Arriva alla fine la pubblicazione dei racconti che hanno vinto il concorso letterario #Laventicinquesimaora, indetto dalla Scuola di scrittura Belleville e nella cui giuria era presente anche la redazione della Balena Bianca. Finalmente arriva il turno del primo classificato, Jimmy Stardust di Alessandra Asti (qui i precedenti: 1, 2, 3). Al centro del racconto è un personaggio eccentrico, un diverso, la cui alterità però illumina – con i suoi stivali di gomma lucida e il trucco sempre vistoso – la banalità feroce del mondo circostante. Un mondo che prende forma nella scrittura discreta di Alessandra Asti e assume i contorni di una quotidianità che conosciamo e riconosciamo: in crisi e disillusa, ostile e violenta; una realtà che lascia uno spazio marginale alla pietà, che non può far altro che intervenire quando ormai è troppo tardi. 


Jimmy Stardust

Jimmy Stardust aveva occhi troppo chiari per nascondere dei segreti.
Ricordo ancora il giorno in cui è arrivato, apparendo nell’angolo ad est del parcheggio del centro commerciale, vicino all’uscita.
Io lì ci andavo tutti i giorni per scaricare la merce: all’epoca lavoravo come corriere per una compagnia alimentare piuttosto nota, che ora è fallita. Cose che capitano.
Mi era simpatico quel tipo. Diceva che gli piaceva starsene lì tutto il giorno per guardare le persone e per ascoltare la musica dagli altoparlanti. Parlava con tutti, scherzava con tutti e metteva le mani sulle spalle di tutti, sorridendo sempre.
Si vestiva in modo strambo; una volta, se n’è stato tutto il giorno in piedi su degli stivali di gomma bianca lucida con un tacco alto almeno sette pollici che doveva forse aver trovato dentro qualche cassonetto, tanto erano lisi.
«Non posso aiutarvi oggi! Mi fanno male i piedi!»
Mi faceva ridere Jimmy Stardust, mi aiutava a trasportare le casse più pesanti: aveva una forza sorprendente, nonostante l’aspetto emaciato. Aveva gli occhi sempre truccati di azzurro e infilata dentro ad un laccetto stretto intorno alla coscia portava una di quelle pistole di plasticaccia da bambini che sparano pallini di gomma. Era di un giallo sgargiante, impossibile non vederla da lontano anche quando c’era la nebbia.
Eravamo diventati buoni amici, direi, anche se a dire il vero non ho mai saputo quasi nulla sul suo conto. Non so nemmeno come si chiamasse in realtà, ma ho sempre pensato che Stardust fosse un cognome più che appropriato.
Una volta gli ho personalmente chiesto cosa ci facesse tutti i giorni fuori dal centro commerciale e lui mi ha risposto con un’altra domanda:
«Sai Campbell perché le blatte sono così tenaci? Lo sai perché quando ne ammazzi una subito ne spunta fuori un’altra proprio da sotto la scarpa?»
«Non lo so, Jimmy.»
«Le blatte, vedi, sono proletarie. Sono come una qualunque famiglia di periferia: compatta, solidale e nella merda. Se schiacci una di loro, le cugine e le zie blatte ti daranno il tormento per sempre. Sono tante, unite, tutte identiche, pericolose.»
«Tu sei come le blatte, Jimmy?»
«No Campbell, non direi. Io sono come il pesticida.»
Jimmy era un tipo franco, diceva sempre quello che pensava. Se voleva riderti in faccia lo faceva, se voleva insultarti lo faceva.
A nessuno piaceva farsi vedere a parlare con lui, eppure tutti gli volevamo bene.
Una sera però Jimmy Stardust è stato massacrato di botte. Gli hanno spappolato la mascella e strappato diversi ciuffi di capelli con i quali era venuto via anche parte dello scalpo.
Nessuno sapeva chi fosse stato, ma in realtà lo sapevamo tutti.
Gli regalai un cappello che mia moglie non usava più per coprire i buchi dove mancavano i capelli. Era un bel cappello, che avevo scelto io stesso anni prima ed era proprio della stessa tonalità della buffa pistola di plastica che portava sempre con sé. Una mattina di inverno, uguale a tante altre, Jimmy mi fermò tirandomi per un braccio e mi chiese una cosa sola, ben precisa:
«Credi che la realtà l’abbia sempre e comunque vinta sui giochi?»
«Sì, Jimmy. Penso di sì.»
Fu l’ultima delle strane domande che sentii rivolgermi da lui. Ricordo che mi parve più ossuto del solito, come una scopa dimenticata in uno stanzino.
Lo ritrovammo io e Zuchowski quella stessa sera, sdraiato con la faccia rivolta verso il cielo con gli occhi aperti, chiari e vuoti. Aveva un buco sulla fronte e nella mano destra stringeva solamente la sua pistola di plastica gialla dalla quale, l’avrei giurato, mi parve di vedere uscire del fumo.


3° ex aequo – Sara Nissoli, Racconto

3° ex aequo Alessandro Mauri, Al muro

2° – Francesco Verro, Impulso