L’uomo è un essere visibile, sosteneva Blumenberg (Uscite dalla caverna, Medusa 2009). La questione in un primo tempo non crea particolare scandalo: è piuttosto evidente che l’essere umano veda e che, soprattutto, sia visto. Il problema diventa più preoccupante se si pensa al fatto che si può non vedere pur essendo visti – abbiamo molto ‘dietro’ che non vediamo, il cruccio della visione frontale – e che, viceversa, con gli opportuni accorgimenti, si può vedere senza essere visti.

Il punto di questa sfilza di evidenze è che raramente si pensa alla loro inevitabilità. Nel suo Sorvegliare e punire (Einaudi 2014), Foucault parla della “trappola della visibilità”: il panopticon ne è lo schema e l’emblema. La prigione teorizzata da J. Bentham non è solo un luogo di detenzione (più) umana ma è anche, secondo il filosofo francese, un dispositivo di controllo, misurazione, disciplinamento delle anime e dei corpi. E questo schema – che rende visibili e utilizzabili dimensioni umane in genere sottratte al potere diretto – si riversa, alla fine del Settecento, anche fuori dall’istituzione carceraria per diventare un meccanismo invisibile ed interstiziale di (auto)disciplinamento della società.

Restiamo però alle prigioni, alle carceri – luoghi di manifestazione ed attuazione di una forma di potere che la collettività esercita sui propri membri. Il carcere è il luogo della perdizione, della sofferenza, dell’oscuramento, dell’oblio ed anche della morte (Lucia Castellano e Donatella Stasio, Diritti e castighi. Storie di umanità cancellata in carcere, Il Saggiatore 2009; Luca Cardinalini, Impìccati! Storie di morte nelle prigioni italiane, DeriveApprodi 2010): nell’immaginario collettivo si approssima ad un inferno di regolamenti, limitazioni, privazioni e degradazione morale. Vale però la pena di meditarci ancora sopra, senza intenti teoretici o speculativi, recuperando un’immagine profonda che delinea l’idea stessa della carcerazione. Un esercizio di libera variazione fra connessioni di idee.

La caverna platonica è il corrispondente filosofico del carcere: i suoi abitanti sono descritti come prigionieri delle ombre, i fenomeni che procedono in modo disconnesso sul fondo della caverna e che ipnotizzano i loro osservatori.
Nel suo artificio mitico e metaforico, Platone immagina un prigioniero sciolto dalle catene e libero di risalire verso l’uscita della caverna: una sorta di fuga  dallo stato miserevole in cui si vive (per dare concretezza a questa e ad altre evasioni si può leggere Angus Deaton, La grande fuga, Il Mulino 2015, che ripercorre la storia – in larga parte di successo – di un’umanità in fuga dalla povertà e dalla malattia). Raggiunto l’esterno, l’ex-prigioniero compie una serie di scoperte filosofiche che nel dettaglio non ci interessano. Il punto è che è uscito alla luce del sole, si è reso visibile. In questo mito fondamentale, nello schema di pensiero che in esso si coagula, si sviluppano forse le dimensioni e le potenzialità fondamentali dell’essere umano. La cultura e l’andatura eretta (che rende sommamente visibili) che caratterizzano l’essere umano non sono poi tanto differenti fra loro. Si potrebbe dire che la cultura è l’andatura eretta della natura, è l’esporsi, il rendersi visibile di un nuovo senso dell’esistenza umana: non più relegata alla mera sopravvivenza ma slanciata verso la creazione di dimensioni culturali di nuovo genere. L’animale umano è, infatti, un essere anomalo, vincolato al mondo che lo circonda secondo nuove modalità culturali.

Ritorno al punto: carcere, caverna, visibilità, cultura. Tutti elementi che si richiamano a vicenda, che si negano e si compenetrano. Il prigioniero platonico scoperto il Bene, la luce e, in sostanza, la filosofia torna nella caverna per avvisare gli altri della loro condizione carceraria. Questi invece di riconoscere il proprio status e incamminarsi verso l’uscita, considerandolo un matto, attaccano il messaggero per mettere a tacere le follie che va dicendo.
La narrazione di Platone si conclude su queste note di sventura: l’esistenza di un fuori non è una bella notizia o comunque non fa piacere sentirne parlare. Dentro la caverna si sta bene, si è al sicuro, invisibili, si può vedere senza essere visti; si vive però da prigionieri. Ma anche la cultura è una nuova caverna, un nuovo orizzonte di sicurezza esposto alla visibilità, al caso, alla morte.

Insomma, forse non si può fare a meno di costruire una nuova caverna, uscendo e rientrando in essa continuamente. Perché non si può stare né fuori né dentro se non c’è un passaggio che istituisce la differenza. Ecco che forse quella soglia potrebbe essere quella dei diritti – sia per chi sta dentro sia per chi sta fuori (L. Manconi e G. Torrente, La pena e i diritti. Il carcere nella crisi italiana, Carocci 2015;  Patrizio Gonnella, Carceri. I confini della dignità, Jaca Book 2014). Esporsi alla luce della legge portandola dentro la caverna: finalmente le vite, le storie, le persone diventerebbero visibili.

Che fare, dunque, Abolire il carcere (Luigi Manconi, Chiarelettere 2015) e la violenza ad esso intrinseca? «Prudente realismo dell’utopia».