[Ziggy Stardust. La vera natura dei sogni, di Luca Scarlini (add editore) sarà presentato domani, 16 febbraio, alle 19, alla Libreria Open di Milano]


 

Quando nel 1998 è uscito nelle sale Velvet Goldmine di Todd Haynes, ho cominciato a interessarmi di quest’artista lunare, mutevole, androgino, ribelle, sensoriale, gentile, impermanente, fantastico, totale, ineffabile e bellissimo chiamato David Bowie. Il film racconta la storia di una stella del glam rock che simula la morte sul palcoscenico, sgretolandosi nei frammenti delle sue maschere: sono gli anni Settanta e il lascivo Brian Slade, “suicidandosi”, uccide la Swinging London al suo crepuscolo edonista. Il 3 luglio 1973, all’Hammersmith Odeon, David Bowie è alla fine del suo primo tour quando inscena The Rock’n’Roll Suicide: «Fra tutti i concerti del tour, questo, questo in particolare ce lo ricorderemo per sempre, perché non soltanto è l’ultimo della tournée, ma è anche l’ultimo nostro concerto in assoluto. Grazie». The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders for Mars: l’alieno torna nello spazio e Bowie, per la prima volta, trasfigura la morte divertendosi a leggere i suoi epitaffi. Come quello di Michael Pergolani, che al rientro in Italia scriverà su Ciao 2001: «Come una stella cometa in cielo, David Bowie è apparso per poi sparire negli spazi siderali. Ziggy Stardust ha abbandonato la scena luminosa del pop. Si occuperà d’altro, forse di cinema, forse scriverà… E la gente, appena appresa la notizia, piangeva sere fa. All’Odeon di Londra, piangeva, mentre la scia tracciata da Starman splendeva lassù fra le stelle, ben visibile a tutti gli uomini: addio, David Bowie!». La morte di Bowie è del resto un’opera d’arte già nella sua ouverture, quando nel 1972 Ziggy Stardust concede la sua prima intervista: «Sono preoccupato di morire. Ho paura di essere ucciso sul palco. Io so che un giorno, in America, un grande artista sarà ucciso sul palco e comincio a pensare che potrei essere io. Uscire col mio primo tour, essere ucciso al mio primo concerto e nessuno mi vedrebbe mai più. Questo mi farebbe proprio infuriare».

L’11 gennaio 2016, lo storyteller ha un epilogo da scrivere di gran carriera e posare, per causa di forza maggiore, prima del prologo nel suo Ziggy Stardust. La vera natura dei sogni (add editore) perché la tele dice che David Bowie è morto. Così il libro di Luca Scarlini, saggista e drammaturgo, diventa adesso un’occasione biografica per presentare l’artista inglese «al centro del suo “momento di grazia”, quando Ziggy Stardust parlando di stelle, morte, omosessualità, droga e follia offrì un’icona perfetta alla generazione che si affacciava agli anni Settanta, smaniosa di uccidere gli idoli delle precedenti stagioni». Ne sgorga un racconto fitto e veloce, sensibile e analitico, spaziale e glam, sonoro e critico di quel totem che «ha dato un’incarnazione esatta alla parola unisex, che ha abolito la dimensione della riconoscibilità sessuale» nei territori dell’androginia fantastica.

David Bowie è un altro raggiante Prometeo sulla ribalta musicale dei primi anni Settanta, eppure dotato di una coolness nuovissima, un distacco di fondo per cui Ziggy Stardust è un alieno venuto dallo spazio, immaginario e immaginifico, apparente e appariscente, sensuale e overwhelming: «Chi lo vuole icona dei gay, chi alfiere del nuovo millennio, chi portavoce del nihilismo decadente, con un certo gusto per l’esoterismo, chi semplicemente ultima star del rock’n’roll». Ziggy è la teatralizzazione estrema della performance musicale, la nuova forma totemica dello showbiz, una creatura fantastica, un fenomeno spaziale, un cantante lascivo e totalitario. Ziggy non abita questo mondo e per questo – diversamente dagli eroi di Woodstock e dai cantautori folk, alfieri flower power di una palingenesi nostalgica – non è un profeta delle ansie collettive né un delatore degli stati sociali, eppure deflagra con la sua stranezza libertaria una carica urbana e generazionale, la voce più autentica di una Londra d’avanguardia e decadente. Un motivo storico, la certezza di un David Bowie “evoluzionista”, che Luca Scarlini sa spiegare meglio di chiunque altro:

