Nel grandangolo di Rete che è Facebook, esiste una sparuta comunità di utenti – profili, pagine e gruppi – che fa del mezzo un uso piuttosto bizzarro. Bizzarro, sì, ma secondo quale sguardo? Avrà, il resto degli utenti, tempo e interesse sufficienti a prendere in considerazione quella nicchia? Perché la realtà è poi semplice: pur includendo indirettamente i famigliari, gli amici di infanzia, gli ex compaesani e tutti coloro che per casi e curiose necessità della vita sono o sono stati in “contatto” coi suoi componenti, la tale comunità rimane un salotto autoreferenziale, del tutto estraneo al resto dell’utenza – i.e. del mondo.
Di questo racconta un brano di Panorama (NN Editore, 2015, 200 pagine, 13 €), romanzo di Tommaso Pincio, pittore e scrittore, amante dei depistaggi e delle contraddizioni, l’ultima delle quali sta nientemeno nel colophon di questo libro, in gran parte ambientato in una realtà digitale ma, per «volontà dell’autore, […] disponibile esclusivamente in edizione cartacea».

Ecco il brano: «Guardava il monitor spento e lo prendeva un disagio strano. […] Ripensò […] a Panorama nel suo complesso […]. Il minuscolo mondo letterario per il quale aveva vissuto, una comunità dalla spropositata considerazione di sé benché ignorata dai più, aveva meritato di soccombere, spazzata via dall’arroganza di credersi testimone del mondo, custode di valori millenari, cuore dell’umanità […]: mancavano di qualunque minimo senso del ridicolo. Per troppo tempo, a lui e alle persone come lui, era sfuggita una verità più in bella vista di una lettera in un posacarte […]: non era morta la letteratura, erano morti loro, i letterati. La letteratura esisteva ancora, ma in una forma nuova, non più cartacea, non più scritta per essere letta. In un certo senso era tornata all’oralità, un’oralità diversa, non più fatta di voce e per essere ascoltata, e tuttavia in grado di parlare un linguaggio dei sensi, il verbo dell’organo dominante, l’organo della vista. Le parole e le cose che vedeva scorrere su Panorama non erano forse un racconto in continuo rifacimento? In quel piacere spasmodico di osservare le vite degli altri non si realizzava forse la sua idea di letteratura, origliare e sbirciare? E quelle lotte di insulti, quello spietato denigrare, quella sete di annientare l’altro, quelle crudeltà dal sapore quasi primitivo, non erano forse un forma di epica, una nuova guerra di Troia?» (pp. 152-153).

Seguono ora alcune righe di sinossi, dentro parentesi quadre. Chi – presumibilmente molti, tanto è stata discussa tra stampa, Rete, radio e persino tv – fosse già a conoscenza della storia, e chi invece soltanto non volesse anticipazioni, può saltarle.

