Questo articolo compare sul numero 119 della “Rassegna di letteratura italiana”, in corso di pubblicazione.

Il trentennale della morte di Elsa Morante (18 agosto 1912 – 25 novembre 1985) è (o poteva essere) un nuovo momento utile per ricordare la vastità dell’opera letteraria dell’originale narratrice e poetessa del Novecento, nata e morta a Roma, sposa di Alberto Moravia, vincitrice del premio Strega con l’Isola di Arturo nel 1957 e amata, in momenti diversi della sua vita, sia dalla critica che dal pubblico. Poteva essere, perché i trent’anni dalla morte di Elsa Morante non hanno certo avuto la stessa risonanza dei quarant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, celebrati quest’anno nel mese di novembre, ma la fortuna letteraria vive di onde e sbalzi d’umore in maniera del tutto anarchica e imprevedibile. A ogni modo, a marzo è uscita la raccolta di saggi intitolata Morante la luminosa. Nella nota delle curatrici, Laura Fortini, Nadia Setti e Giuliana Misserville, è resa esplicita l’origine del prezioso volume: la Società Italiana delle Letterate, che usa da tempo organizzare delle passeggiate unite a riletture critiche di scrittrici, per il centenario della nascita di Elsa (18 agosto 2012) ha voluto dedicare un percorso geografico, simbolico e critico insieme che, come è scritto, ha riscosso una partecipazione «travolgente». Quell’evento, battezzato Morante a Roma, è stato realizzato il 3 e il 4 novembre nella capitale.

Tra i contributi riuniti in Morante la luminosa (Iacobelli, 2015) vale la pena iniziare senz’altro da quello di Dacia Maraini. Primo: perché da molti è considerata una delle più autorevoli narratrici del nostro presente, secondo: perché Dacia Maraini ha conosciuto di persona la scrittrice. Le due autrici, si sa, hanno condiviso l’amore non solo per la letteratura, ma anche per lo stesso uomo, e se Morante ha scelto di rimanere ufficialmente legata all’autore degli Indifferenti per tutta la vita (il 14 aprile del ’41 i due si erano sposati con cerimonia cattolica nella Chiesa del Gesù), la storia d’amore, esaurita senza rimedio, lasciava spazio a reciproci e tollerati “tradimenti”. Dopo un’acuta analisi stilistica, con elenchi di parole e aggettivi estremi (per esempio «inferno» e «paradiso»: Elsa non era diplomatica e non amava troppo le sfumature), Maraini non difende a spada tratta la ricchezza letteraria che ereditiamo dalla Morante, ma chiama in causa una categoria su cui ancora oggi qualcuno si dibatte, la letteratura femminile. Che cos’è la letteratura femminile? Cos’è stata nel più recente passato e che cosa sarà in futuro? Elsa Morante aveva «pessimi rapporti con il femminismo», come ricorda Dacia Maraini. Un atteggiamento simile si giustifica facilmente, o almeno così lo giustifica l’autrice di Dolce per sé: ai tempi, il femminismo in Italia era solo agli inizi e parlare di letteratura femminile era come parlare di letteratura bassa, inferiore. Eppure, c’erano varie autrici che secondo Maraini avevano «lo stesso valore letterario» degli scrittori: Grazia Deledda, Anna Maria Ortese, Natalia Ginzburg… Ancora oggi le donne che scrivono sono circondate da una percentuale sostanzialmente altissima di uomini, ma rispetto all’Ottocento i traguardi non sono pochi. C’è da domandarsi, però, per quale motivo in questa sede i nomi di Elsa Morante e di Lalla Romano (al secolo Graziella Romano, 1906-2001) siano collocati sullo stesso identico livello. Vero è che il discorso di Maraini non è affatto orientato a stabilire quale sia stata l’autrice più significativa del nostro Novecento o a scrivere un tributo alla Morante, ma a rivalutare la letteratura femminile in blocco, o almeno la letteratura femminile che valeva e che vale.

Interessante, vitale, estremamente vibrante di amore per Elsa Morante è il saggio di Graziella Bernabò. L’obiettivo di Bernabò, già cercato e raggiunto nella biografia La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura (Carocci, 2012), è di rileggere l’opera della narratrice e poetessa romana partendo dalla ricostruzione della sua vita, nonostante la risaputa discrezione di Elsa: «diceva di volersi presentare solo attraverso i propri libri». Ma oggi si celebrano i trent’anni dalla sua scomparsa e recuperare gli avvenimenti della vita di un’autrice per capire la sua opera è un’operazione più che lecita per i critici e per i lettori. Graziella Bernabò nota una caratteristica a volte felice e a tratti infelice, ma straordinariamente comune a tante «donne grandi della scrittura»: in loro, l’intelletto e l’affetto si fondono spesso, la passione intellettuale si lega volentieri con l’amicizia o l’amore. Bernabò riporta stralci di resoconti di Cecchi e di Fofi: da una parte la contrarietà di Elsa Morante verso la violenza degli anni Settanta, dall’altra l’entusiasmo verso l’origine del movimento nel ’68, evidente nel Mondo salvato dai ragazzini.

Laura Fortini offre invece un poetico resoconto incentrato sull’analisi testuale del Ladro dei lumi. Presente in apertura alla raccolta di racconti Lo scialle andaluso, il brano propone, come succede spesso nell’opera morantiana, un rovesciamento di prospettive e uno sguardo sul regno dei morti, con la religiosità tipica di Elsa Morante, all’inizio cattolica, poi sincretica e visionaria («Qua si può discutere di Cristo e di Budda», recita un verso del Mondo salvato dai ragazzini). Proprio con questo straordinario libro chiude infatti Laura Fortini, docente di letteratura italiana al DAMS dell’università Roma Tre e membro della Società Italiana delle Letterate.

