#1

 

Dicono che la seconda persona vada utilizzata in modo cauto. Limitandola al momento drammatico e assicurandosi che non sia figlia della pigrizia o, peggio, di un effimero eccesso di pathos. Detto questo, c’è chi se ne frega. L’ha fatto McInerney nel suo allucinato Le mille luci di New York. Lo fa Mark Kozelek, frontman del progetto Sun Kil Moon, in molti dei testi del suo ultimo disco Benji.

Kozelek è un cantastorie eccentrico, e non stupisce che le sue canzoni abbiano al centro la famiglia, o fatti e persone che lo riguardano da vicino. Il legame personale non fa che amplificare il sapore della confessione e la sensazione è quella di trovarsi davanti non a undici tracce, ma a un unico grande albero genealogico, in cui la voce del narratore si mescola a quella dei suoi personaggi.

Kozelek indaga sulla morte raccontando alcuni scorci di quando amici e parenti erano ancora in vita, rivolgendo loro domande dirette o, come in una sorta di Spoon River, lasciando che ciascuno si racconti da sé. Così veniamo a sapere della gravidanza precoce di Carissa, seconda cugina di Kozelek, morta in un incendio causato dall’esplosione di una macchina per aerosol (Carissa); scopriamo che si tratta della stessa morte assurda e accidentale in cui era incappato il nonno della ragazza, ex camionista in pensione,  il giorno del suo compleanno (Truck Driver); veniamo a sapere di Katy Kerlan-primo bacio, di Patricia-primo amore (naturale come i 17 minuti di Dogs che Kozelek racconta anche essere soundtrack di un personalissimo coming of age) e di Deborah che vive sull’Erie Canal, lo stesso fiume che attraversa anche Massillon, città natale del cantautore (Dogs). Nella traccia #6 Kozelek racconta la storia di Jim Wise, un amico di suo padre che, dopo aver sparato un colpo in testa alla moglie tenta il suicidio senza riuscirci. La tragedia si consuma in ospedale, mentre Jim siede accanto al letto della moglie che un ictus ha reso incapace di parlare: l’idea che la donna non possa più prendersi cura del suo roseto lo atterrisce – dichiara Jim, poi imbraccia il fucile e spara (Jim Wise).

In altre due tracce (Pray for Newtown e Richard Ramirez Died Today of Natural Causes) sono citati fatti di cronaca – non solo americana – degli ultimi trent’anni: si tratta di omicidi o stragi compiute in solitaria come i delitti del Night Stalker Richard Ramirez o la sparatoria del Cinema Aurora a Portland durante la proiezione di mezzanotte dell’ultimo Batman di Nolan. Kozelek li intreccia con il proprio vissuto personale, ricorda i libri che stava leggendo, il nome dell’albergo in cui si trovava, il fatto di aver preso un aereo per Cleveland per il funerale di Carissa (sì, quella Carissa). L’idea che il male sia parte dell’uomo ritorna come un mantra nei testi di Benji; l’empatia di Kozelek, per coloro di cui narra la storia, ricorda a tratti quella a cui ci aveva abituato lo Springsteen di The Ghost of Tom Joad, in cui la voce veniva data agli ultimi, nonostante e aldilà di ogni colpa.

E poi c’è Micheline. Micheline è una ragazza con un ritardo mentale che era solita bussare a casa di Kozelek domandando di fare il bagno con lui. Micheline ci parla di Brett, un amico di Mark, che aveva questo modo strano di fare il barré, con l’indice e il medio lontanissimi l’uno dall’altro. Quando Brett muore, Kozelek è a Malmö: sua madre lo prega di scrivere ai suoi genitori. Sempre in Micheline, Kozelek racconta di una nonna vissuta a Los Angeles, e di lui, bambino, che la va a trovare; di due amici, Marceau e Cyrus Hunt, con cui era solito andare in centro a dar da mangiare ai piccioni. È  proprio a L. A. che Kozelek ha visto per la prima volta l’oceano e Benji al cinema; ed è sempre qui che ha ascoltato per la prima volta Young Americans. Anche I Watched the Film “The Song Remains the Same”, il film del concerto dei Led Zeppelin al Madison Square Garden di New York, è un’occasione per parlare di un incantesimo. Quando certe canzoni ritornano lo fanno trascinandosi appresso tutta una serie di sensazioni che aggallano con estrema precisione senza che il ricordo sia nitido. Mark racconta di un episodio di quando era bambino, di un amico che vive nel deserto vicino a Santa Fe, poi subito di coloro che l’hanno aiutato a diventare il musicista che è oggi. Questa è la penultima traccia e ha già il sapore della fine, se non fosse che, come dicevamo in apertura, Kozelek è un eccentrico e prima di lasciare cadere il microfono a terra, spara l’ultima cartuccia dal titolo Ben’s My Friend. Il pezzo è forte, la storia paracula. Il suo amico Ben, infatti, è Ben Gibbard dei The Postal Service; Mark, dopo una giornata trascorsa senza concludere nulla, passando svogliatamente dal letto a Union Street per poi rintanarsi in uno Sport Bar, decide di andare a sentire Ben, ma realizza tardi che al concerto hanno tutti almeno vent’anni meno di lui. Kozelek regala a due ragazze il suo pass per il backstage e torna a casa a scrivere l’ultima canzone dell’album: questa. Alla ragazzina che gli chiede se qualcosa non va, Kozelek risponde: “I can’t explain it, It’s a middle age thing”.

 

Canal

#2

 

Come musicista, Mark Kozelek porta con sé un’inquietudine che viene da lontano. Espressa nelle emozioni buie del cantautorato americano degli anni ’90, e con il gruppo della sua giovinezza artistica: i Red House Painters. Un malessere fatto di canzoni scarne e lentissime: suite acustiche ed elettriche, suonate con una delicatezza tale da suscitare, in brani come Katy Song, un immobilismo lieve e disarmante, condannato alla dissoluzione. Dai primi anni Zero il progetto Sun Kil Moon (quasi una carriera solista) ha alimentato con fedeltà questa narrazione interiore e l’ha arricchita di storie e orizzonti, limando il male esistenziale.

Benji è il sesto disco di questo secondo corso, e si apre con l’arpeggio di chitarra classica di Carissa, un giro tra i più essenziali del Kozelek recente e anche uno dei più memorabili: semplicità solenne che accoglie la voce e il suo racconto, come se lo si ascoltasse con il sole in volto, di fronte a una steppa estesa. I Can’t Live Without My Mother’s Love fa leva sul cantato aspro e melodioso, mentre Dogs inizia lontana come canto di frontiera, per poi svilupparsi, tra voci sovrapposte e percussioni, come invocazione ritmata. Rispetto ai dischi recenti, canzoni blues e andanti come I Love My Dad ricordano un album come Ghost of the Great Highway (2003), dove l’epicità dei testi nei riferimenti al pugilato (lo stesso nome, Sun Kil Moon, è in omaggio al pugile Kim Sung-moon) si trova ora nei temi musicali di Benji, e nelle sue storie più intime. Tra i brani soffusi figura I Watched the Film the Song Remains the Same, con l’arpeggio a ricordare la precarietà di The Microphones, mentre l’album si chiude con l’esaltante Ben’s My Friend: in movimento su cadenze acustiche e i grandi fiati, a seguire le parole, e immaginando distese di grano (complice la copertina). Affrancato dal candore disperato di diversi anni fa, Mark Kozelek indaga in musica la sua epopea sentimentale, con un distacco vitale.

 

        Sun Kil Moon suonerà con band al completo, il prossimo 9 giugno, al Carroponte di Sesto San Giovanni (Mi).