* Questa recensione è stata pubblicata su «Poesia», n. 308, ottobre 2015.

«Passeggiamo su un detrito del mondo, | disperdendo le nostre tracce in una traccia | più grande, lungo costole di case | e di finestre spezzate. Respiriamo | la rabbia assorbita dal muschio, | l’odio urlato dai popoli. || Guarderesti oltre, se potessi, ma in te | suonano gli anni scuri dell’infanzia, | le ristrettezze; così stritoli l’aria nel pugno, | e questo vento diventa uno scoppio, | il tuo lamento in fuga». Questi versi sono tratti dalla lunga Lettera da Dejevo, località in Estonia che conserva, come in un museo, le ferite belliche. Visionario e aderente al reale, con una lingua musicale e imprevedibile, questo frammento è un buon campione della scrittura di Yari Bernasconi, ticinese, classe 1982, già autore di due plaquettes e di una silloge apparsa nell’Undicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea. Il suo primo libro esce all’ombra di un titolo grave: Nuovi giorni di polvere. La polvere ricorre spesso nel testo, ora è qualcosa che sporca, ora qualcosa che offusca, ora è segno di rovina, ora di abbandono: è presente come una forza naturale che avvolge la vita, come un elemento che ricorda alla materia la sua fisicità e la sua pesantezza. C’è polvere dappertutto, sui libri, sui volti, nei locali, ma è anche il mantello che avvolge tutte le cose dopo l’eruzione di un vulcano, come si legge nella sezione in versi e in prosa La montagna di fuoco: «non c’è nulla che si possa salvare dalla polvere ardente: inghiotte tutto»; «bruciate le ossa e la carne, il muso sfigurato | come un blocco di carbone. E poi polvere | attorno, terra scura. Legni arsi e locali | scoperti, senza muri e senza vita»; «Gli alberi e i rami sopravvissuti alla tenaglia del calore si alzano ridicoli e sgraziati, in attesa delle foglie o di altri giorni di polvere». A questo destino si piega ogni forma di vita, che viene “assorbita” (anche questo verbo è ricorrente e il soggetto è sempre un elemento minerale). Bernasconi dipinge così un universo fosco, dove la speranza non ha spazio, è flebile o vana. Tuttavia non c’è cedimento o disperazione, ma uno sguardo classicamente distante, privo di turbamento, come di un saggio antico che guarda il mondo senza provare pena o passione. Come l’uomo che, in Tre mulini, tutte le sere è pago di guardare l’acqua che fluisce attraverso una bocchetta da lui costruita. Il soggetto raggiunge quasi la trasparenza, tanto è distante dalle cose: per esempio in Trittico per un paesaggio a proposito di un «paese di campane e di lago» scrive: «sembra di non averci mai vissuto, | ma di averlo attraversato  distrattamente, | come si fa con la nebbia o con la pioggia». Paesaggi e odori escono dalla penna di Bernasconi con immediatezza: è il caso per esempio di Il mercato delle cipolle (con quel finale: «L’odore della zuppa e delle torte di cipolle vaga nell’aria | stantio, come qualcosa di volgare») o la sezione dedicata a un viaggio in Irlanda (cito due versi: «Arriviamo che piove e non si sa se ci sia un cielo, | dietro»). La precisione della lingua deriva dalla precisione dello sguardo. Il tocco dell’ignoto immerge le scene in un’atmosfera dai margini labili, come le teste smarrite degli studenti in una biblioteca, o la provvisorietà di questa voce, che ci saluta dagli ultimi versi del libro: «L’acqua che passa si è già presa il domani. | Io ti scrivo da qui, dove poi si scompare. | Perdona se non tornerò in quello spazio | perenne».