«Le donne crescono sapendo che per loro scatterà l’orologio biologico.
Ogni donna custodisce questa informazione dentro di sé.
Ogni donna immagina che un giorno sarà madre».
[Dalla quarta di Pensiero Madre.]

La quarta di copertina di Pensiero Madre, antologia curata da Federica De Paolis per Neo Edizioni, esordisce con una tesi forte che costringe chi legge a tirarsi appresso la sedia e a raddrizzare la schiena, prima ancora di prendere posizione. Si chiede, chi legge – prima ancora di leggere -, se abbiamo bisogno di una provocazione di questo genere perché il tempo e la maternità divengano qualcosa su cui domandare alle sole donne di riflettere narrativamente; teme, chi legge – ma questa volta dopo aver letto -, che non si tratti più di una provocazione, bensì di un’operazione editoriale in cui 17 donne sono chiamate a dibattere su un tema che necessariamente le riguarda, perché donne in atto e quindi potenzialmente madri, ma a partire da una tesi falsa (la supposta esistenza di un pensiero madre archetipico) che però trova terreno fertile in molti lettori e molte lettrici.

Raccontare la scelta di essere o non essere madre, a partire dalla presunta naturalità del mettere al mondo: la fregatura è tutta qui. Naturale quindi buono, naturale quindi giusto. Non è naturale pensarsi madri. Ci sono donne che non si immaginano madri mai. Ci sono donne che si immaginano madri sempre. Ci sono donne che cambiano idea: donne che non desiderano un figlio e che poi lo fanno perché cominciano a desiderarlo; donne che desiderano un figlio e che smettono di desiderarlo subito dopo averlo avuto. Avere o non avere un figlio non è una domanda implicita con cui ogni donna si confronta, non è naturale chiederselo, non è innaturale non chiederselo. Considerare il pensiero di fare un figlio qualcosa di naturale è fuorviante: chi non ha figli e non ha in progetto di averne finirebbe per accogliere un’eventuale maternità come una resa a qualche immanente forza naturale che non c’è e, francamente, non ci serve.

L’antologia è composta da scritti molto diversi tra loro, che hanno forme ibride, in bilico tra fiction e non fiction, intervista e confessione, e che in parte tradiscono l’oracolo delfico della sopracitata quarta di copertina. Se il parallelismo tra partorire un figlio e partorire un libro risulta stucchevole perché forse già percorso altrove, i nuclei tematici attorno a cui i racconti si sviluppano sono messi a fuoco quasi sempre in modo lucido, deciso, come se le autrici stessero raccontando qualcosa di ormai risolto. La persona giusta, il momento giusto; partorire tardi, non partorire perché troppo tardi, partorire per avere un figlio nostro perché gli attuali figli li abbiamo fatti con altre persone; la ricostruzione dopo un aborto, la scelta solitaria di un aborto; il dialogo con la madre prima di diventare madre, l’invidia nei confronti di chi è già madre; la fine della giovinezza, la custodia dell’irresponsabilità; le scelte educative di genitori con visioni del mondo differenti, il bisogno di essere in due, la libertà di essere in due e sentirsi abbastanza.

Brilla l’originalità della forma e l’ironia schiva di Bimbo a orologeria di Gilda Policastro, in cui l’autrice, attraverso quattro interviste in cui domanda e risposta occupano raramente più di un rigo, conduce un’indagine incalzante sull’essere madri.

«Non conosci madri della tua età?
Le conosco da Facebook.
E come ti sembrano?
Donne lunari.
Cioé?
Donne di un altro mondo. Casalinghe. Mogli. Dedite.
C’è qualcosa di male in questo?
Non saprei.»
[p. 54]

L’effetto è quello della bomba nascosta sotto al tavolo – complice la voce di un’intervistatrice ficcanaso che ama insinuare – di cui si sente il ticchettio per tutta la durata dell’intervista; bomba che di fatto non esplode mai perché le intervistate riescono sempre a disinnescarla in tempo.

