È di qualche giorno fa la notizia che il cinema Apollo chiuderà i battenti per fare spazio a un nuovo Apple Store in centro a Milano. Il dibattito si è subito acceso, tra strenui difensori dello storico spazio e favorevoli all’avvento di un nuovo tempio dell’azienda di Cupertino. Lo scontro in rete rischia però di scivolare fatalmente nel retorico. Chi difende l’Apollo parla di un attacco alla cultura in generale, chi promuove il nuovo Store accusa i polemici di obsolescenza e ricorda come il cinema sia paradossalmente più accessibile nell’era dei servizi streaming che in quella analogica.  Premesso che l’esperienza di una sala cinematografica non potrà mai essere sostituita da nessuna fruibilità da device o tv – e non è una posizione romantica, bensì un fatto puramente percettivo – il rischio principale consiste nel fatto che in futuro avremo più difficoltà ad accedere ad alcune pellicole, i cosiddetti film d’essai, già adesso mal distribuiti e di certo di scarso interesse per i fornitori di servizi streaming. L’Apollo, insieme ad altri pochissimi cinema milanesi, come l’Anteo, l’Ariosto o il Beltrade, offre una selezione alternativa ai multisala e per questo non rappresenta un fastidioso retaggio di un passato destinato a cedere il passo, ma ricopre un ruolo ben definito nell’offerta di cinema milanese. Alla fine del mese scorso, l’Apollo è stato tra i pochi cinema a ospitare, come da qualche anno a questa parte, la rassegna intitolata “Le vie del Cinema”, unica occasione per poter assistere alla proiezione dei film più significativi delle ultime edizioni delle mostra di Venezia e Locarno.  Il modo migliore per descrivere la funzione di un luogo come l’Apollo potrebbe quindi essere quello di raccontare due esempi di film che ho appena potuto vedere in questo cinema in “sfratto” e che in futuro faremo sempre più fatica a trovare nelle sale milanesi.  Le scelte cadono sul primo caso di un vincitore venezuelano nella storia del premio veneziano e sul ritorno di uno dei più importanti registi a livello mondiale. Stiamo parlando di Desde allá di Lorenzo Vigas Francofonia di Aleksandr Sokurov. Film lontanissimi l’uno dall’altro per stile, poetica e intenti, accomunati però da un’urgenza comune: la ricerca di nuove forme per raccontare una storia.

Desde allá

A Caracas c’è un uomo a caccia. Dall’aspetto dimesso e grigio, si mimetizza alla fermata di un autobus, punta la preda, la avvicina e gli offre una mazzetta di soldi. Desde allá è la storia di Armando, cinquantenne gestore di un negozio di protesi dentarie, omosessuale e adescatore di ragazzini dei bassifondi. Tra lui e questi giovani però non vi è mai contatto fisico, Armando chiede loro solo di spogliarsi. Lo stesso fa con Elder, all’apparenza l’ennesima evasione dalla sua vita regolata fino ai limiti del paranoico, in realtà l’origine di un cataclisma interiore, che condurrà entrambi a mutamenti profondi. Desde allá  ricorda con la sua atmosfera disperata e un silenzio carico di rabbia, il Toni Manero di Pablo Larrain, il cui principale interprete è l’impressionante Alfredo Castro, protagonista anche nella pellicola vincitrice a Venezia nel difficile ruolo di Armando. Attraverso inquadrature e ritmo presi in prestito dai fratelli Dardenne – la cinepresa a spalla che segue il protagonista mentre attraversa strade e corridoi – osserviamo una Caracas rigidamente divisa in classi sociali, dove il gradino più basso è occupato da una moltitudine di pasoliniani ragazzi di vita, alla mercé di borghesi intenti a soddisfare i loro desideri. Le caste restano separate, i mondi non si toccano, come Armando non tocca i ragazzi che compra: li osserva, come da dietro un vetro. Quando decide di accogliere Elder nel suo spazio privato, Armando dovrà scegliere se abbandonarsi all’invasione o mantenere la propria posizione di osservatore privilegiato. La trama è lineare, lo svolgimento altrettanto. Il film ha il suo punto di forza proprio in questa sua nettezza, che sottolinea la progressiva crescita di intensità man mano che i minuti passano. Castro delinea con estrema economia di gesti e sguardi intensissimi un uomo irrisolto, arbitro e vittima in una vicenda che solo apparentemente può controllare. Difficile dire se il film valesse il Leone d’Oro, non siamo di fronte a un’opera imprescindibile, ma sicuramente ha il merito di ricordare quanto poco basti al cinema, in termini di mezzi, per raccontare le meccaniche del mondo.

Francofonia

Aleksandr Sokurov è da tutti considerato uno dei più importanti cineasti viventi e nel 2011 ha vinto il Leone d’oro con un il suo potente affresco sul Faust di Goethe. Attento al tema del ruolo della cultura nella costruzione dell’identità nazionale e sovranazionale, il regista, in quest’ultima opera, affronta il mito del Museo del Louvre, intersecando piani temporali e diegetici fino a far esplodere il mezzo cinematografico, a favore di un’urgenza divulgativa. Da questo lavoro traspare infatti la volontà di Sokurov di dimostrare il ruolo fondamentale dell’arte nella storia e nella formazione di un popolo. Non esisterebbe Francia senza Louvre, il più imponente contenitore d’arte del mondo, una città nella città, con i suoi sotterranei e le sue regole. Il film è un puzzle di storie e spunti di riflessione, dall’occupazione del Museo da parte dei nazisti, alla comparsa dei fantasmi/guida di Napoleone e Marianne che si aggirano misteriosi per le grandi sale, passando per la comunicazione via Skype tra il regista stesso e il capitano di un cargo navale intento a trasportare, attraverso un mare in tempesta, un carico fragile e di inestimabile valore come delle opere d’arte. Più che un racconto si tratta di una visionaria elegia, in cui gli stessi capolavori del Louvre sembrano animarsi e avere un copione di fronte a un movimento di macchina magistrale ed epico. Per Sokurov non si tratta del primo film incentrato su un importante museo. Il precedente è Arca russa, film straordinario sull’Hermitage, dove la storia passa letteralmente attraverso le sale dell’immenso edificio, tra evocazioni e spiriti guida, in un unico, vertiginoso piano sequenza di novanta minuti: la storia del popolo russo, in un solo maestoso respiro. Sokurov si conferma regista di impareggiabile sensibilità, fermamente convinto del ruolo educativo del cinema.

Questi sono solo due esempi di film che sempre più spesso gli amanti del cosiddetto film d’autore andranno a ricercare in sperduti cineforum di periferia, nonostante queste opere abbiano tutt’ora un forte seguito e possano garantire una buona affluenza di pubblico, come il giorno in cui sono stato all’Apollo per la proiezione di Desde allá, dove il gestore ci ha chiesto preoccupato se fossimo comodi in sala: era da tempo che non la vedeva così piena.