Passeggiando sul lungo Po, nel tragitto che passa sotto la Gran Madre e che costeggia ciò che resta dei Murazzi (**spoiler** Dopo la chiusura di qualche anno fa, forse ci siamo **spoiler**) – magari con le mani dietro la schiena, lo sguardo panoramico, il silenzio come unica compagnia, buttando un occhio ai ragazzi che sfidano il fiume in canoa – ti accorgi che Torino è diventata altro.

Altro dall’immaginario della città grigia, nebbiosa, industriale, cupa, immobile. Il periodo in cui il solo ascolto delle sillabe To-ri-no, faceva scattare nella mente immagini tutt’altro che positive, è lontano. Fa parte del passato.

Già, perché Torino è cambiata. E ci sono due date a sottolinearlo. La prima è il 1995, la seconda è il 2006. Un doppio scatto in avanti di una città diventata orgogliosamente bella, ricca, ma che aveva un difetto di fondo, quasi un peccato originale: quello di non volerlo dire a nessuno.

Tutto comincia dall’approvazione del Piano Regolatore firmato da Vittorio Gregotti e Augusto Cagnardi: è il 1995. L’Italia di Sacchi è vice-campione del mondo e c’è ancora chi piange per il rigore sparato alle stelle da Roberto Baggio (che, guarda caso, in quegli anni gioca proprio nella Juventus), la FIAT lancia la Barchetta, la Bravo e la Cinquecento Sporting, nasce il fortunatissimo eBay e il non altrettanto fortunato Ulivo. Il 1995 rappresenta la prima virata per la città. Che abbraccia la modernità e che inizia a riqualificarsi, a farsi bella, attraente.

Amanti dei grandi numeri? Eccoli: 320.000 metri quadrati di aree pedonali (+500% rispetto al 1995), 66% della popolazione impiegata nei servizi, 5 milioni di metri quadrati di aree industriali recuperate. A queste cifre, raccolte da Urban Center Torino, seguono anche diversi sondaggi in cui la popolazione non solo si sente parte del cambiamento urbanistico di Torino e lo apprezza, ma ne va addirittura fiera.

È l’orgoglio torinese. Lo stesso che ha guidato i film di Marco Ponti come Santa Maradona, cult della generazione ’80 e spot della prima fase del cambiamento torinese; e a/r Andata e Ritorno con l’indimenticata e giovanissima Vanessa Incontrada.

Successivamente, la candidatura alle Olimpiadi Invernali del 2006, una vera e propria «metamorfosi sbocciata in quei giorni», come ricorda l’ex sindaco Valentino Castellani. I Giochi Invernali, allora, come seconda virata, un ulteriore balzo in avanti della città. Torino che «gode di una formula segreta, un’alchimia vincente che ormai balza all’occhio», con «l’armonia delle sue architetture, l’aria di montagna che si respira oggi grazie al vento che la spazza, la sua eleganza anche nell’esprimere il potere». Parola di Richard Armstrong direttore del Guggenheim. Un’attenzione a stelle e strisce che non è inaspettata, visto che il New York Times ha appena inserito Torino nelle città del mondo da non perdere nel 2016.

Ma non di soli freddi numeri può vivere una città. O un cittadino. O un lettore.

Quelli possono essere rassicuranti, certo. Ma la differenza, come spesso accade, la fanno i particolari. Che si possono ammirare prendendo il tram numero 13, ad esempio. Parte dalla Gran Madre, taglia in due la città, passando per Vanchiglia, un quartiere ex popolare, giovane e ricco di spazi come questo coworking e che sarà il traino per il terzo scatto in avanti; prosegue per Cit-Turin, una zona residenziale con una misteriosa piazza, quella Benefica; finisce vicino al più grande parco della città: il Carrara (più noto come Parco della Pellerina).

Cosa fare scesi dal tram? Un salto al centro italiano per la fotografia “Camera” (magari prima del 13 marzo per vedere il progetto di foto urbane Oh Man di Lise Sarfati); oppure restando nei paraggi (semantici), un passaggio obbligato è al Museo Ettore Fico «in uno spazio urbano denominato Spina 4, attualmente al centro di un vasto programma di riqualificazione di un’area industriale dismessa».

Zone non consuete, per bellezze nuove. Come in Barriera di Milano, periferia della città. Ospitava gli immigrati meridionali negli anni ’60, gli operai della FIAT. L’epoca del “non si affitta ai meridionali”. Oggi le cose sono un po’ diverse e lo sguardo si posa (anche) sui 13 murales di Francesco Camillo Giorgino, per tutti Millo. Questa street art è il biglietto da visita di una città modificata per sempre. Che ora vuole raccontarsi a tutti. Con orgoglio, mettendo da parte la timidezza sabauda. E vuole farlo finalmente a colori.

Immagine realizzata da Carolina Lucchesini


 

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