Questo è il tempo della didattica per competenze, dell’educazione alla cittadinanza, del sapere rimpiazzato dal saper fare; è il tempo dei progetti, dei laboratori e della didattica plurale e interattiva, per seppellire definitivamente la vieta didattica frontale. Avvicinare la scuola al futuro dei ragazzi è l’imperativo: un futuro che, dietro gli scintillii e gli aloni mistici della retorica del “futuribile”, nasconde nientedimeno che il lavoro. E allora ecco le ingiunzioni a far scoprire i mestieri, a evidenziare come lo studio della grammatica sia propedeutico alla stesura di un report o alla preparazione di corrette presentazioni in Power Point, o come la geografia non sia altro che un prolegomeno alla lettura del giornale, ovvero alla comprensione del mondo contemporaneo, delle dinamiche economiche e geopolitiche. Poi, certo, ci sono anche materie che non hanno bisogno di ricordare sempre la loro utilità pratica – la matematica (?), la fisica (?) – ma che ,comunque, sarebbe meglio che mostrassero cosa, di tutta quella mole di postulati e leggi teoriche, andrà davvero preservato in vista dei giorni trascorsi dietro a una scrivania o in giro per il mondo a incontrare clienti e partner.

La scuola appare oggi completamente piegata al nuovo dogma del sapere funzionale, della conoscenza utilitaristica, di un imparare che si giustifica solo se vede all’orizzonte la spendibilità delle nozioni: tutto ciò che non trova un’applicazione diretta, pur tra musi lunghi ed espressioni rammaricate di qualche preside illuminato, è destinato a divenire marginale nella didattica contemporanea. Non solo perché sarà la storia a dar ragione a questa nuova logica, ma anche perché diventa sempre più difficile giustificare l’imposizione di certi temi e di certe materie agli studenti e ai loro genitori, trasformatisi nel giro di qualche anno da utenti di un servizio primario e fondamentale – nonché obbligatorio – in clienti o consumatori di un prodotto esposto ai rovesci del sistema concorrenziale. E la logica del capitalismo ce lo insegna: il cliente ha sempre ragione.

Per fortuna, di tanto in tanto, si leva qualche voce diversa dal coro. La voce di qualcuno intenzionato a rispolverare la magia dell’insegnamento come pratica di trasmissione di un sapere che superi i confini disciplinari e gli steccati dell’applicazione pratica della conoscenza. La voce di qualcuno che probabilmente depreca le nuove norme globali che regolano la nostra società e che pure, sebbene da una prospettiva diametralmente opposta, non si sogna nemmeno di contestare la centralità degli studenti nel processo educativo; studenti che in questo caso, in un lampo d’insubordinazione al lessico freddo della macchina scolastica, magari diventano i ragazzi. Sono loro i protagonisti della scuola; su di loro devono essere calibrate le lezioni e gli argomenti affrontati; sono loro le istanze che devono orientare le scelte di ogni insegnante, spingendolo ad andare oltre le frontiere dei programmi ministeriali e anche oltre quelle altrettanto vincolanti delle nuove competenze multidisciplinari. Un esercito di insegnanti si leva in marcia contro la vecchia scuola e anche contro la nuova #BuonaScuola, riappropriandosi di un armamentario di competenze relazionali e di proposte trasversali allo scopo di trasformare la semplice scuola in una “scuola di vita”.

 Un maestro peripatetico

Capofila di questo schieramento, almeno scorrendo gli scaffali delle librerie, sembrerebbe il maestro Alex Corlazzoli da Cremona, che insieme al suo ex alunno Mattia Costa ha costruito un libretto agile in cui il rapporto scolastico diventa il trampolino di lancio per una serie di conversazioni che portano maestro e allievo direttamente nel mondo, al centro dei suoi temi più scottanti. Il principio-guida di Sai maestro che da grande voglio fare il premier (Add Editore) affiora presto dalle parole di Corlazzoli, pronto a spiegare le inefficienze della scuola di oggi con un assioma che nessuno riuscirebbe a smentire: «Quello che serve nella vita non te lo insegnano a scuola…». Dietro quest’ammissione d’impotenza, o di mancanza, si cela in realtà una scommessa molto ambiziosa, condotta con ostinazione attraverso tutto il volume: spetta ai singoli docenti, ai maestri elementari come ai professori di medie e superiori, colmare quella lacuna e trasformarsi da trasmettitori di nozioni in educatori alla vita. Ecco perché i 17 capitoli del libro non corrispondono alle canoniche materie scolastiche, ma sono dedicati alle grandi categorie del nostro presente: musica e sport, religione e politica, immigrazione e mafie. Un vero maestro non deve aver paura di affrontare argomenti duri o complessi con i propri ragazzi, a patto di riconoscere i confini della propria sfera d’azione, di lasciar esprimere idee ancora acerbe, spesso condizionate dai discorsi sentiti a casa o dai media. Al centro di questa didattica aperta e comprensiva è la conversazione, il dialogo franco e a tratti anche intimo; meglio ancora se peripatetico, secondo un modello di scuola come osservazione e commento in diretta del mondo che scorre. Basta quindi con le aule e il tempo-scuola, basta con zaini e astucci pieni di penne e matite, niente fogli protocollo né verifiche: questa nuova, ideale didattica dovrà ribaltare ogni schema pregresso e tenere, come unico orizzonte, la direttrice che va dagli occhi dell’insegnante a quelli dell’allievo. Basta uno sguardo, infatti, per capire esigenze e desideri dei discenti e, di conseguenza, per mettere la didattica al servizio della loro curiosità e delle loro necessità.