 Ziggy è il perfetto filtro di un’epoca: nel suo prisma multicolore e risplendente di lustrini passano influenze diverse, confliggenti perfino. Quello è lo spirito dei tempi: le avanguardie alla fine degli anni Sessanta lavorano sullo scontro degli elementi, sulla fusione violenta di suggestioni lontane tra loro. Ci sono poi coloro che, come il messia lebbroso, incarnano il ruolo di ambasciatori. […] Ziggy ha saputo portare nella piccola borghesia, nel grigiore dei quartieri suburbani, nelle case popolari un brivido di ribellione immaginaria. I suoi concerti si concludevano sempre con Rock’n’Roll Suicide. Vero e proprio inno generazionale per tutti coloro che aspettavano il proprio momento per ottenere un riflettore in scena e capire che non erano soli. […] Ziggy è ecumenico, dichiara di volersi far carico di tutti coloro che si sentono sulla sua linea. Il messia lebbroso dice che tutti possono essere come lui: basta mettersi insieme, con vestiti splendenti, un trucco perfetto, allegramente, ad attendere la fine del mondo, intonando il proprio inno fatto di lustrini e lacrime, provocazione e rock, cinema e teatro.

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Così David Bowie ha fatto la rivoluzione con un disco che ha cambiato per sempre la storia del rock, inventato l’alter-ego musicale più famoso del secolo decimonono e inscenato la sua morte en travesti per rompere un patto faustiano nella sua perfezione identitaria, «usando ogni sfumatura dell’ambiguità, e preparando il palco per la sua scenografica autodistruzione finale». The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders for Mars è una traccia elettrica e folgorante, apocalittica e crepuscolare. È un concept album come Tommy degli Who, ma con una nuova forma di «identità assoluta tra interprete e creazione, tra persona e personaggio». Scarlini scava allora a fondo per scoprire l’origine di David Bowie, al secolo David Robert Jones, e di Ziggy Stardust tra riflessi sintetici e americani, psychobilly e sartoriali. Lo scrittore storyteller indaga sulle scuole di arti e mestieri, che «furono il vivaio principale per la breve quanto frenetica e vivida stagione del glam rock britannico all’inizio degli anni Settanta»; sulla commistione dell’arte figurativa e del teatro kabuki nel rock della maggiore età, sulla riscoperta del vintage a partire dal decadentismo scenico dei Rolling Stones; sul simbolismo psichedelico di Syd Barret e sullo sciamanesimo carnale di Jim Morrison come stime essenziali, così come il ritorno al glitter, alle zeppe, al trucco, ai costumi di Elvis Presley e Little Richard, iniziando da Marc Bolan e Alice Cooper, oltre i miti romantici dell’innocenza hippy.

Il fine insomma era la conquista del mondo, il successo, da perseguire in ogni modo, usando tutte le possibili strategie. I mezzi erano in primo luogo la creazione di un personaggio, la voce, il suono e il testo, lo spettacolo, gli abiti, il trucco, l’interazione, estrema, inedita, con la band. L’inizio degli anni Settanta, quando tramontava l’era dei figli dei fiori, era un momento di straordinaria, vitale contraddizione. La dialettica del negativo regnava imperante e tutto agiva secondo un impulso onnivoro, cercando di tenere insieme in un’identità univoca elementi che sfuggivano da ogni parte.

Con una straordinaria dovizia filologica, Ziggy Stardust. La vera natura dei sogni verifica una trama di influenze e prestiti, sfumature e rimandi, nella loro sintesi di forme e sensi: dai subterraneans al mimo, da Andy Warhol a Linsday Kemp, dal trionfo della space age e del nichilismo edonista secondo il Teorema di Kubrick, al varco dell’omosessualità nel mainstream del sistema moda, un lifestyle per la prima volta al centro della creazione di un’icona planetaria, «un blend inconfondibile di camp e tragedia, disastro e splendore che Bowie seppe incarnare in Ziggy».

