[Questa intervista è uscita sul sito del Premio Gorky, che valorizza i rapporti tra letteratura russa e italiana, in occasione della presentazione dei candidati all’edizione 2015, la cui premiazione avverrà nella prima settimana di settembre sull’isola di Capri. Ringraziamo l’organizzazione del premio per la gentile concessione]


 

“J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans”

«Sei rimasto in silenzio per la vergogna o per lo stupore?» Persecuzione, prima parte del dittico intitolato Il fuoco amico dei ricordi, romanzo completato due anni più tardi, nel 2012, da Inseparabili, vincitore in Italia del Premio Strega, è aperto da questo esergo tratto dal De Consolatione Philosophiae di Boezio: contiene i due sentimenti attorno a cui si muove quella grande opera, ma direi tutta la narrativa di Piperno; due sentimenti fondati sulla disgiunzione che li esprime. Dietro la disgiunzione: la forza oscura dei ricordi. E sono proprio i ricordi, del resto, i veri attori della “persecuzione” di cui Leo Pontecorvo, protagonista del romanzo, è vittima.

 

A.C. Partirei proprio dal personaggio di Leo Pontecorvo. Mi fa pensare a un film recente di Vinterberg, Il sospetto (Jagten), il cui protagonista, Lucas, potrebbe essere la sua versione in positivo. Entrambi vengono ingiustamente accusati di una violenza sessuale: Leo (oncologo pediatrico di fama internazionale) su una ragazzina di dodici anni, Lucas (maestro d’asilo) su una bambina. Ciò che è interessante è la loro reazione. Lucas ha un atteggiamento socratico, combatte per ristabilire una giustizia non solo personale, ma universale. Leo, uomo pieno di ombre, e ben prima delle accuse (dal punto di vista del narratore almeno, che getta un sospetto su di lui perché borghese, ricco, figlio di ebrei scappati in Svizzera durante la Seconda guerra mondiale a fronte dei loro compagni deportati), non cerca mai veramente un riscatto, si nasconde, si arrende…

A.P. Non ho visto il film di Vinterberg, malgrado più di una persona mi abbia detto che si trattava di un lavoro eccellente, e che, inoltre, affrontava un tema non troppo diverso da quello trattato dal mio libro. Del resto, temo di doverle confessare che non l’ho visto a bella posta. Nel senso che ho fatto di tutto per perderlo. E non perché non mi interessasse ma, al contrario, perché mi interessava troppo. Stento a concepire una storia più terribile, e nella quale mi sia più facile identificarmi, di quella di un uomo così brutalmente diffamato. Diciamo che vederlo rappresentato sullo schermo sarebbe stato superiore alle mie forze.

Ma veniamo a Leo Pontecorvo, il protagonista del romanzo. C’è chi ha trovato la sua parabola umana del tutto implausibile: lasciarsi andare in quel modo, mollare, non difendersi, scegliere quasi deliberatamente prima la retraite, poi la morte… C’è chi mi ha detto: non è così che si comporta un essere umano. Un essere umano lotta per la verità. Ora, non so che tipi di esseri umani frequentino questi miei severi lettori. Gli esseri umani che frequento io non sono poi così temerari, e soprattutto tendono a perdersi in un bicchier d’acqua. La cosa che capita a Leo è d’un’enormità inconcepibile. Perdere tutto in pochi istanti: lavoro, famiglia, posizione sociale, rispettabilità, amore dei figli e della moglie… Esiste una reazione giusta di fronte a una perdita così colossale? È una cosa che mi sono chiesto mentre scrivevo quel libro. A cui non sono riuscito a dare una risposta.

