Gli uomini del marketing tendono sempre più a ridurre al minimo rischi e imprevisti delle campagne pubblicitarie. Le previsioni su costi e guadagni sono maggiormente controllabili rispetto al passato, grazie ad analisi puntuali dell’enorme mole di dati e informazioni in loro possesso. Navigando in rete, per esempio, ci imbattiamo nella cosiddetta pubblicità “display”, ovvero la riproposizione tramite banner di un prodotto o servizio visualizzato in precedenza, oppure scopriamo con piacere che Spotify ci consiglia della buona musica affine ai nostri gusti. Ciò che vediamo, ascoltiamo e condividiamo è sempre più basato su ciò che già amiamo o desideriamo, finendo per essere circondati da un mondo di oggetti familiari e confortanti.

Un orizzonte di attesa perfettamente e costantemente appagato.

Star Wars: Il risveglio della Forza, prodotto dalla Disney e diretto da J.J. Abrams è figlio di una strategia simile: il risultato di attenti studi del target di riferimento. Il settimo episodio della saga più famosa del cinema è un perfetto film-specchio, in cui sublimare le attese decennali di milioni di fan. Il film fa sfoggio di un’epica potente quanto stilizzata, che è solo l’eco di quella della trilogia uscita tra gli anni ’70 e ’80. Niente politica e intrighi commerciali, ma tragici duelli sotto i fiocchi di neve – estetica quasi da film cappa e spada Wuxiapian – e mondi disintegrati con un solo colpo di mega-cannone. Ogni elemento concorre a riallacciare un filo spezzato con lo spirito antico della Original Trilogy e far dimenticare il “tradimento” dei tre prequel degli anni novanta-duemila. Sobria e funzionale computer graphics, fotografia evocativa e sequenze mozzafiato sono dosate con studiata precisione da un Abrams rispettoso e riverente di fronte al mito – tanto da rinunciare ai suoi adorati lens flare e a recuperare pupazzi e scenari reali-. In un’atmosfera quasi retrofuturista, prende forma un’opera grandiosa, ma derivativa. Come quelle tele del manierismo italiano, che ci mostrano muscoli e pose innaturali di santi già ammirati in dipinti e affreschi di un’epoca precedente, quella rinascimentale. Nessuno si sognerebbe di considerare un Tintoretto o un Veronese meno importanti di Michelangelo, ma è chiaro a tutti che è Buonarroti a possedere il genio. Il risveglio della Forza è questo: la riproposizione di gesti e forme già chiaramente delineati in un’età dell’oro e fissate in un’atlante iconografico non solo cinematografico, ma ormai culturale. Torna la resistenza, torna un impero del Male – qui chiamato il Primo Ordine-, ma soprattutto tornano i legami di sangue. La trama è essenziale, quasi ridotta ai minimi termini, per dare spazio a un dinamismo visivo che coinvolge completamente lo spettatore, quasi distraendolo da una mancanza di profondità. I nuovi personaggi reggono il confronto con i predecessori, sorprendendo anche i più scettici. Al disertore Finn (John Boyega) spetta l’arduo compito di reintrodurre l’elemento comico, la “raccoglitrice di rottami” Rey (Daisy Ridley) si cala perfettamente nel ruolo di nuovo Luke Skywalker e infine Poe (Oscar Isaac) dà finalmente spessore a una categoria – quella dei piloti stellari- che nella saga sono sempre stati poco più che comparse sparate a rotta di collo tra i cunicoli delle navicelle nemiche. La nuova nemesi, Kylo Ren (Adam Driver), è una versione aggiornata di Darth Vader, con un grado maggiore di complessità psicologica: meno epico, più drammatico – il ragazzo di certo si farà -.
L’antico materiale di Lucas viene rielaborato, riallestito, quasi come accade per i testi shakespeariani a teatro: reinterpretazioni del classico, riutilizzando topoi, scenografie e temi cardine. La matrice delle gesta eroiche viene replicata all’infinito, come nel teatro dei Pupi siciliani: tutto è inesorabilmente prevedibile e al contempo necessario.
Star Wars torna come un maestoso fantasma da un mitico passato, ma forse non chiedevamo nulla di più.