Un luglio afoso non ha scoraggiato le manie catalogatrici del nostro amico Rob che, tra una pinta di birra e un’altra nel suo semivuoto ma leggendario negozio Championship Vinyl, si è divertito ad ascoltare per noi alcuni dei dischi più chiacchierati di questo mese. Alta Fedeltà ritornerà al centro di villaggio a settembre.

Tame Impala – Currents

In meno di cinque anni gli australiani Tame Impala sono riusciti a passare dall’anonimato alla celebrità divenendo protagonisti della scena rock mondiale. Merito del tuttofare Kevin Parker che con Innerspeaker prima e Lonerism poi è riuscito a rispolverare le chitarre in un’epoca in cui sembrava che queste servissero più che altro come pezzo d’arrendamento. In Currents, l’ambizioso Parker trascina le sonorità della sua band cerebrale verso nuovi orizzonti nei quali i sintetizzatori anni Ottanta si mescolano con i tipici suoni pastosi della tradizione rock. Ciò è reso evidente dal singolo apripista Let it Happen, una lunga cavalcata su un tappeto di tastiere e un finale quasi vocoderizzato che ha spiazzato i fan del gruppo, e da Past Life, un episodio quasi new wave con una voce robotica in stile Air. Come nei dischi precedenti, la psichedelia non manca: il suono dei Tame Impala sembra sempre liquefarsi in un mare calmo e rassicurante, con la voce di Parker che resuscita l’anima del Lennon più stralunato. In Yes, I’m Changing sembra rispondere preventivamente alle critiche per questo cambio di stile, mettendo il luce quello che è il tema di fondo del disco, ovvero la contrapposizione tra spirito autoconservativo e attrazione per il rischio. Currents è un disco suonato e prodotto benissimo che conferma ancora una volta il talento dell’autore australiano.

The Chemical Brothers – Born in the Echos

Vent’anni di carriera e non sentirli. È passato tantissimo tempo da quando i fratelli chimici facevano ballare i piccoli club di Londra e venivano considerati la promessa più valida dell’elettronica anni Novanta. Eppure, ancora oggi riescono a sorprendere confezionando un ottimo lavoro con suoni caldi e avvolgenti. A cinque anni di distanza da Further, questo Born in the Echos colpisce per il piglio sperimentale da live band, come se il duo volesse disimparare quanto appreso fino a adesso per oltrepassare i confini delle proprie sicurezze. Ogni loro disco è occasione per collaborazioni eccellenti, e anche qui non mancano: la maestosa Annie Clark dà voce e chitarra a uno dei pezzi più futuristici del disco (Under Neon Lights), Cate Le Bron canta nel brano da cui il disco prende il nome, mentre Beck fa scendere lentamente il sipario con la sua voce malinconica (Wide Open). Ma sono le canzoni più strumentali (quelle che compongono la parte del centrale dall’album) che meglio manifestano lo sperimentalismo del duo inglese e che ribadiscono la loro proverbiale professionalità.

Wilco – Star Wars

Pure i Wilco entrano nella folta schiera della categoria “artisti rinomati che pubblicano un nuovo disco sul proprio sito senza avvisare nessuno”. L’uscita a sorpresa di Star Wars è da intendere come un regalo gratuito al proprio fedele pubblico, in attesa che esca la versione fisica prevista nei prossimi mesi. Se c’è una cosa che colpisce di questo lavoro è il prorompente ritorno alle chitarre rumorose che hanno reso celebre il gruppo di Chicago (come in EKL, il brano d’apertura dell’album). È cosa risaputa che gran parte del merito del meritato successo dei Wilco è ascrivibile all’originalità dei chitarristi, Nels Cline su tutti. Basta sentire quello che esce da King of You e Pickled Ginger per comprendere lo stile incredibile di questi musicisti. Inoltre, Star Wars è un disco diretto e semplice in cui la voce di Jeff Tweedy sembra dare un passaggio in macchina all’ascoltatore portandolo per gli spazi aperti del Midwest. Taste the Ceiling rappresenta il momento più radiofonico, dove l’intensità espressiva del cantante, rintracciabile pure nella classica “canzone Wilco” You Satellite, guida magistralmente tutti gli altri strumenti.
Un bellissimo regalo che dovete affrettarvi a scaricare qui.

Ezra Furman – Perpetual Motion People

Ezra Furman è un cantautore americano che due anni fa sorprese tutti pubblicando il suo secondo disco solista, l’ottimo Day of the Dog. Quest’anno, il menestrello irriverente di Chicago è tornato con un lavoro forse ancora migliore, continuando a proporre il suo strano intreccio di rhythm and blues, rock’n’roll e punk che catapulta l’ascoltatore nel passato della tradizione americana, in un luogo dove i suoni caldi degli strumenti sembrano raccontare la propria storia. Il piglio nevrotico del cantato di Furman, che ricorda Frank Black nei momenti più energetici (Tip of a match) e Neil Young in quelli più rilassati e malinconici (Haunted Head), è valorizzato dalla presenza di una sezione di fiati molto originale che rende ancora più interessante la musica di questo ragazzo. Ad esempio, in Watch You Go By i clarinetti impreziosiscono un pezzo in cui Furman sembra camminare pericolosamente sul ciglio di un marciapiede per fare l’alcol test. Perpetual Motion People è un disco che scorre velocemente, ma che è pieno di dettagli che lo rendono a suo modo una piccola perla.

Trembling Bells – The Sovereign Self

Se dovessimo scegliere un disco strambo per questo mese o addirittura per tutto l’anno, l’ultima fatica degli scozzesi Trembling Bells arriverebbe almeno sul podio. In The Sovereign Self, il quintetto ripropone quanto di buono fatto fino a oggi, ovvero un folk-rock elettrico e psichedelico molto originale che spesso sfocia in una sorta di parossismo sonoro. Per dare un’idea, nel loro personale pantheon di influenze musicali sono rintracciabili tanto i canti medievali quanto i Velvet Underground in un mescolamento di stili inedito. In questo The Sovereign Self, la presenza di un secondo chitarrista ha reso ancora più complesse le composizioni che in alcuni passaggi sconfinano nel prog (Bells of Burford), mentre spesso le chitarre s’inseguono rispondendosi come in un’esibizione di nuoto sincronizzato (Sweet Death Polka). Nei momenti più rockeggianti una Farfisa scandisce il ritmo di lunghe cavalcate che ricordano un po’ i Doors (Killing Time in London Fields). A impreziosire il tutto, la voce di Lavinia Blackwell che aggiunge un tono mistico alle ballate ipnotiche e cupe di questo lavoro.