«Ci pensi mai a una vita diversa, senza figli?
Talvolta.
E come te la figuri?
Vuota, triste.
Libera?
Sì, ma di una libertà che non mi interessa.»
[p. 55]

In Sette Quattordici Ventotto, Chiara Valerio racconta di un incontro sessuale, di un ritardo di sette giorni e della certezza di sapersi incinte. Grazie a un intarsio linguistico potente, il cuore della vicenda aggalla lentamente: è il tempo delle madri e insieme il tempo di pensarsi tali.

«Tua madre ti chiama sempre a quest’ora. Quest’ora quale? Tutte le ore sono delle madri. Essere madri è come avere tutto il tempo.» [p. 106]

E più avanti:

«Le madri hanno anche il tempo del sonno. Controllano il sonno dei bambini, vegliano perché dormano tranquilli e sognino miele e foreste incantate e non si bagnino la testa se piove e non cadano nei burroni e non si grattino le bollicine che poi è peggio.» [p. 107]

Infine:

«Le madri hanno tutto il tempo per crocifiggersi. Se fossi una cattolica fervente potrei dire che questo è, che così ha da essere, perché per una che ha dovuto vedere il proprio figlio crocifisso, milioni per solidarietà si devono crocifiggere.» [p. 110]

La poesia perduta e surreale di Fuori verde di Simona Baldanzi ricorda al lettore che ci sono delle formule magiche, vere e proprie pozioni linguistiche in grado di rievocare sentimenti puri insieme al grumo di ricordi che si è fuso con essi. C’è un coniglio che è una nonna morta, c’è un coniglio muto e una nipote che parla da sola. Che parla a un coniglio e a un tempo andato in cui i figli erano altro, e davanti al quale si confessa sproletaria:

«Nonna ti vuoi sempre distinguere. Come con i figli. Temo io di distinguermi perché non ne ho. […] Noi, poi, che siamo una famiglia contadina che poi è diventata operaia e che ha ingrossato le fila del proletariato. […] Siamo proletari no? La nostra unica ricchezza è fatta solo di figli, no? Vuol dire che io sono più povera? No, quello è il sottoproletariato. Io invece mi sono imbastardita. Ho studiato, ho preso le distanze dai vostri sacrifici e dalla vostra sofferenza. Sì, i contratti precari, i mille lavori, il mutuo e i debiti, i pochi soldi in tasca, ma non basta. La verità è che ho un solo modo per rimanere proletaria: fare dei figli. L’unica nostra essenza, un tratto distintivo, uno scudo. Li spargeremo nel mondo come fiori e piante per migliorarlo mentre concentreremo su di loro gioie e dolori. I figli come bussola per definire una posizione. La potenza di chi resiste, di chi si prende cura dell’amore con due spicci. I figli come forma di resistenza, non individuale e intima, ma collettiva. Credo in tutto questo?» [p. 182]

Conclude:

«Sono sproletaria, gnudata di prole. Non corro ai ripari come se dovessi rimediare ad un errore. Il tempo passa e non mi oppongo. Sto in piedi davanti alla finestra.» [p. 184]

Infine in Il secondo giro, Ilaria Bernardini si chiede se sia necessario avere un figlio nostro o se sia funzionale averne, ma con altri. Il secondo giro è la seconda volta, è il tentativo di provare con qualcun altro quando già si è costruito altrove, è agire avendo la certezza che l’altro ci ha già provato, e che sa come vanno le cose. Le parole sincere della voce narrante, grazie a una prima persona plurale più che azzeccata, concorrono a rendere il racconto un inno corale ma lucido, che scandaglia la questione del questa volta saremo noi e sarà bellissimo usando toni scanzonati.

Manca in tutta l’antologia e poco importa se a sostegno o difesa del presunto pensiero madre – un racconto che veda al centro un’altra maternità (forse innaturale?): quella per adozione.


pensiero coverPensiero madre, a cura di Federica De Paolis, Neo Edizioni, Castel di Sangro (AQ) 2016, 242 pp. 15€