«Siamo cose leggere che sillabano e vivono»: credo che questo verso rappresenti molto bene lo statuto della poesia di Maria Borio. Purtroppo oggi la leggerezza nel mondo letterario e poetico è divenuta una ‘lezione americana’, ma fortunatamente Vite unite sfugge a questo paradigma, o meglio, a questo pregiudizio interpretativo: è un libro che, come l’incedere dell’io, ha un’esistenza ibrida, sfuggente e corporea, racchiusa nell’iconicità del segno poetico. Il dialogo tra me e Maria si è sviluppato lungo questa traiettoria, per via telematica tra Genova, Stanford e Perugia, secondo un modello ‘biologico’: ogni parola che il lettore leggerà fa parte di una ‘vita unita’, leggera, che sillaba e vive. Se escludiamo la prima domanda (che in realtà già posi a Maria prima della pubblicazione dei quaderni), ogni mio ragionamento intorno al libro si inserisce armonicamente, come recita una delle epigrafi del libro, tra le risposte di Maria. Il dialogo prosegue, ma spero di aver colto in questa sede almeno alcuni dei frammenti che costituiscono la biologia di Vite unite.

Alberto Comparini: Prima di addentrami nel testo vorrei rimanerne alle soglie per un momento. Potremmo discutere separatamente del titolo, della struttura e della forma di Vite unite, ma la tua silloge non mi sembra liricamente scomponibile. Il tuo quaderno mi sembra invece un corpo unico, materialmente costruito su una geometria testuale dove la voce lirica emerge come presenza fattuale. Ora, magari sbaglio, ma questa è stata la mia impressione dopo diverse letture: potresti spiegarci la geometria lirica del tuo quaderno?

Maria Borio: Il mio ‘quaderno’ nasce per accumulo. Sento vicina la parola che usi, ‘quaderno’, perché credo che attraverso di essa si esprima l’idea di una composizione fattuale progressiva, molto più di ‘silloge’ o ‘raccolta’, che è al momento il vero stato della mia scrittura in poesia. C’era un nucleo di testi pubblicati sull’«Almanacco dello Specchio», nel 2009. Intorno ad essi è ne sono cresciuti altri, in rapporto ai quali la consapevolezza tra me e la scrittura credo, spero, sia andata aumentando. La consapevolezza è difficile: in rapporto alla scrittura, soprattutto, almeno quando ti trovi in una fase della vita che è ancora di formazione, come quella dai venti ai trent’anni. Solo quando ho saputo che le poesie sarebbero state incluse nel XII Quaderno di Marcos y Marcos ho cercato una geometria e si è formata intorno a due riflessioni o immagini che mi premono da alcuni anni. La prima è una volontà di sdoganare la voce che parla (io, soggetto, protagonista) dalla rete di necessità lirica che porta con sé dal Novecento: non voglio sopprimerla, non voglio camuffarla, ma tentare di porla in una rapporto di specularità con altro rispetto a sé, senza voler abbattere a tutti i costi i baluardi della lirica che secondo me appartiene a un impulso espressivo universale. Mi piace pensare la poesia come un vetro che si forma dalla sabbia attraverso il fuoco, che si modella e che alla fine assume una forma: la sabbia e il fuoco sono la metrica, la retorica, la lingua, le idee, le immagini e il risultato è lo stare di un’espressione, che ha le sue necessità linguistiche e di pensiero forgiate nella trasparenza naturale del vetro. Penso anche alla filigrana. In questo processo il cosiddetto ‘io’ è allo stesso livello delle tecniche, delle immagini, e va a far parte del conglomerato vitreo per fusione insieme a tutto il resto. È un tentativo iniziale. Vedremo come andranno le cose in futuro.