Sopravvissuto all’abbraccio mortale del suo personaggio, David Bowie, anzi Aladdin Sane, anzi Halloween Jack esorcizza la sua paura di morire perché è un vero ribelle, ha il vestito strappato e la sua faccia è un casino, gli piace ballare e si sente immortale. Come gli Young Americans però, i suoi amici Lou Reed e Iggy Pop, la droga lo sta cancellando e l’espressivismo del Duca è bianco e sottile come la cocaina. Così ci vuole un altro colpo di teatro: una genesi nella livida e divisa Berlino per risorgere nel firmamento dei suoi Heroes, in un nuovo e più terso spazio emozionale. È il 1979 e David Bowie, con l’ultimo capitolo della trilogia berlinese nell’incavo di Lodger, saluta gli esagerati Settanta prima di ucciderli con una maschera comica: quel pierrot che nel 1980, cantando Ashes to Ashes, abbandona il Maggiore Tom, tossico e depresso nell’alto dei cieli. Cenere alla cenere, funk to funky, Bowie inventa il videoclip moderno e che il pop abbia inizio. Nel mezzo del cammino della sua vita (terrestre), David è seduto malinconico in una stanza vuota coi muri rivestiti, ma il suo sguardo cangiante è già quello del dandy romantico che svela le regole dell’amore moderno e apre la dancefloor, icona multiforme e stratificata nel cinema, nella pittura, nella poesia, nella scrittura. Fuori dagli anni Ottanta, Bowie assapora invece la fine del secolo decimonono con una tensione distopica e sfogata nei diari di Nathan Adler: un’altra mimesi, un altro concept album (Outside), un altro capolavoro dell’“arte criminale” che idealizza The Ritual Art-Murder of Baby Grace Blue: A non-linear Gothic Drama Hyper-Cycle.

Dove aveva iniziato – quando David Robert Jones era già stato un mod, un hippie chic e perfino una drag preraffaellita – e ora che levita oltre il filo del più grande equilibrista: dalla maniera dell’omicidio rituale, alla mise en abyme di una morte votata all’arte. Luca Scarlini scrive nel suo prologo che «Dopo il colore esibito a piene mani, la ricchezza della tavolozza degli anni Settanta, Ottanta e Novanta in tutte le varie identificazioni, le ultime produzioni di Bowie hanno visto una sottrazione, una rarefazione». Così, nel giorno del suo sessantanovesimo compleanno, David Bowie nasconde la sua ultima bellezza dietro la maschera di Lazarus, plumbeo e conturbante in una branda spoglia, con gli occhi fasciati e le borchie sugli occhi:

Lazzaro è quindi la figura totemica di Bowie al tramonto, come Ziggy lo era all’alba della sua strepitosa carriera. Tutto è riassunto in modo chiaro nell’ultimo clip-testamento, Lazarus, connesso allo spettacolo, in cui il cantante, con il volto scavato dalla malattia e i capelli grigi dritti in testa, compie impressionanti incantesimi sciamanici. […] Una canzone anche più esplicita: l’immaginario spaziale che un tempo era bianco abbagliante, ora è nero antracite. Dentro la stella nera un profeta annuncia un’epoca di tormentosi splendori. Una donna mutante porta la reliquia di un teschio: Bowie infine si toglie la benda e promette salvezza a fantasmi che lo circondano, dichiarando di essere lui la stella nera evocata nel titolo.

L’uomo che è caduto sulla terra, che ha venduto il mondo, che aveva paura dell’America… e che due volte, o forse tre, è sopravissuto alla fine con la grazia del prodigio. Le sue cicatrici non si vedono più, si veste da mimo sull’ultimo palco, gli è rimasto poco tempo e la sua penna si libra convulsa. David Bowie ha abitato l’arte per sublimare i tremiti ed estinguere la sindrome del volo. Ha scelto una Blackstar per riscrivere il paradiso, e provato infine che nemmeno la morte è uguale per tutti.


Luca Scarlini, Ziggy Stardust. La vera natura dei sogni, add editore, Torino 2016, 112 pp. 12€