 

Rimanendo sul cinema, pensavo che non potrei mai immaginare una riduzione cinematografica di Persecuzione. Farlo significherebbe stravolgerlo, nel senso che si dovrebbe inventare un personaggio ad hoc per il narratore, che una semplice regia non potrebbe sostituire, né un certo montaggio né una buona sceneggiatura. Il Suo narratore ha una coscienza molteplice e dialettica, imprevedibile, misteriosa. Forse solo un autore come Haneke, con la sua regia forte, sfondante il piano e l’ipocrisia della rappresentazione (consapevole che innanzitutto si vive ciò che si rappresenta, mentre lo si rappresenta), potrebbe realizzare un film da Persecuzione, che, come gli altri Suoi romanzi, è al 100% letteratura.

Di norma provo avversione per i libri che lasciano intravedere una comoda trasposizione cinematografica. Il cinema (persino il più sofisticato) è fatto di azioni; nei romanzi (a dispetto di ciò che dicono gli insegnanti di scrittura creativa, qualche demente narratore americano e certe signorine annoiate che scrivono la posta del cuore) l’azione ha un ruolo marginale. Non pretendo che tutti facciano come Proust che sfidava i suoi detrattori a trovare nella Recherche anche una sola scena in cui un personaggio inforca un cappello o apre una porta. Ma non posso nascondere che la narrativa che mi piace è quella in cui la gente non cammina, non mangia e dorme di rado. Mi piace la narrativa in cui la gente pensa a scopare ma non scopa mai. Come tradurre tutto questo in sceneggiatura? Prenda i tre massimi capolavori della narrativa moderna – Ulisse, la Recherche, Il castello. Ritiene che ce ne sia uno solo che possa diventare un buon film? La narrativa è fatta di pathos, di atmosfera, di personaggi indimenticabili, di meravigliose immagini, di metonimie. E il tutto va orchestrato attraverso inconfondibili giri di frasi. I dialoghi sono importanti, ma guai se rubano la scena a tutto il resto. Le descrizioni e le digressioni sono importanti ma guai se rubano la scena ai dialoghi.

Questa premessa noiosa era un modo per ringraziarla di quello che ho preso per un complimento. Anch’io troverei estremamente difficile immaginare un film tratto da Persecuzione, non meno di quanto sarei in imbarazzo se qualcuno mi offrisse tanti soldi per chiedermi di scrivere una sceneggiatura originale. Invidio molto i miei colleghi che si mettono lì a scrivere film e serie tv come se nulla fosse.

Per quanto riguarda Haneke, mi fa piacere che faccia il suo nome. E non solo perché contende a P.T. Anderson e a Tarantino il primato di maggior cineasta vivente, ma perché Funny games, e sopratutto Caché, sono stati modelli di riferimento costanti mentre scrivevo Persecuzione. Non esiste lavoro più sensato che enfatizzare, fino al parossismo se necessario, gli aspetti horror di un menage borghese.

 

Già prima della rivelazione delle ultime pagine di Inseparabili, il narratore appare talvolta sia omodiegetico che onnisciente. L’ho seguito con sospetto fin dall’inizio, e questo mi ha intrigato. Ad ogni modo, isolando Persecuzione dal libro che lo segue e che lo completa, emerge già la figura di un narratore ambiguo, contraddittorio anche. È onnisciente, ma prova spesso autentico stupore; disorienta il lettore facendolo stare prima contro poi dalla parte di Leo… Perché la scelta di un narratore simile? Era l’unico narratore possibile per questa storia? C’è chi potrebbe leggere solo Persecuzione: si troverebbe di fronte a un narratore “monco” o che può reggere anche senza la rivelazione che dicevo?

Fa bene a sospettare del mio narratore segreto. Non solo perché è un autentico impostore, ma perché la sua inattendibilità è pari solo alla sua malafede. Diciamo che il suo vero problema è essere parte in causa. Metterlo in scena in questo modo era una necessità creativa. Ahimè, riesco a concepire solo storie in cui chi scrive sia parte in causa. Non ho la voce per le grandi narrazioni impersonali di stampo flaubertiano. Sono sprovvisto del talento di Vargas Llosa. Per scrivere una storia ho sempre bisogno di un narratore che abbia un punto di vista. Tale punto di vista può essere, a seconda, caustico o petulante, comico o drammatico, intransigente o simpatetico, ma comunque deve essere sempre fazioso. Ho iniziato a scrivere Persecuzione e Inseparabili nel momento in cui ho capito chi era il narratore e che cosa gli rodeva.

