Girare un documentario su un fantasma vivente non è facile operazione. Soprattutto se il fantasma in questione conosce bene il linguaggio del mistero e sa dosare i silenzi.

Quando l’imponente figura di Tiziano Sclavi si presenta sul grande schermo, si resta quasi increduli, come di fronte a un trucco ben riuscito. Il suo volto è una bizzarra sintesi di tratti infantili e di ombre durissime. La sua voce giunge direttamente da AltroQuando.

Alla proiezione del documentario Nessuno siamo perfetti di Giancarlo Soldi, allo spazio Oberdan di Milano, sono presenti esponenti del passato, del presente (e del futuro) della redazione di Dylan Dog, forse il più famoso fumetto italiano, prossimo a compiere trent’anni dalla sua prima pubblicazione. Il regista presenta materiale raccolto in un ampio arco temporale, arricchito di testimonianze di colleghi, artisti e ammiratori dell’ideatore del celebre indagatore dell’incubo. Soldi ha confessato qualche settimana fa, alla trasmissione radio Hollywood Party, di aver atteso diversi anni prima di dar forma compiuta alle interviste “rubate” al suo amico Sclavi, quasi per un sentimento di protezione nei confronti di quest’ultimo. L’autore di origini pavesi conduce infatti da tempo una vita di quasi totale isolamento, dopo aver interrotto l’attività di sceneggiatore e scrittore (esclusi alcuni brevissimi ritorni e la pubblicazione del romanzo Il tornado di Valle Scuropasso nel 2006), quasi a voler spegnere quella febbrile creatività, che lo ha condotto ad abissi più spaventosi di quelli affrontati dal suo personaggio/alterego Dylan Dog.

 

Fumetti da ardere

Che Sclavi avesse riversato nella sua creatura d’inchiostro una notevole parte di sé, erano in molti a sospettarlo. In questo documentario ne abbiamo una conferma per bocca dello stesso protagonista, quasi divertito nel raccontarci aneddoti del suo passato che hanno contribuito alla nascita del mondo di Dylan Dog. Sclavi ci racconta le volte in cui la madre, senza motivo apparente, raccoglieva tutti i suoi fumetti in cortile e li bruciava. Da qui la continua presenza, nel fumetto, di figure materne terribili, malvagie e spesso stregonesche. Per non parlare del primo incontro di Sclavi con la morte: in un obitorio. Un amico lo pone di fronte al raccapricciante spettacolo di decine di cadaveri di donne, uomini, vecchi, bambini, radunati in una sala: “Sono scappato urlando”. Il trasferimento a Milano, nel minuscolo appartamento di un palazzo dove i vicini sembrano detestarlo e osservarlo di continuo, alimentano una scrittura che racconta le paure annidate nel quotidiano, l’orrore che si cela nei gesti banali che compiamo ogni giorno e che lentamente ci conducono alla pazzia. Proprio come nel film di Polanski, l’inquilino del terzo piano.

 

Sogni e romanzi

La paura, per Sclavi, resta però un elemento fertile, necessario per la costruzione delle sue opere, sia narrative che fumettistiche. È con autentico rammarico che ci confessa ad esempio di non avere più “sogni horror” da cui attingere immagini e impressioni per nuovi soggetti. Come quella volta in cui sognò suo padre-zombie, gli staccò un braccio e cominciò a divorarlo. Sclavi assorbe ogni stimolo esterno, lo mastica e lo ripropone in una veste diversa, allo stesso tempo accessibile e ricercata. Romanzi, sogni, film e vissuto vengono centrifugati e trasformati in un nuovo alimento culturale: un fumetto dalle velleità romanzesche, espressione quasi perfetta di quello che Remo Ceserani chiama postmoderno, creatura ibrida e resistente, nella cui informalità risiede la sua vera forza. Sclavi nega di essere un artista, preferisce il termine artigiano, intento a rimescolare i suoi umili ingredienti: “Qualcuno, non ricordo chi, diceva che il vero artista è colui che sa rubare. Io al massimo copio”. Le immagini indugiano su quest’uomo laconico ma profondamente sincero e nel descrivere piccole scene, come il ricordo di centinaia di film visti con il taccuino in mano, pronto a raccogliere spunti per nuove storie.

 

L’opera sgangherata e sgangherabile

Dylan Dog è dunque la sintesi di più arti, il prodotto pop che colma un vuoto nel panorama culturale degli anni ottanta, così simile a quello che Alan Moore, oltreoceano, stavo realizzando con il suo Watchmen, esattamente negli stessi anni. Fumetti che parlano il linguaggio della letteratura, attraverso disegni che rivelano un impianto cinematografico. È Sclavi a ricordarci che tra i più grandi ammiratori del suo lavoro c’è Umberto Eco, il quale ha regalato una delle più curiose e affascinanti definizioni di Dylan Dog, come opera sgangherata e sgangherabile. Le sue storie infatti spesso non seguono una logica stringente, ma ogni scena può essere isolata senza privarla del suo senso e della sua autonomia, come una piccola cellula narrativa. I disegnatori intervistati ci raccontano come Sclavi lavorasse per blocchi narrativi: consegnava la sceneggiatura parziale di una storia, per poi procedere alla produzione del restante testo, in un secondo momento, spesso stravolgendo atmosfere e trama. Roberto Recchioni, nuovo curatore di Dylan Dog, ci spiega che “in un albo scritto da Sclavi non vi è quasi mai unità logica, ma unità emotiva”.

 

Inferni

Sclavi e il suo alterego condividono la stessa visione frammentaria del mondo (o dei mondi), in precario equilibrio tra ordine e caos, ragione e delirio. La produzione ininterrotta e febbrile di storie, che lo portavano a scrivere più di 15 sceneggiature per 15 disegnatori diversi, avevano condotto lo scrittore a ritmi disumani, alleviati da forti quantità di alcolici e a una sempre maggiore ostilità nei confronti del mondo. È di qualche anno fa la scelta di abbonandonare la scena, abdicare quasi del tutto, affidando la sua creatura a collaboratori fidati.

A fine proiezione, gli interventi sono soprattutto di conoscenti dell’autore e colleghi. L’atmosfera è surreale: si parla di Sclavi al passato, quasi fossimo a una veglia funebre. È Roberto Recchioni a chiudere la serata, infastidito da una certa precoce imbalsamazione di un autore vivente, che è semplicemente stanco. Stanco di noi e delle nostre infinite cazzate, come afferma alla fine del documentario.