Le serie tv sono un’arte del tempo come forse nessuna arte lo è mai stata prima d’ora. Proprio per questo le serie tv fanno del tempo, ossessivamente, il loro tema preferito. Il viaggio nel tempo è infatti un motivo ricorrente nelle narrazioni televisive (da Lost a Heroes, da Life on mars a Misfits) e anche nelle serie non fantascientifiche questo elemento affiora implicitamente attraverso intere puntate-flashback che esplorano il passato dei personaggi. Considerando quanto detto, Stranger things si può definire il più ambizioso viaggio nel tempo mai rappresentato da una serie televisiva, perché a viaggiare in un’altra epoca non sono i personaggi, ma gli spettatori.
Netflix scopre nei Duffer Brothers due autori sorprendenti in grado di sintetizzare, attraverso un raffinato medley di film cult, l’intero immaginario di una generazione, i cosiddetti millennials nati negli anni ottanta e cresciuti a walkman, videocassette e la migliore fantascienza che sia mai stata prodotta. L’uscita estiva della serie, nella migliore tradizione del genere horror, faceva presagire un prodotto di serie b, nient’altro che un revival della serie Piccoli Brividi che intrattenesse i fan del binge watching prima delle grandi uscite autunnali. In pochi si aspettavano di ritrovarsi di fronte a uno spettacolo ipnotico per cura del dettaglio e manierismo visivo. Stranger things si è rivelato essere un lavoro dalla forma perfetta, spietato meccanismo evocativo per intere schiere di giovani adulti desiderosi di tornare a un passato che non hanno mai davvero vissuto.

La storia inizia con quattro ragazzini che giocano a Dungeons & Dragons in una tavernetta: uno di loro non farà mai ritorno alla propria abitazione. Mentre la comunità cerca il ragazzino scomparso, entra in scena una misteriosa bambina coi capelli rasati e dagli incredibili poteri. Tra colpi di scena, tensione e momenti divertenti, lo spettatore giungerà a scioccanti rivelazioni e alla scoperta di nuovi confini, in uno stile narrativo che richiama il cinema di Spielberg e il filone avventuroso di Stephen King.
Citazioni, richiami e veri e propri calchi si fondono senza appesantire la trama, evitando facili ammiccamenti. Il lavoro dei Duffer Brothers (coetanei dello spettatore-target a cui si rivolge lo show) consiste nello strutturare una trama solida quanto lineare, affidandosi a un’eccellente recitazione degli attori e a un ecosistema di richiami filmici che si auto-genera ininterrottamente. Poco importa infatti quante e quali siano le pellicole rievocate (le principali sono ET, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Alien, Firestarter e Goonies), il risultato è un diorama cinematografico costruito non su ricordi autentici degli anni 80, ma sulla sua epica pop.

La cura filologica per il dettaglio conduce a un’immersione totale nel mito, tra bmx, rotaie in mezzo al bosco, giubbini con spalle imbottite e Joy Division in cuffia, tanto da rendere quasi superflua la rivelazione, a metà serie, di un mondo parallelo: lo spettatore ha già trovato il suo upside down fin dal primo episodio e vi si è rifugiato con tanto di torcia e canadese piantata in cortile. Questo è il vero miracolo di una serie che per il resto non apporta nessuna innovazione in campo narrativo, risultando a conti fatti quasi reazionaria nel suo sviluppo.
Abituati da anni di sperimentazione a livello di scrittura, tematiche e di costruzione (penso a True Detective, a Orange is the new black, Transparent o Black mirror) è difficile accettare il ritorno a una forma così tradizionale e poco originale di storia, per quanto cucinata con ingredienti di prima scelta. Dissipato l’incanto, il mondo di Stranger things si rivela un sublime luna park di ricordi per trentenni: i nuovi consumatori su cui cucire un prodotto impeccabile a livello formale, dalle musiche alla messa in scena. La recitazione è calibrata al millimetro, quasi un lavoro di restauro più che di caratterizzazione, perché nulla deve allontanare lo spettatore dalla perfetta illusione. Il risultato finale è sbalorditivo, ma forse è solo un trucco. Ciò non toglie che l’enorme successo della serie – diventata un instant cult – sia più che meritato. Se da un lato infatti Netflix torna a un modello scontato di serialità, dall’altra porta l’intrattenimento a un livello superiore, creando il prodotto da binge watching definitivo: otto episodi di mirabile fattura per ritmo, cura dell’immagine e interpretazione, che inchiodano letteralmente lo spettatore fino all’ultima sequenza, compreso chi vi scrive. Stranger things quindi delude chi vede nelle recenti serie televisive un nuovo laboratorio di sperimentazione visiva e narrativa, ma conferma l’incredibile capacità dell’attuale mezzo seriale di intercettare puntualmente i desideri di un pubblico esigente e sofisticato, catturando un’intera galassia culturale in una manciata di episodi da 45 minuti.