Anche se per ragioni editoriali i romanzi sono due, per me esiste un solo romanzo intitolato Il fuoco amico dei ricordi. Mi dispiace che i due romanzi spesso vengano letti separatamente e non uno dopo l’altro. Tanto per essere chiari, non ho venduto i diritti a case editrici straniere che volevano comprarne soltanto uno. È vero, mentre scrivevo, sapevo che avrei dovuto spezzare in due il mio lungo romanzo. E mi piaceva l’idea di farne due romanzi autonomi, come Illusioni perdute e Splendori e miserie delle cortigiane. Ma mai per un solo momento ho dimenticato che quei due romanzi facevano parte dello stesso corpo narrativo. Che soprattutto essi (ancor più dei fratelli Pontecorvo) erano inseparabili. Per questo non m’importa che al lettore che legge solo Persecuzione non venga svelata l’identità del narratore. Non me ne considero responsabile. Se è curioso di saperlo legga Inseparabili. E, qualora non gli importasse scoprirlo, perché dovrebbe importare a me rivelarglielo prima del tempo?

Il vero guaio di questo lungo romanzo, la vera magagna irrisolta non è il Narratore, ma purtroppo la figura di Rachel, la madre. È lei a non mantenere le promesse. È lei a comportarsi in modo incoerente da un romanzo all’altro. Non c’è niente nella sua personalità che riesca a giustificare la sua scelta di abbandonare Leo a se stesso. Neppure gli equivoci di cui i due coniugi sono vittime. Nel primo romanzo il comportamento di Rachel poteva essere spiegato con il fatto che noi non conoscevamo le sue ragioni. Nel secondo romanzo le ragioni vengono finalmente spiegate, ma risultano o troppo deboli o del tutto implausibili. Questo mi dispiace molto, ma che posso farci?

 

COP_Piperno Alsessandro_Inseparabili.inddCiò che vorrei domandarLe ora riguarda invece un particolare secondo me emblematico, discutendo il quale vorrei introdurre un altro tema, quello della rappresentazione. A un certo punto del romanzo, emerge un fatto: Leo riceve delle illustrazioni (le stesse che vediamo lungo il libro), ma non sa da che parte arrivino. Inseparabili, seconda parte de Il fuoco amico dei ricordi, chiarirà questa faccenda, che vista dalla sola prospettiva di Persecuzione ricorda ciò che accade nel film di Haneke, Caché, che citava poco fa. Nel Suo libro si tratta di un mistero premeditato oppure l’origine delle illustrazioni tocca anche – come in Caché – la questione dell’ambiguità della rappresentazione?

Su questo ho le idee più chiare. Prima le ho detto che non sono andato a vedere un film per paura di esserne ferito. Amo molto le grandi rappresentazioni ma so anche che esse per me sono pericolose come il sale per un cardiopatico. Per questo volevo che il mio Leo fosse tormentato da immagini sarcastiche e profetiche. Del resto, mi piaceva anche che fossero immagini fumettistiche. Pensavo all’inquietudine che mi provocano i graphic novel di Frank Miller o di Alan Moore. Ma è evidente che quelle immagini potrebbero essere l’ennesima mistificazione del narratore. Forse non sono mai esistite. Forse Leo non le ha mai viste. Ecco, in questo caso l’ambiguità mi piace. Mi sembra una conquista più che un fallimento.

