Tra agosto e settembre sono usciti così tanti dischi meritevoli di un ascolto da mettere in seria difficoltà lo sforzo catalogatore di Nick Hornby: il ritorno dopo dieci anni dei New Order, orfani di Peter Hook, o quello incolore dei Libertines, gli ep di due tra i giovani più apprezzati dalla critica – FKA Twigs e Mac De Marco – e lo scintillante debutto di Petite Noir hanno ormai elevato a patologico il bisogno di una Top Five aprendo spazio a inquietanti domande: perché Top 5 e non Top 8 o 9? Lungi dal voler polemizzare, ci adeguiamo a questa convenzione come a quella di non incrociare i bicchieri in un brindisi, presentandovi i cinque dischi più chiacchierati degli ultimi due mesi.

Beach House – Depression Cherry

Nell’era digitale è divenuto quasi impossibile allinearsi alla velocità con cui le informazioni vengono scambiate o resistere alla quantità di stimoli esterni a cui siamo quotidianamente esposti, ma da una decina di anni a questa parte, in un luogo remoto, c’è una casa sulla spiaggia pronta ad accoglierci. All’apparenza lugubre ed essenziale, una volta entrati, la casa rivela uno spazio arioso in cui i pochi arredi vengono spostati di tanto in tanto per confondere i visitatori. Da fuori invece si sentono vecchi organi risuonare assieme all’eco di una chitarra e di una voce di cui non si comprende l’origine: sono due americani, Victoria e Alex, a vivere lì e a divertirsi un sacco nel loro sodalizio artistico monogamo in cui ripetono all’infinito una canzone.
Depression Cherry non è altro che il quinto disco dei Beach House, duo di Baltimora famoso per l’ottima qualità del catalogo, e quest’ultima fatica poco aggiunge a quanto fatto in precedenza, ma è comunque abbastanza per non perdere la magia della loro formula segreta. Rispetto a Bloom, il tono è meno rigoglioso e complesso: le ritmiche appaiono maggiormente nascoste dietro tastiere e chitarre, ma la voce androgina di Victoria Legrand è altrettanto intensa e ispirata. Nove canzoni che partono con Levitation, perfetto esempio dell’equilibrio chiaroscurale del gruppo (“There’s a place I want to take you…” ci invita a seguirla la cantante), passando per il singolo Sparks che sembra scritto dai My Bloody Valentine di Loveless, o la bellissima Beyond Love dove due note di una chitarra effettata svelano ciò che si nasconde oltre l’amore. Non c’è nessun passo falso e l’epilogo del disco, Days of Candy, con il suo lento incedere dall’iniziale turbine di voci agli arpeggi e i tremolii chitarristici, è perfetto.

Kurt Vile – B’lieve I’m Going Down

Ha una voce rauca come quella di J Mascis, un tono aspro e indolente come Lou Reed, e le sue dita pizzicano le corde della chitarra creando infiniti arpeggi che rivelano la natura solitaria del suo mondo musicale. Lui è Kurt Vile e, per chi non lo conosce, è quel pazzo che lasciò i concittadini e amici War on Drugs (nel 2008) per concentrarsi su un percorso solista che, a dirla tutta, già raggiunse vette altissime con i due dischi precedenti. Ascoltando quest’ultimo B’lieve I’m Going Down, non si può che apprezzare ancora una volta la scelta di Kurt: considerato il suo talento, non ci sarebbe piaciuto vederlo giocare a nascondino dietro i riverberi dell’altro gruppo. La crisi identitaria narrata nel singolo Pretty Pimpin sintetizza bene le sue qualità migliori offrendo il lato più ironico e scazzato assieme a un notevole senso del ritmo che rende questa canzone apparentemente molto semplice. Nei tredici brani di questo disco c’è molto e quasi tutto è di valore: dalla meditativa psichedelia di Wheelhouse al banjo di I’m an Outlaw passando per il rock di Dust Bunnies, Kurt Vile non sorprende mai con manierismi a effetto ma impressiona con una personalità perfettamente a suo agio con il lato più classico della tradizione americana, rivelando in alcuni episodi (Life Like This) la passione per l’indie degli anni Novanta (Pavement su tutti) o resuscitando con il suo stile chitarristico (All in a Daze Work) la fragilità di Nick Drake in Pink Moon.
Il disco si chiude con uno dei pezzi più belli scritti nella sua carriera, Wild Imagination, e non sarà difficile ritrovarsi a premere play un’altra volta.

