idea abbastanza inquietante di accettazione del proprio destino.

Così, avendo l’occasione di parlare con Poissant, non ho potuto non chiedergli prima di tutto e con una certa apprensione se c’era speranza, se per i suoi personaggi pasticcioni colpevoli codardi generosi sfigati ci fosse speranza. E nelle sue parole il punto di vista cambia: i suoi personaggi si muovono da qui, dalle loro colpe, dalle loro imperfezioni certo, ma provano ad andare oltre, a ottenere il perdono, ad andare avanti espiando e cambiando. Forse non ci arrivano, forse non ci possono neanche oggettivamente arrivare, ma ci provano e combattono. Ci provano e lasciano spazio alla speranza. «Under the tree/they fall, they are torn/they rise, they walk again». Poissant crea un ritratto realistico delle fatiche della vita, delle stronzate che possiamo fare, dello sforzo che facciamo per provare a rimediare alle stesse, degli insuccessi che raccogliamo; insomma della continua lotta che conduciamo tutti i giorni per vivere anche se a volte senza speranza di riuscita.

Dopo questi discorsi impegnati abbiamo parlato di altro, per esempio gli abbiamo chiesto come si sentiva a venire paragonato a nomi come Flannery O’Connor, George Saunders, Raymond Carver, fino a Anton Čechov. Sono cose che capitano, quanti nuovi Maradona abbiamo visto? Quanti nuovi Michel Jordan? Quanti sono stati schiacciati da questo peso? Non succederà mai, ma se qualcuno mi dovesse paragonare a Čechov probabilmente impazzirei oppure reagirei come lo stesso Čechov quando fu confrontato a Tolstoj e a Gogol: smetterei di scrivere. Poissant, invece, vive la cosa in maniera tranquilla ed equilibrata e ha risposto com’è giusto con un equilibrio ammirevole: che è lusingato dai confronti ma va per la sua strada, che non ci pensa quando scrive, che quando scrive pensa a scrivere al meglio.

Abbiamo parlato di molte altre cose in questa chiacchierata pomeridiana ma anche dopo la presentazione serale del libro con un calice di vino in mano che, si sa, concilia la conversazione: quanto è difficile dare un ordine a una raccolta di racconti? Tantissimo e l’editore in questo deve essere fondamentale, in particolare nel suo caso gli ha chiesto di aggiungere tutto il materiale che aveva nel cassetto a scapito della scelta più ristretta fatta dall’autore inizialmente. Ma anche: influirà Donald Trump sul mondo della narrativa statunitense? No, i giornalisti dovranno affrontare il problema direttamente mentre per gli scrittori non cambierà molto, senza contare che difficilmente gli elettori di Trump leggono un certo tipo di letteratura. Serie tv preferita? True detective. Poeti preferiti? Dickey (ça va sans dire), ma anche Walcott. Poi abbiamo parlato anche in ordine sparso di Fargo, di Frances McDormand, di Elizabeth Strout, di doppiaggio, di serie televisive ancora, di Stranger things.

Aspettando fiduciosi il romanzo cui sta lavorando, credo che rimanga soltanto da ringraziare James David Poissant per la disponibilità certo, ma soprattutto per la cura con cui indaga l’essere umano comune e i suoi meccanismi. Ho sempre pensato che tra tutti gli scrittori quelli che ci aiutano a scoprire cose sul nostro essere umani siano quelli cui dobbiamo più riconoscenza.