Motivata da questa spinta, mi sono trovata davanti un verso di Zanzotto che dice “improvviso ritorno a tu”, da La beltà se non sbaglio – e l’ho scelto come titolo della seconda sezione, a cui segue Di due, di fatto un micro canzoniere d’amore. Improvviso ritorno al tu e Di due stanno nel mezzo del mio ‘quaderno’. All’inizio e alla fine ci sono due sezioni che cercano di presentare una idea forse più stringente, per me, della prima. Non riesco a non smettere di pensare, quando scrivo, al fatto che nelle cose e nei modi in cui viviamo oggi, nella rete globale che ci tiene, nelle possibilità di comunicazione che abbiano, non possa esistere un isolamento vero e proprio. Possiamo essere soli, certo, a livello psicologico, fisico…, ma nella somma delle esperienze, quotidiane e non, provando anche a straniarci per un secondo da noi stessi, anche la più oscura e anonima esperienza individuale può risultare parte di una serie di gradi di realtà intuibili, condivisibili. Non intendo soffermarmi sui rapporti tra il pubblico e il privato, sulle questioni dei reality show e simili; e non intendo affermare che tali gradi di realtà condivisibili possano corrispondere a un ‘noi’ comunitario (la storia sembra aver perso una sua narrazione condivisa, il senso di un destino condiviso) . Mi riferisco, piuttosto, al fatto che il sistema di comunicazioni, di spostamenti di cui godiamo ha reso le esperienze, anche solo nella virtualità, molto più ‘pensabili’. Questo ‘essere pensabili’ non rappresenta necessariamente una presa di coscienza, né tantomeno una verità. La realtà assoluta non si può trattenere, ma forse è decisamente più facile oggi avere un pensiero su una vita anche lontana dalla nostra esperienza comune. La mia idea non ha legami con il postmoderno. Il postmoderno è dietro di me. Abbiamo introiettato fenomeni in corso dagli anni Novanta, quegli scambi glocal/local di cui molto si è osservato e teorizzato. In Europa, tutto ciò, per la generazioni dei nati tra anni Settanta e anni Ottanta, è diventato naturale, parte essenziale della vita relazionale e lavorativa.

Due realtà, come quella del mondo naturale e quella dei rapporti tra le generazioni, rientrano in questo universo dei ‘pensabili’, delle connessioni (non analogie). Ho scelto Il cielo come titolo della prima sezione: il cielo non rappresenta niente di metafisico, neppure un’idea di natura panteistica, animistica…; il cielo è la realtà delle connessioni, dei rapporti in cui milioni di persone si ritrovano ogni giorno, fisicamente o virtualmente. Mi era passata sotto gli occhi la parola ‘armonia’ in una sua accezione greca (l’ho inserita nell’epigrafe) che significa ‘collegamento’, ‘connessione’, ‘unione’: il cielo è questa armonia, ma nessuna pacificazione, nessuna facilità. E in questa particolare armonia rientra anche il rapporto tra le generazioni che affronto nell’ultima sezione, un punto delicato per la società in cui viviamo oggi, secondo me, almeno in Italia. I miei vetri vorrebbero arrivare come esperienze attraverso cui guardare e sapere che le connessioni (Vite unite) sono virtuali e reali, mai facili, mai necessarie, forse nemmeno evidenti, ma presenti, e tragicamente leggere per questa loro condizione. La storia ha perso una narrazione condivisa e si forma per reti in cui gli individui, soli, hanno a disposizione possibilità di esperienze ‘pensabili’: nonostante tutto, in mezzo all’universo del rischio, hanno a disposizione forze per connettersi, rifondare interessi reciproci. Siamo dentro a un momento di rifondazioni, spero che la velocità precaria, lo spasmo e l’effimero di quello che è stato chiamato postmoderno venga definitivamente superato.

Parli della lirica come impulso espressivo universale. Come coniughi questa necessità alla trazione narrativa del macrotesto? O meglio: ritieni necessaria la dimensione narrativa nella lirica? E in che termini ti inserisci in una tradizione lirica come quella italiana, dove nel secondo Novecento il ‘libro di poesia’ ha sostituito l’autonomia testuale della lirica?

L’arte della scrittura forse nasce da alcune posture essenziali (prima ho parlato di ‘impulso’, ma anche il termine ‘postura’ mi pare buono, o forse ‘attitudine’). Nelle forme in cui si manifestano, esse possono ovviamente interagire. Ci può essere narrazione nella dimensione lirica, così come ci può essere lirismo nella dimensione narrativa. Ogni dimensione è necessaria se riesce a dar luogo a una ‘integrità espressiva’, qualsiasi sia la sua connotazione formale. Credo che all’idea novecentesca dei generi stia subentrando un’altra prospettiva, più fluida. Rispetto alla tradizione italiana del secondo Novecento, avverto la necessità di liberare l’idea di ‘libro di poesia’ da una percezione monolitica. Il ‘libro di poesia’ non dovrebbe essere letto esattamente come un romanzo o un canzoniere vecchio stampo: è qualcos’altro. Bisogna far interagire la dimensione del ‘libro’, che comunque non è male che ci sia, con quella della ‘poesia’, che può costruire anche scatole, ma a direttrici multiple, che parla a più livelli, a strati, ad accumuli, a rarefazioni e intensificazioni.