Verdena – Endkadenz vol.2

A distanza di sette mesi dal fortunato primo volume, qualche settimana fa i Verdena hanno svelato il gemello separato alla nascita (per ragioni commerciali) e tenuto al salvo dalle orecchie indiscrete dell’ormai folto gruppo di seguaci. Questo secondo capitolo va a completare un’opera tanto ambiziosa quanto riuscita: non era facile confermare quanto di buono fatto con Wow e questo Endkadenz non può essere archiviato come un semplice ibrido tra le sonorità ruvide di Requiem e il pop psichedelico del predecessore. I Verdena hanno ormai costruito una realtà in cui i Melvins coesistono pacificamente con i Flaming Lips, cantando in un italiano un po’ visionario ma non più fastidioso come in passato. Lontani anni luce dalle produzioni leccate che spesso contraddistinguono il rock della penisola, le differenze rispetto al primo volume sono minime anche se il secondo sembra più coeso e sfoggia il lato più sperimentale (su tutte, la battistiana Identikit) che esalta ancora meglio il talento del batterista Luca Ferrari (a questo proposito, ascoltate Dymo). La traccia iniziale, Cannibale, pare uscita direttamente dalla chitarra di Josh Homme con le sue parti soliste che disegnano deserti lontani, mentre la bellissima Troppe scuse ricorda nella sua melodia principale i Pixies di Where Is My Mind. Infine, se il primo volume si chiudeva con Funeralus, canzone cupa che lasciava spazio a contaminazioni elettroniche, qui la conclusiva Waltz del Bounty sembra invece una perfetta colonna sonora per una gita domenicale. Non resta che aspettare di vederli di nuovo in tour quest’autunno.

Low – Ones and Sixes

A due anni di distanza da The Invisible Way, disco che aveva segnato il ritorno alle sonorità che li avevano resi celebri, i Low ritornano con questo Ones and Sixes, dodici canzoni che ribadiscono l’amore della band verso i ritmi lenti e la malinconia assoluta. Il trio si è sempre distinto per una certa classe negli arrangiamenti delle canzoni, anche quando gli strumenti si limitavano a chitarra, basso e batteria, e in questo ultimo lavoro non smentisce la propria meticolosa attenzione ai dettagli. Ascoltando Gentle si rimane impressionati dalla cura con cui sono state costruite le ritmiche rimbombanti che preparano il palcoscenico per l’alternarsi dei due attori principali, le voci di Mimi Parker e Alan Sparhawk. In tutto il disco, la batteria pesantemente effettata suggerisce il passo di un ciclope che sembra mettersi in marcia per ripararsi dal freddo dell’inverno (su tutte, Lies). E poi, i dieci minuti di Landslide non rendono mai noioso il panorama di questo viaggio, neanche quando comincia una lunghissima e lenta coda che ci accompagna verso la fine.
I Low sono stati archiviati come i massimi esponenti dello slowcore ma è una definizione assai riduttiva considerando la loro longevità artistica e la loro voglia di sperimentare. Cos’altro si può aggiungere agli oltre vent’anni di carriera se non che questo gruppo riesce ancora a stupire?

Julia Holter – Have You in My Wilderness

“È impossibile capire chi sto aspettando nel mio impermeabile” canta Julia Holter nel ritornello dell’apripista Feel You di questo Have You in My Wilderness, disco che porta a compimento definitivo il suo pop raffinato e stravagante, ricco di citazioni letterarie e di enigmi che confondono l’ascoltatore. Quest’ultimo lavoro è più accessibile e meno concettuale rispetto ai tre precedenti, ma allo stesso tempo risulta più misterioso, come se la compositrice americana avesse capito l’importanza di non rispondere alle domande che lei stessa pone (How Long?). Le dieci canzoni offrono arrangiamenti d’archi sontuosi (Lucette Stranded On the Island o Night Song) che dialogano perfettamente con l’andamento jazz del contrabbasso e la voce di Holter, in un’atmosfera senza tempo – quasi fosse musica da camera – che fa sembrare impossibile l’idea che il disco sia uscito nel 2015. Basta ascoltare il singolo Sea Calls Me Home per convincersene, perfetto esempio di un modo di scrivere e produrre splendidamente anacronistico, con il suo bellissimo assolo del sax e il fischiettio che entra nel cervello.
Con questo album Julia Holter conferma di essere una delle voci più interessanti del panorama musicale americano e lancia il guanto di sfida alle grandi voci del passato.