[Il protagonista di questo brano, e del libro, è Ottavio Tondi, lettore. Lettore e nient’altro: finché può leggere, si rifiuta di scrivere; valuta manoscritti per un’importante casa editrice, per il resto non è inquadrato professionalmente, tantomeno come commercialista, secondo la carriera che il padre avrebbe voluto tramandargli. Il narratore – scrittore e giornalista – ne racconta la storia dopo aver trovato certi suoi manoscritti e alcuni tomi della sua biblioteca in un cassonetto sul marciapiede di piazza San Giovanni in Laterano, messi in vendita insieme ad altri libri «recuperati qua e là» da dei napoletani «poco più che barboni». Per fugare i sospetti di chi crede che il narratore sia il vero autore dei best seller firmati dallo pseudonimo di Gloria Stupenda – sospetti messi in circolo dalla scrittrice Teresa Ciabatti, persona reale calata da Pincio nel gioco di finzione – il direttore editoriale della stessa importante casa editrice propone ad Antonio Gnoli (alias se stesso), giornalista de «Il Presente» (alias «la Repubblica»), di intervistare chi Stupenda l’ha scoperta in un mucchio di manoscritti. La proposta passa, l’intervista si fa – nasce il caso e il personaggio Tondi, il quale comincia poco dopo a essere «invitato a leggere in pubblico un po’ ovunque […] nei festival più importanti, a Mantova, a Pordenone». Leggere in pubblico non significa però, per lui, leggere ad alta voce, bensì «tra sé e sé, sprofondato in un divano, circondato da libri», su un palcoscenico addobbato per l’occasione. Va così fino a quando, mentre legge per conto suo Bruges la Morta di Georges Rodenbach camminando in zona ponte Sisto a Roma, Tondi subisce un pesante pestaggio a opera di ignoti delinquenti. Prima i media lo beatificano, quale martire della lettura, poi Loretta Buia, giornalista sciacallo (sempre a libro paga de «Il Presente»), lo mette alla gogna, con la Rete che la asseconda a ruota in una perfetta shitstorm. Tondi, per il trauma causato dal pestaggio, non riesce più a leggere. Si compra allora un’utilitaria («Gli piaceva molto questa parola […]. Gli ricordava tempi che non c’erano più») e comincia a girare in tondo, per ore e ore al giorno, lungo il Grande Raccordo Anulare. E quando anche questa esperienza si esaurisce, grazie ai consigli dell’odiato Mario Esquilino (personaggio reale, ovvero poeta e autore di un libro inesistente nato da un’invenzione di Pincio nel 2014), Tondi diventa infine consumatore di marijuana e soprattutto utente di Panorama, social network simile a Facebook ma di gran lunga più inquietante.]

E da qui il discorso può finalmente ricadere sul lungo brano sopra citato.
Per Tondi – e per Pincio, sembra di poter dire, essendo lui il presunto narratore, il principale indiziato, che oltre ad aver raccolto i lasciti cartacei di Tondi da un cassonetto ne ha violato il profilo su Panorama, leggendo e pubblicando nel suo romanzo la corrispondenza con «Ligeia Tissot», profilo amato a distanza di una misteriosa e sedicente ragazza – il «mondo letterario», di per sé «minuscolo», appare definitivamente risolto nella dimensione ancor più minuscola di un social network. La «sfrigolante luce elettronica» di un monitor per pc rimanda Tondi a Panorama, Panorama rimanda a sua volta alla comunità letteraria. Ciò emerge, all’inizio del brano, come un lapsus o forse più semplicemente come un’ovvietà, che non ha dunque bisogno di premesse o giustificazioni di parte, e conferma la sensazione avvertibile all’interno della «comunità» reale, la nicchia di utenti evocata all’inizio di questo articolo. È questo lapsus l’elemento più interessante di Panorama (il libro), comunque non privo di altri buoni argomenti, e di molte altre contagiose riflessioni, smosse dalla narrazione con uno stile sempre chiaro e intrigante, ma che da solo non riesce a dotare le sue sostanze di una durata in grado di superare il tempo della lettura.

Ciò che rimane della lettura di Panorama non è tanto la rappresentazione di una nuova – e in fondo prevedibile – distopia, in cui la letteratura scompare dal mondo e il mondo finisce per essere regolato da feticci di esperienze e di relazioni, e relegato esizialmente alla dimensione di un social network. Ciò che rimane è l’elitaria necessità di interrogarsi sui destini del «mondo letterario», dei suoi rapporti con la letteratura che rimane, se ne rimane, fuori dai social e dei suoi rapporti col mondo; quindi sui destini della letteratura (italiana, sarebbe da precisare), della sua discussa morte e della sua incerta sopravvivenza – a dispetto del giudizio del narratore – anche se intesa nella forma di un ritorno all’oralità che non può essere tale, nemmeno quando considerata «diversa», dal momento che la si vuole persino «in grado di parlare […] il verbo dell’organo dominante, l’organo della vista». Non poca cosa dopotutto, specie facendo propria l’aspettativa generata dalla nota d’autore in calce al romanzo: più che un romanzo, questo è da considerarsi il «prologo di un testo più vasto e in divenire».

 

* La copia recensita di Panorama ci è stata gentilmente resa disponibile da NN Editore.