Un simile atteggiamento, prono alle richieste che arrivano dal basso, dimentica tuttavia un elemento fondamentale dell’insegnamento: l’educazione alla vita – per tralasciare un momento la formazione al sapere – deve passare anche per un’educazione alla complessità del mondo. La scuola dovrebbe far sorgere il dubbio a ogni ragazzo che le esigenze e le domande poste fino a un certo momento della vita non sono più sufficienti o non sono abbastanza. L’infanzia e l’adolescenza, si sa, sono fasi della crescita dominate dal pensiero manicheo, binario, spesso sostenuto da un generalismo saccente che fa credere a ogni ragazzo di conoscere già tutte le alternative del proprio giudizio. La scuola invece dovrebbe far maturare la consapevolezza che esistono sempre esigenze e desideri che non erano stati neanche presi in considerazione, e che potrebbero aprire squarci imprevisti, orizzonti impraticabili oggi, ma probabilmente necessari per il domani. Con tutte le attenuanti dell’età e di un corrispondente livellamento del discorso, la tattica educativa adottata da Corlazzoli sembra fin troppo piegata alle richieste del suo ex-alunno, con un candore e una disposizione alla meraviglia che vengono presto fatti a fette dal più trito senso comune di cui il ragazzo si fa portavoce. Oltre gli affascinanti inviti a trasformare l’ora di geografia in un’occasione per viaggiare, e per imparare a pianificare un viaggio – inviti peraltro sempre raccolti e ben sfruttati dallo scrupoloso Mattia –, si staglia infatti il luogo comune, la retorica massmediatica: Matteo Renzi e Matteo Salvini come modelli politici, l’“avventuriero” televisivo Wild Frank come mito moderno.

È questa la sfida più dura dell’educazione, ed è questa la parte più vera del libro di Corlazzoli: insegnare vuol dire scontrarsi contro il pregiudizio, contro gli stereotipi inscalfibili della retorica politica contemporanea. L’impressione, dalle pagine di questo libro, è che però la tecnica della persuasione dolce, della maieutica dialogica non basti. Porsi al livello del proprio giovane interlocutore per metterlo a proprio agio e spingerlo ad esprimersi, a esporsi con le sue incertezze e le sue idee significa spesso aprire il campo alla convinzione che anche con l’adulto quegli argomenti triti possano affermarsi e confermarsi (e lo conferma l’attitudine diffusa per cui alla fine, sarebbero gli adulti a dover imparare dai ragazzi, e non viceversa). Lungi dall’imporre la propria verità – forse la più grave infrazione alla deontologia dell’insegnamento – il docente dovrebbe invece trovare dei modi trasversali di far filtrare una visione più ampia della realtà. Il dialogo diretto, l’affrontare l’argomento di petto per provare a smontarlo e rimontarlo con i propri ragazzi si trasformano spesso in pratiche frustranti e fallimentari. Meglio far maturare altrove gli strumenti della visione e della conoscenza, magari proprio in quei territori franchi della didattica disciplinare, per scoprire poi, magari, che non funzionano solo nel commento al passo del Manzoni, ma possono tornare utili anche per interpretare un fatto di attualità.

 Il maestro “radar”

A soffrire delle insidie del confronto dialogico, d’altronde, non è solo il maestro Corlazzoli. A puntare sul dialogo è anche il protagonista al centro dell’ultimo, comico romanzo di Christian Raimo, Tranquillo prof., la richiamo io (Einaudi). Si tratta di un professore di storia e filosofia che si fa chiamare – o piuttosto  vorrebbe che gli studenti lo chiamassero – Radar, perché è convinto di saper “captare” sentimenti e sensazioni dei ragazzi; a smentire questa sua pretesa è l’infinita serie di confronti diretti su cui si costruisce il racconto di un anno scolastico: dai dialoghi in classe alle chiamate a casa o sul cellulare dei propri alunni, fino alle mail e ai post del blog personale che decide di aprire, in ogni occasione Radar dimostra la sua incapacità di interpretare il ruolo di insegnante, forse per un eccesso di zelo nel pretendere che i suoi studenti si “aprano” con lui confidandogli i tormenti personali, forse – e più probabilmente – per la sua cialtroneria, che si svela drammaticamente quando cerca di non dare a vedere di essere impreparato, o quando si lascia andare a pettegolezzi e maldicenze sui colleghi, o quando aggiorna Facebook durante i compiti in classe, o ancora quando cerca di sostituire le lezioni classiche con improvvisate attività alternative, del tutto inadeguate al livello dei suoi studenti. I quali, contro ogni previsione, si dimostrano sorprendentemente preparati e scrupolosi nell’affrontare l’anno che li deve portare alla maturità: chiedono al prof. di spiegare Leibniz, lo colgono in fallo quando si confonde a proposito delle categorie kantiane, ingaggiano il fratello di un compagno perché presenti alla classe un approfondimento sulla materia e decidono di cambiare scuola in massa quando la preparatissima supplente, arrivata per sostituire Radar qualche settimana, finisce la sua supplenza e trova incarico in un altro istituto di Roma.