Parliamo del tuo ‘libro di poesia’. È uno dei primi libri che leggo, diciamo di quella stagione che va dagli autori nati dagli anni Sessanta in poi, dove la voce di Sereni è più forte di quella di Montale, mentre la presenza del poeta genovese più sul piano del significante. Le prime due sezioni, Il cielo e Improvviso ritorno al tu – ma poi il meccanismo si ripete, quasi a forma chiastica, con Di due e Generazioni – mi sembra che mostrino chiaramente questo tuo rapportarsi a una specifica tradizione poetica. Mi riferisco in particolare agli Strumenti umani di Sereni e alle Occasioni di Montale. Certo, senza Satura la poesia oggi avrebbe tutta un’altra forma, ma questo è un altro discorso. Qual è il tuo rapporto con questi due libri?   

Non so fino a che punto possa esserci un debito tra Sereni e la mia scrittura, non riesco a quantificare nel dettaglio. So, tuttavia, che quando ho letto gli Strumenti umani per la prima volta, a ventuno-ventidue anni, il mio modo di intendere la poesia fino ad allora è cambiato. Venivo da una esperienza liceale molto conservativa, come la maggior parte degli studenti di liceo classico in Italia non avevo avuto la possibilità di spingermi oltre Montale – il Montale delle Occasioni e della Bufera. All’inizio non riuscivo a trovare la matassa di certi fili retorici e sintattici delle poesie degli Strumenti umani, soprattutto nell’ultima sezione, ma trovavo una musica e un ritmo molto vicini a una sorta di fisicità in versi di cui sentivo il bisogno. Le parole mi sembravano dilatarsi e condensarsi, creando immagini e relazioni mobili, eppure di una precisione semantica densa, esatta, ma non rigorosa. Con questa plasticità tragica sono riuscita a configurare un mondo, quello di Sereni, e ho introiettato una nuova idea di ciò che la scrittura in poesia poteva rappresentare per me. In quel periodo non avrei mai reso pubblico quello che scrivevo, anche perché nasceva da un bisogno di superare situazioni concrete che mi causavano turbamento, mancanza, necessità, sofferenza. Ero in uno stadio che non potevo condividere. Il rapporto con Montale, invece, è avvenuto sempre per ragioni ‘di scuola’. Alla maturità ho fatto un tema su Montale, alla laurea specialistica mi sono avventurata in una tesi su Satura. Credo che Montale mi sia servito più per capire la poesia italiana del Novecento che per mettere me stessa di fronte a ciò che per me significava la scrittura in poesia. Mi hanno chiesto diverse volte se la mia poesia avesse legami con Montale. Se fossi nata in un altro paese, se avessi alle spalle un’altra tradizione, quali sarebbero potute essere le reazioni? Ma ho una formazione umanistica italiana e i miei principali interlocutori, al momento, si trovano nelle mie stesse condizioni.

Volevo chiederti di commentare una poesia, ma rileggendo il tuo quaderno l’occhio mi è caduto su una fortissima presenza del mondo naturale, in particolar modo gli alberi. Ricordo una delle tante belle pagine di Per interposta persona di Enrico Testa, dove il critico rimarcava proprio l’assenza della natura – se non per rari casi – nella poesia del secondo Novecento. Come trova posto la natura nella tua poesia? Che ruolo ha? E perché esiste questo mondo?

La natura è una tra le presenze della mia esperienza. Sono cresciuta in campagna e inevitabilmente molte immagini di quell’ambiente si sono radicate in me. Soprattutto, nella fase a cui appartengono le poesie del ‘quaderno’, credo di aver rielaborato un retroterra che è inevitabilmente legato a queste immagini. La natura nella mia poesia non ha altri significati se non quello di essere scoperta come una esperienza al pari delle altre. Non c’è un maggiore o un minore, un segno salvifico, un correlativo, una simbologia segreta. La natura mi ha attraversata e la porto con me. Gli alberi mi hanno dato sempre forza. In particolare ho in testa l’immagine di una vecchia quercia, tra una vigna e un piccolo lago artificiale, che ha rappresentato sempre un punto di orientamento. In futuro potrò elaborare una esperienza urbana, molto probabilmente europea. Non credo, però, che questa potrà avere la stessa valenza della poesia urbana del secondo Novecento. Il salto è dalla campagna umbra alle reti internazionali. Non si è formato ancora in me un esclusivo mondo urbano che possa definirsi tale, così come siamo stati abituati a leggerlo nella poesia – almeno in quella italiana – del secondo Novecento.