 

Illustrazioni a parte, in Persecuzione mi pare sia evidente il tema dell’immagine, e ancor più quello della fotografia; in una sola definizione, della rappresentazione figurativa. Le faccio due esempi. Il primo. Herrera, l’avvocato di Leo, da ragazzo chiede al suo rabbino, poche settimane prima del Bar Mitzvàh, «perché Dio avesse proibito agli ebrei il conforto delle immagini», e il rabbino risponde: «La verità è tutto ciò che le immagini non dicono». Il secondo esempio vede Leo allarmarsi dopo la visione sul giornale di una fotografia che lo ritrae a cavallo: c’è un mancato riconoscimento tra Leo soggetto e Leo rappresentato. La questione è reale? Voglio dire, per Lei è una questione importante questa dell’iconoclastia e del riconoscimento mancato nel ritratto (questione che si ritrova, per fare due nomi, in Proust e Barthes)?



Già, temo di far parte (indegnamente) della stessa confraternita iconoclasta. Intendiamoci, adoro le immagini. Me ne cibo continuamente. Una delle cose che so fare meglio è commentare un quadro. E forse proprio per questo so che le immagini, come tutte le cose che flirtano con l’evidenza e con l’obiettività, sono farabutte e doppiamente ingannevoli. La reazione di Leo di fronte alla sua foto apparsa su un quotidiano non è troppo dissimile da quelle che ho io ogni volta che mi imbatto per caso nel mio brutto muso stampato sulla pagina di un giornale. “Come può questa faccia da cazzo scrivere buoni libri?” mi chiedo in un improvviso attacco di panico. Una volta un amico fotografo, da me interrogato sulla questione, mi assicurò, non senza pomposità, che una buona foto rivela di te molto più di quanto tu non sia disposto a confessarti. Mi ha detto che le buone foto e i buoni fotografi ti denudano, e tutte queste altre minchiate. Spero che si sbagli… Dopotutto sono nipote di un signore che stracciava rabbiosamente tutte le foto che non dessero conto della sua grandezza umana. A parte gli scherzi, credo che ci sia di mezzo la sindrome dell’impostore da cui sono affetto. Malgrado fin qui qualcosa di buono abbia combinato (nella vita, intendo) temo sempre che il mio bluff venga svelato: perché non dovrebbe essere la mia stessa faccia a svelarlo?

 

In un’intervista rilasciata a Cristina Taglietti sul Corriere della Sera ha dichiarato: «Mi sono fatto l’idea che la memoria sia una condanna, che non ci sia niente di lirico in essa, che i ricordi siano appunto una specie di fuoco amico: bordate di cannone che colpiscono il fratello invece che il nemico». In effetti Leo, e con lui tutti i personaggi, sembra perseguitato, più che dal processo e dalle accuse ingiuste, proprio dai ricordi. Nella Sua opera, i ricordi è come se costituissero un narratore sopra il narratore; essi non sono solo evocativi, è come se vivessero, già prima di essere espressi, in ogni istante. Il ricordo, emergendo, porta l’essenza dell’esperienza, come un’idea platonica mi pare: un’idea sensibile, per dirla con Merleau-Ponty. La questione del ricordo ha per Lei una valenza conoscitiva oltre che narrativa?