Di nuovo sotto il segno di un evidente femminismo è lo scritto di Nadia Setti, teso a rintracciare la presenza del corpo nell’opera morantiana, «corpo-a-corpo» con la scrittura, corpo-a-corpo con l’inconscio, «stile della corporeità». Setti, specializzata in letterature comparate femminili, co-responsabile nel Centre d’Études Féminines et d’Études de genre dell’Università di Paris 8 e autrice di testi critici su Marguerite Duras, Marguerite Yourcenar e Marina Tsvetaeva, individua la capacità di Elsa Morante di andare oltre, dove nessuno osa. Morante non aveva il senso del limite: si innamorava ferocemente o si arrabbiava senza il senso della misura. Se è vero che la critica morantiana ha collegato più volte gli scritti di Elsa al poeta italiano più amato al mondo (Dante Alighieri), è vero anche, come sottolinea Setti, che l’intenzione della scrittrice non era certo l’operazione intertestuale: «si tratta dell’incarnazione delle pulsioni e passioni per gli estremi, di una conoscenza intima, sopportata umanamente e corporalmente, della sofferenza, del dolore umano, della felicità».

Maria Vittoria Vittori, che collabora con «L’Indice dei libri del mese», membro anche lei della Società delle Letterate e autrice del capitolo “Scrittrici del Novecento” in Storia generale della letteratura italiana (Federico Motta editore, 2004), in Morante la luminosa dedica la sua riflessione al personaggio Useppe. Il bambino protagonista della Storia è un capolavoro umano di poesia: è un poeta, eppure non sa esprimersi, ha una madre, eppure si fa adottare da una cagna chiamata Bella, è un eroe buono e puro, eppure finisce miseramente ucciso da una malattia, il Grande Male (nella Storia il Grande Male non è la guerra e nemmeno la dittatura, ma l’epilessia!). La prima ispirazione di questo personaggio arriva, nota Vittori, dalle fiabe firmate da Elsa, con cui da giovane si guadagnava i primi soldi. Useppe è l’elemento privilegiato di quel binomio che tanta parte ha preso nei lavori morantiani: il binomio madre-figlio. I lavori di Elsa Morante non si potrebbero leggere senza il riferimento a questa costante immensa categoria (un’allegoria del rapporto tra autore e opera? Anche). Lo scrisse Umberto Saba all’autrice: Elsa doveva ricercarsi in quel rapporto, anche se lei madre non fu mai. Anche Vittori cita il Mondo salvato dai ragazzini, perché Useppe è il prototipo del bambino F.P., uno dei Felici Pochi, e sembra avere una parentela con Pazzariello. Tra queste pagine si spiega con mano la teoria di Bernabò su quanto una notizia biografica possa illuminare di nuova luce un particolare letterario.

Useppe (Giuseppe) fu il nome del gatto più amato dalla scrittrice, al punto che quando morì, il 1° agosto 1952, Elsa scrisse su un diario una poesia disperata in cui lo ricordava come unico amico, come l’anima più innocente del mondo e come un angelo del Paradiso di cui avrebbe aspettato lo sguardo. Il personaggio Useppe, leggiamo in questo contributo, porta con sé l’eterna domanda della vita e comporta tanti cambiamenti nella vita di sua madre: grazie al piccolo, infatti, Ida trova il coraggio di affrontare le difficoltà della guerra, ma per lui –  per la sua morte –  la fragile donna perderà il senno. Maria Vittoria Vittori ci ricorda anche un’altra cosa: la presenza dell’umorismo nella Storia, per cui Hitler fu chiamato «clown bianco». E proprio l’umorismo della Storia è stato, credo, l’espressione di una forma d’intelligenza che i critici non hanno saputo perdonare a Elsa, quando, nel 1974, l’appassionato romanzo usciva per l’edizione economica Einaudi e l’Italia non era ancora abbastanza distante dalle diatribe su fascismo, nazismo e altro, per accettare un’opera letteraria che non manifestasse aperti segni di adesione al comunismo. Ancora oggi sulla Storia non si è scritto abbastanza, e soprattutto non si è messo l’accento su quanto Elsa Morante abbia superato, in questo libro, ogni -ismo del passato e del presente. L’apertura alle religioni orientali e alla filosofia di Simone Weil costarono all’autrice un fraintendimento e un’ostilità nei critici italiani che solo oggi inizia a dare segni di cambiamento. Aspettiamo che il vento cambi ancora per poter rileggere la Storia e gli altri testi letterari della Morante come opere realmente rivoluzionarie, dove la rivoluzione però è interiore e abbraccia di compassione umana tutti: gli uomini, le donne, gli animali, tutti gli esseri viventi e anche i morti, con uno sguardo sempre fissato sull’Oltre, sull’Aldilà, con la consapevolezza (come riporta una cartellina da lei preparata per la presentazione del libro e riportata alla luce da Giuliana Zagra) che non ha nessun senso scrivere contro, che lo scrittore non è un giudice ma un testimone e che nelle faccende del mondo è impossibile stabilire non solo di chi sia la colpa, ma se una colpa esista davvero.

morante moravia


 

Morante la luminosa, a c. di L. Fortini, G. Misserville, N. Setti, Roma, Iacobelli, 2015, pp. 210.