“Adesso tu ritorni, mi cambi / le parole con i sogni, / ma ho fame di forze accorte. / Vedo la quercia / sempre accanto alla vigna, / lontana la strada / che si snoda immutata”. Mi commenti questi versi? Nella poesia da cui essi sono tratti, troviamo molti dei temi e delle parole chiave del tuo quaderno. Eppure il cielo, il tu, le stagioni umane, le strade – tutto è soverchiato dalle radici e dalla potenza semantica da “quella quercia / sempre accanto alla vigna”.

A un certo punto, come in uno scatto cinematografico, il racconto della natura è interrotto e compare una persona: è una persona reale, che ha segnato una specie di rito di passaggio, che non apparteneva al mio passato nel momento in cui ho scritto, ma che in quel momento sembrava potesse arrivare anche dal mio passato. Era febbraio e pensavo a un mese estivo. Cercavo un dialogo maturo con questa persona così importante per la mia vita in quel momento, un dialogo che invece pareva sfumasse in divagazioni continue dalle quali non riuscivo a divincolarmi. In quella lotta interiore ho creduto che quella persona stesse rinunciando con paura a qualcosa. Ma la trasfigurazione e il trasporto possono capovolgere e stravolgere: il passaggio mio è stato colato in immagini di natura come una corrente che porta con sé l’idea dell’infanzia, dell’adolescenza, della maturità, come passano…  È sempre una lotta interiore. Allora mi è tornata la quercia della campagna di fronte agli occhi. Infanzia, adolescenza, età adulta: slittano l’una nell’altra ricordando un paesaggio?

Perché “Siamo cose leggere / che sillabano e vivono” che afferriamo “ogni parola / come i rami di un albero / che ancora vive a metà / e l’altra metà è morta / ed è a un balzo / tra me e la finestra”?

È l’incipit di una poesia del duemilasei o duemilasette. Era tra quelle uscite sull’«Almanacco». Mi ricordo che mi coglieva un pensiero ossessivo: nell’esperienza, nei desideri, nella volontà, nelle azioni le persone possono passare come cose leggere, vivere e poi dimenticare, oppure vivere e poi accantonare l’esperienza in una parte del vissuto la cui importanza va scemando. Ciò può essere raccontato con un’idea di leggerezza contraddittoria. Non assomiglia a quella elegante della lirica antica, né alla grazia tonale estatica di un Sandro Penna, né tantomeno alle raffinate proiezioni di equilibri che ha teorizzato Calvino. Questa leggerezza paradossale è un moto d’esistenza che sembra staccarsi dall’esistenza, è leggera perché animata da una specie di spinta di levitazione, ma è profondamente tragica e turbante. È una leggerezza che richiama la prospettiva aerea di Leonardo. Si osserva con la fascinazione di ciò che appare in un primo momento, quella per un’esistenza brillante che resiste in una sua pronuncia – a me pare che molte esistenze possano essere descritte con un sillabare, un dire per nuclei essenziali che compongono l’insieme; si osserva poi che la fascinazione iniziale inizia a creparsi e allora può entrare in gioco l’ironia; infine, si osserva che l’unità, l’integrità completa di fronte a qualsiasi esperienza o esistenza è illusoria, tutto è soggetto a un’ambivalenza, un compromesso, una dialettica. Allora, mentre pensiamo al moto leggero delle esistenze che passano o che sono passate può capitarci di vedere la contraddittorietà, l’ambivalenza e il loro incedere leggero e tragico. L’albero può avere una metà viva e una metà morta; la visione, da un’unità iniziale, viene filtrata attraverso il vetro di una finestra. È anche la leggerezza di una scrittura apparentemente chiara a livello semantico e retorico che, tuttavia, costruisce più livelli di percezione e di prospettiva.

“Apparivano le geometrie, / le finzioni, e tutti gli abitanti, / scivolando vicine, segrete, / spaccate dal sole scivolando / di bocca in bocca di corpo in corpo, / si univano alle persone vere, / mi facevano una figura”. Quale prospettiva e livelli di percezioni emergono dalle geometrie del tuo corpo?