Come tutte le cose che dichiaro esplicitamente di odiare anche i ricordi mi suscitano riflessioni penose e sentimenti ambivalenti. Dopotutto viviamo nel tempo; lo strato più spesso (il più denso) della nostra coscienza è composto per lo più da ricordi, non tutti piacevoli, non tutti spiacevoli. Un uomo senza memoria non esiste. Un uomo affetto da amnesie non ha identità. Tale l’importanza dei ricordi. È una cosa che mi affligge da tutta la vita. Ogni tanto sogno di non avere ricordi, così come sogno di non essere paralizzato dalle mie abitudini. Ho sempre trovato affascinante il modo antitetico in cui la memoria proustiana funziona rispetto a quella nabokoviana. Se per Proust ricordare è una gran fatica, un atto inutile e inservibile se non ravvivato da un’epifania, che, per altro, si rivela sempre effimera, per Nabokov ricordare è un esercizio lucido e consapevole, cui un artista si deve consacrare. Ecco perché i suoi ricordi sono nitidi e sereni come una pala rinascimentale. Invidio molto Nabokov ma capisco Proust. È difficile avere un atteggiamento sereno e distaccato nei confronti del proprio passato. Almeno io non ci riesco. Tutto quello che non ricordo mi esaspera e tutto quello che ricordo mi appare greve. Sarà per questo che nei romanzi che scrivo i ricordi hanno la pulsante consistenza di un’emicrania. È come se Leo si sentisse letteralmente forgiato dai suoi stessi ricordi. E qualcosa di analogo avviene anche ai suoi figli. I ricordi personali pesano non meno dei fattori ereditari. Ricorda quel magnifico verso di Baudelaire? “J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans”. È così che i miei personaggi si sentono: hanno più ricordi che se avessero mille anni.

 

PersecuzioneHo letto da qualche parte che, anche se avete poco o niente in comune, quello di Leo Pontecorvo è il personaggio in cui si riconosce maggiormente. Trovo molto affascinante la sua duplicità, che si riflette poi nei due figli, Filippo e Samuel (i fratelli protagonisti di Inseparabili): è orgoglioso di Samuel e quasi si vergogna di Filippo, così come prova orgoglio per se stesso nella misura in cui è socialmente approvato e apprezzato, mentre prova vergogna della sua paura e del giudizio degli altri. Ha una personalità narcisistica, da un lato, e passivo aggressiva dall’altro (penso al mutismo – rievocato dal narratore – come reazione alle discussioni con la madre).Le va di raccontare un po’ il Suo rapporto col personaggio di Leo?



È proprio così: Leo Pontecorvo, sebbene non condivida quasi nulla con il suo tremebondo creatore, è il mio personaggio più autobiografico. Lo so: è avvenente, ricco, talentuoso, a suo modo spigliato, inoltre è un uomo di grande successo. Qualità che, ahimè, non mi competono. Eppure non c’è niente che mi somigli di più della sua debolezza, della sua imperizia, della sua incapacità di reagire di fronte alle avversità. È un uomo inesperto, forgiato nella colpa, totalmente sprovvisto di ogni spirito pratico. Un uomo che ama solo il suo lavoro e il piacere. Insomma un vero cazzone. Grazie al cielo a me non è capitato mai niente di così terribile (almeno per il momento). La cosa più pubblica che ho dovuto affrontare nella vita è la mia carriera di scrittore. Ebbene, se guardo retrospettivamente la parabola di questo mio mestiere, mi rendo conto che sempre più nel tempo ho agito come Leo Pontecorvo. Se togliamo la parentesi del Premio Strega (che infatti non ho vissuto serenamente – né prima né durante né poi –, e ringrazio Dio che sia finita!)… Dicevo, se togliamo quella parentesi, ho fatto in modo negli ultimi anni di disertare qualsiasi occasione che rischiasse di espormi all’inconsulta malmostosità del prossimo. Non mi sono consentito alcun intervento che esulasse dal mio campo d’azione: i libri. Ho declinato inviti di librai, festival, saloni di ogni sorta. Sto riducendo parecchio anche la mia attività giornalistica. Sogno il giorno in cui non avrò più la necessità di pubblicare i libri che scrivo (per inciso, temo che lo sognino anche parecchi lettori).

 

Due domande per chiudere. Sta lavorando a qualcosa di nuovo?

Diciamo che non amo parlare di quello che sto facendo. È una forma di pudicizia e di scaramanzia.

 

C’è qualcosa di importante, riguardo Persecuzione, che non ha mai avuto occasione di dichiarare o che i critici, o i lettori, non hanno riconosciuto?

Per i miei gusti, sui miei libri di cose ne sono state dette anche troppe (anche se per lo più a sproposito).