Grottesca e spietata, la rappresentazione della scuola fatta da Raimo è al limite dell’irreale, ma nasconde nuclei di verità che dicono molto sulla scuola di oggi. A partire dallo speciale Patto Educativo che Radar sottopone ai ragazzi all’inizio dell’anno: «È necessario valorizzare insieme una sincerità, una schiettezza, utile a entrambe le parti. Quindi vi dico, con il cuore in mano, che se ci sono osservazioni… anche polemiche, anche critiche… io sono qui. Il prof? Presente! Aperto, curioso. Perché occorre discutere, ragazzi». Professore e studenti allineati, tutti sullo stesso piano, con questi ultimi legittimati a intervenire e anche a criticare, ma meglio se a domandare, a chiedere il sostegno di un adulto che in realtà vorrebbe solo sentirsi apprezzato, importante, un riferimento per questi inverosimili diciottenni. Per favorire l’attuazione di questo patto, Radar mette in campo una strategia educativa raccogliticcia e sfasata: lavoretti che neanche alle scuole elementari, proposte alternative come un focus sulla musica anni Ottanta fino alla straziante somministrazione di patetiche poesie a una classe sempre più insofferente e ostile.

D’altra parte, è difficile aspettarsi qualcosa di diverso da un professore che ha come modello il protagonista dell’Attimo fuggente, quel professore che ai suoi studenti non offriva altro «se non la passione fino in fondo, il senso sacro della “vita della scuola”». Il personaggio di Raimo è paradossale, eccessivo, ma con la sua grossolana sfacciataggine rivela un equivoco in realtà molto diffuso nella classe docente: scambiare la scuola per la famosa “palestra di vita”, pensare che a questa età, per i ragazzi, sia più importante fare esperienze che non costruire la basi di una cultura, o quantomeno di una disponibilità alla conoscenza. A finire nel mirino, naturalmente, è la programmazione disciplinare, la «pratica più inutile tra tutte le pratiche inutili dell’asfissiante burocrazia scolastica»: per chi cerca un rapporto empatico con i propri studenti l’unica cosa che conta non sono i contenuti della lezione, ma le “modalità relazionali”, gli atteggiamenti e i toni di voce su cui costruire un dialogo intergenerazionale che tradisce troppo spesso il desiderio dell’adulto di essere compreso e addirittura incluso.

 Il tempo di imparare a conoscere

Eccoli, allora, i rischi dell’insegnamento di oggi: una continua rincorsa all’apprezzamento,  all’approfondimento che devii dal programma ma esponga chi insegna all’ammirazione dei ragazzi, finalmente coinvolti da questa scuola altrimenti opprimente e fredda. Ciò che si perde, in tutto questo, è il ruolo del docente come adulto, necessariamente – e fecondamente – distante dai propri alunni; un adulto che dovrebbe essere preoccupato più di trasmettere delle conoscenze e delle competenze, di assegnare compiti (ebbene sì!) e di educare ai doveri, a ciò che si deve fare anche se non si vuole, e meno di apparire come un “educatore morbido”, che attraverso la dolce arte del dialogo tenta di costruire un rapporto personale e confidenziale con i propri ragazzi. Il rischio è di ricadere nella trappola del professor Keating, che strappava le pagine dell’antologia e leggeva storie e poesie in classe, dimenticandosi di fare lezione. Lo ricorda anche Giusi Marchetta in Lettori si cresce (Einaudi), un fondamentale saggio narrativo sulla lettura e sull’insegnamento: sarebbe fin troppo facile fare così, e riscuoterebbe pure grande successo tra gli studenti, che rimarrebbero affascinati dal professore-istrione: «Sarebbe bellissimo, ma non sarebbe insegnare». Gli studenti hanno bisogno di un esempio, di un modello a cui tendere, non di un amico con cui trascorrere il tempo. Per una birra insieme, per una pizza dopo la scuola, per un concerto o per un viaggio con i ragazzi ci sarà sempre tempo: il tempo di studiare, di imparare a conoscere (gratuitamente e senza giustificazioni immediate), di educare la propria volontà, invece, è solo adesso, e va sfruttata. L’occasione è unica, e non può essere sprecata.

Ed è inutile ricordare che prima di attribuire colpe e responsabilità ai nostri alunni, è opportuno riconoscere le nostre, e lavorare per colmare la mancanze e ridiscutere le priorità.