Questi versi fanno parte di una poesia che parla di geometrie che nella percezione individuale vengono liquefatte. Le geometrie esterne sono quelle di piazza S. M. Novella a Firenze: un equilibrio assoluto tra la facciata della chiesa, le logge, i giardini, i palazzi. Un’armonia cristallina che si riflette in una persona (il soggetto) che cammina e si trasforma in vertigine: l’immagine è quella delle linee essenziali e pulite che ad un tratto diventano proiezioni delle finzioni che le persone possono essere tentate a immaginare intorno a sé. L’equilibrio si sfalda, la piazza collassa. Le geometrie sono trasfigurate nei corpi della gente e arrivano infine al soggetto come attraverso un doppio filtro. Le geometrie di S. M. Novella si rifondano nel soggetto, diventano qualcos’altro che vorrebbe riprodurre una relazione liquida tra la prima persona, le altre persone e gli edifici, la storia che gli edifici portano. Non c’è surrealismo in tutto ciò. La realtà è fatta di più piani, ma non è onirica.

Quale realtà si cela, allora, dietro al desiderio di “smettere di dirmi io”? Nell’ultima poesia, dove ricordi che “non siamo più eroismo”, si percepisce una fortissima tensione verso uno spazio indefinito, sotteso da “un’arca invisibile” che “ci libera”: quale direzione prende la tua poesia in Generazioni?

Generazioni è la sezione dove si intersecano diversi piani di realtà a ognuno dei quali corrisponde uno stato generazionale. Forse, nel procedere delle poesie che formano questa sezione, i vari stati possono confondersi in uno solo. L’io in prima persona ne contiene altri che non sono maschere né proiezioni ironiche, ma parti autonome, stati in connessione. La poesia che si chiude con l’enjambement “anch’io vorrei smettere di dirmi / io” fa un’inquadratura su una persona ipotetica che dovrebbe appartenere alla generazione dei nati negli anni Quaranta, quella che ha fatto la rivoluzione del Sessantotto e che ha fatto un’Italia diversa rispetto a quella in cui la mia generazione vive oggi. Credo che rappresenti un’Italia emblematica. La paura e il rischio più grande è che il dialogo tra le generazioni venga subissato, che ognuno non riesca a smettere di “dire io”, che non si riesca a essere veri padri che sono stati figli e veri figli che saranno padri. Nati negli anni Quaranta, negli anni Cinquanta/Sessanta, negli anni Settanta/Ottanta come si relazionano, di fatto, oggi nel mondo degli scambi interpersonali, nel mondo del lavoro, in rapporto alla storia, alla memoria, a un’idea di futuro e, perché no, a un’idea di progresso? Si avverte il bisogno di una capacità di avere ruoli certi, di sentirsi conformemente parte della propria età, di credere a un senso civico? Alcuni dicono che il futuro non sia più pensabile. La storia, come narrazione condivisa e come senso di un destino condiviso, oppure come riferimento a un’ideologia, non è più pensabile. Ma, guardandomi alle spalle, io penso che il carnevale postmoderno e i cannibali sono un abbaglio. Non si può annullare completamente, anche in nome di una assoluta legge del profitto e del godimento momentaneo, il  bisogno umano di interesse reciproco, o il fatto che l’economia nasce per l’uomo e non viceversa. Si può farlo per una moda, per una stagione. Mi sono figurata questo bisogno come una spinta che si proietta in uno spazio neutro, senza una distorsione superegotica dell’eroismo, in un’arca invisibile che ci libera perché ci tiene insieme, in dialogo, nella conoscenza del posto che abbiamo, che abbiamo avuto e forse nell’idea di quello che avremo. Contro ogni conservatorismo o moto reazionario, Generazioni vorrebbe essere un invito a guardarsi dentro, a interrogarsi nel nostro posto reale in un’esperienza che appartiene sicuramente a noi, ma che esiste anche perché nonostante tutto esistono altre esperienze intorno. L’eroismo vero nasce da domande e da azioni elementari. In Italia oggi mi sembra che si dovrebbe avere almeno più audacia per fare queste domane e queste azioni.

Vorrei chiudere tornando all’inizio. Se Generazioni, come giustamente noti, “vorrebbe essere un invito a guardarsi dentro, a interrogarsi nel nostro posto reale in un’esperienza che appartiene sicuramente a noi, ma che esiste anche perché nonostante tutto esistono altre esperienze intorno”, quale vita nasce «all’instante dentro queste mani» nelle tue Vite unite?

Una volta mi è stato detto che la poesia è il linguaggio dell’implicito. Tutto nasce da qui, dare un linguaggio a una storia di istanti.


quaderno di poesia

Qui si possono leggere le altre puntate del ciclo dedicato ai poeti del Quaderno di poesia Marcos y Marcos:

Tommaso Di Dio, Il crollo e il canto – per il XII Quaderno di poesia

Alessandro Giammei, Fingendo te. Intervista a Maddalena Bergamin

 

Immagine di copertina: @Alighiero e Boetti